VERONA. I leoni dell’Adige sono romani
Bartolo Fracaroli
23 febbraio 2007, L'ARENA
Per gli studiosi le statue ritrovate nel fiume fra i ponti di Castelvecchio e Risorgimento risalgono al primo secolo dopo Cristo
Cavalieri Manasse: «Facevano parte di un grande monumento funebre»
Sono del classico marmo giallo di Sant’Ambrogio di Valpolicella
Ma quante belle congetture e fieri propositi dislocativi per i due splendidi leoni marmorei affiorati in Adige dai lavori del Genio Civile, nella tratta fra i ponti di Castelvecchio e del Risorgimento sul lato verso la Campagnola. Bastava sentire d’insieme un geologo, un archeologo e un paio di storici. Magari anche un archeologo subacqueo.
Romani, sono romani del I secolo dopo Cristo i due leoni. E autentici. Il marmo è il classico giallo di Sant’Ambrogio di Valpolicella, dove la cave erano anche allora attivissime (basta guardarsi in giro per la città). Poi lo trasportavano al fiume, lo imbarcavano su grandi scafi da trasporto e lo portavano in tutta l’Alta Italia, per fiumi e mari e paludi e lagune. Si trova tutto nei libri sui marmi veronesi di Pier Paolo Brugnoli, dai secoli romani a quelli romanici e, per Brugnoli, possono benissimo essere stati scolpiti in riva al fiume in Valpolicella e poi trasportati su acqua, come è accaduto più volte: il naviglio naufragò, perdendoli. «Ci sono state addirittura barche che si sono incendiate e poi sono affondate», dice lo studioso.
Poi si scomoda Giuliana Cavalieri Manasse, responsabile del Nucleo Operativo della Soprintendenza Archeologica del Veneto (per l’età romana) che dichiara: «Facevano parte di una grande erma funeraria, una plastica architettura verticale, che li poneva sopra due figure umane sul cui capo poggiavano simmetricamente la zampa sollevata. Ecco perché a entrambi mancano le zampe: la destra all’uno e la sinistra all’altro. Sono state spezzate al momento dello smembramento del mausoleo. I romani avevano una estesissima area cimiteriale, una grande necropoli, fuori porta San Giorgio che si estendeva sulla Campagnola. Evidentemente sono reperti di spoglio, di riuso. Ve ne sono anche in Emilia e ad Aquileia».
«La Campagnola era costruita. Solo nel Cinquecento fu spianata dai Veneziani dopo la lega di Cambray del 1516. Prima vi erano, a Castelvecchio, la chiesa di San Martino in Aquaro e fra i coltivi l’importantissima San Giovanni in Sacco fatta erigere da Leonetta Malaspina, dignitario dei Della Scala nel XVI secolo, con un ospizio per nobili decaduti. Lui morirà nel 1352 e verrà collocato nella navata il monumento funebre ora al Victoria and Albert Museum di Londra. Un capolavoro di scultura gotica - dice lo storico docente universitario a Trento Gian Maria Varanini -. Ma i leoni non vengono certo dalle chiese, non sono stilofori, possono esservi stati reimpiegati, occorrerebbero analisi petrografiche». Non certo il Carbonio 14 come si è letto, dato che funziona solo su sostanze e resti organici, vegetali e animali, non minerali.
«Il fiume prima scava a monte e poi deposita a valle - espone il dottor Roberto Zorzin, conservatore di Geopaleontologia al Civico Museo di Storia Naturale - quindi anche qui il letto si è abbassato evidenziando i reperti, bisogna anche tenere conto di tutte le vicissitudini che l’area ha subito nei secoli, non solo dai muraglioni in poi».
Altri leoni marmorei romani «veronesi» sono al museo Maffeiano e dietro l’erma di Umberto I al ponte Navi, il coperchio di un sarcofago che, un tempo, era vicino alla Porta dei Leoni nella via omonima.
Mentre adesso il fiume è considerato solo un corpo estraneo ingombrante della città, un tempo ne era parte vitalissima. Per questo non sorprende che vi siano ancora affioranti testimonianze delle passate civiltà. Adesso sono dentro l’ex caserma austriaca a lato di San Tommaso Cantauriense, affidati per competenza al Servizio di Archeologia Subacquea Alta Italia del gruppo «Nausicaa».
Bartolo Fracaroli
23 febbraio 2007, L'ARENA
Per gli studiosi le statue ritrovate nel fiume fra i ponti di Castelvecchio e Risorgimento risalgono al primo secolo dopo Cristo
Cavalieri Manasse: «Facevano parte di un grande monumento funebre»
Sono del classico marmo giallo di Sant’Ambrogio di Valpolicella
Ma quante belle congetture e fieri propositi dislocativi per i due splendidi leoni marmorei affiorati in Adige dai lavori del Genio Civile, nella tratta fra i ponti di Castelvecchio e del Risorgimento sul lato verso la Campagnola. Bastava sentire d’insieme un geologo, un archeologo e un paio di storici. Magari anche un archeologo subacqueo.
Romani, sono romani del I secolo dopo Cristo i due leoni. E autentici. Il marmo è il classico giallo di Sant’Ambrogio di Valpolicella, dove la cave erano anche allora attivissime (basta guardarsi in giro per la città). Poi lo trasportavano al fiume, lo imbarcavano su grandi scafi da trasporto e lo portavano in tutta l’Alta Italia, per fiumi e mari e paludi e lagune. Si trova tutto nei libri sui marmi veronesi di Pier Paolo Brugnoli, dai secoli romani a quelli romanici e, per Brugnoli, possono benissimo essere stati scolpiti in riva al fiume in Valpolicella e poi trasportati su acqua, come è accaduto più volte: il naviglio naufragò, perdendoli. «Ci sono state addirittura barche che si sono incendiate e poi sono affondate», dice lo studioso.
Poi si scomoda Giuliana Cavalieri Manasse, responsabile del Nucleo Operativo della Soprintendenza Archeologica del Veneto (per l’età romana) che dichiara: «Facevano parte di una grande erma funeraria, una plastica architettura verticale, che li poneva sopra due figure umane sul cui capo poggiavano simmetricamente la zampa sollevata. Ecco perché a entrambi mancano le zampe: la destra all’uno e la sinistra all’altro. Sono state spezzate al momento dello smembramento del mausoleo. I romani avevano una estesissima area cimiteriale, una grande necropoli, fuori porta San Giorgio che si estendeva sulla Campagnola. Evidentemente sono reperti di spoglio, di riuso. Ve ne sono anche in Emilia e ad Aquileia».
«La Campagnola era costruita. Solo nel Cinquecento fu spianata dai Veneziani dopo la lega di Cambray del 1516. Prima vi erano, a Castelvecchio, la chiesa di San Martino in Aquaro e fra i coltivi l’importantissima San Giovanni in Sacco fatta erigere da Leonetta Malaspina, dignitario dei Della Scala nel XVI secolo, con un ospizio per nobili decaduti. Lui morirà nel 1352 e verrà collocato nella navata il monumento funebre ora al Victoria and Albert Museum di Londra. Un capolavoro di scultura gotica - dice lo storico docente universitario a Trento Gian Maria Varanini -. Ma i leoni non vengono certo dalle chiese, non sono stilofori, possono esservi stati reimpiegati, occorrerebbero analisi petrografiche». Non certo il Carbonio 14 come si è letto, dato che funziona solo su sostanze e resti organici, vegetali e animali, non minerali.
«Il fiume prima scava a monte e poi deposita a valle - espone il dottor Roberto Zorzin, conservatore di Geopaleontologia al Civico Museo di Storia Naturale - quindi anche qui il letto si è abbassato evidenziando i reperti, bisogna anche tenere conto di tutte le vicissitudini che l’area ha subito nei secoli, non solo dai muraglioni in poi».
Altri leoni marmorei romani «veronesi» sono al museo Maffeiano e dietro l’erma di Umberto I al ponte Navi, il coperchio di un sarcofago che, un tempo, era vicino alla Porta dei Leoni nella via omonima.
Mentre adesso il fiume è considerato solo un corpo estraneo ingombrante della città, un tempo ne era parte vitalissima. Per questo non sorprende che vi siano ancora affioranti testimonianze delle passate civiltà. Adesso sono dentro l’ex caserma austriaca a lato di San Tommaso Cantauriense, affidati per competenza al Servizio di Archeologia Subacquea Alta Italia del gruppo «Nausicaa».