mercoledì 30 gennaio 2008

Cinquantaquattro anni tra il 14 e il 68 dopo Cristo

La Stampa
25/03/2001

Cinquantaquattro anni tra il 14 e il 68 dopo Cristo

Cinquantaquattro anni tra il 14 e il 68 dopo Cristo, nei quali Roma fu nelle mani della dinastia giulio-claudia, furono assai tormentati. Il primo imperatore, Tiberio (14-37 d.C.), mostrò una buona predisposizione al comando. Ma, allorché si ritirò a Capri e lasciò il governo al prefetto del pretorio Elio Seiano, la città precipitò in un clima di efferatezze e crudeltà. Fu poi la volta di Caligola (37-41 d.C.) di cui la tradizione antica lasciò il ritratto senza sfumature di un tiranno sanguinario. Gli subentrò suo zio, Claudio (41-54 d.C.), che la tradizione di cui sopra ci ha tramandato come vittima di due mogli corrotte: Messalina, che lui stesso mise a morte e Agrippina, sorella di Caligola, che lo uccise con il veleno. Agrippina avrebbe compiuto quell’orrendo crimine per favorire l’ascesa al trono di suo figlio Nerone (54-68 d.C.). Che l’avrebbe ripagata uccidendola. Dopodiché, sempre secondo la tradizione antica, Nerone inflisse a Roma grandi sofferenze fino a quando il senato, a seguito di una ribellione armata, lo dichiarò nemico della patria costringendolo a darsi la morte. Il tutto precipitò nel biennio dell’«anarchia militare» (68-69 d.C.) nel quale si succedettero per brevi periodi tre imperatori proclamati dalle rispettive legioni, Galba che dalla Spagna aveva guidato la rivolta antineroniana, Otone e Vitellio. Sotto la loro autorità Roma sembrava avviata a un declino irreversibile. Negli ultimi anni il giudizio sulla gens giulio-claudia è stato profondamente rivisto. Non solo per quel che riguarda le stagioni di Tiberio e Claudio, ma anche di quelle di Caligola e Nerone è stato messo in evidenza qualche pregio che per centinaia di anni, salvo qualche eccezione, era passato inosservato. Ciò non toglie che Roma giunse stremata al biennio dell’«anarchia militare» e davvero riteneva di non risollevarsi più. Tant’è che quella stessa tradizione antica di cui abbiamo detto quasi per compensazione fu sostanzialmente generosa nei confronti del nuovo imperatore Tito Flavio Vespasiano (69-79 d.C.) e della dinastia Flavia, costituita oltre che da lui stesso, dai suoi figli, Tito (79-81 d.C.) e Domiziano (81-96 d.C.). Solo su quest’ultimo rinnovarono le critiche che erano state rivolte ai loro predecessori. Ma agli occhi degli storici contemporanei o di poco successivi, il solo fatto di essere venuti dopo la crisi neroniana e quella anarchica era di per sé un merito. In particolare per quel che concerneva Vespasiano. Questi era un italico, originario della Sabina, figlio di un banchiere e nipote, per parte di madre, di un senatore. Nei sessant’anni che precedettero la sua ascesa al potere era stato tribuno militare in Tracia, questore a Creta e in Cirenaica, comandante di una legione in Germania e successivamente in Britannia (fu lui che conquistò l¹isola di Wight). Tacito fu assai poco indulgente per il modo in cui si era comportato tra il 62 e il 65 da proconsole in Africa. Ma Svetonio lodò la sua onestà. Con Nerone i suoi rapporti furono complicati: rischiò la morte per essersi assopito durante una sua esibizione canora. Ma poi fu perdonato e nel 66 gli fu assegnata la guida della guerra giudaica. Che fu difficilissima e si concluse con una netta vittoria sugli ebrei di cui prese il merito Tito che aveva ereditato il comando dal padre. Nel frattempo Vespasiano aveva raccolto i frutti della congiura che pose fine all’«anarchia militare». Mentre lui se ne stava ad Alessandria, le legioni di stanza sul Danubio avevano marciato contro Vitellio, lo avevano battuto nei pressi di Cremona e successivamente avevano conquistato Roma. Con una spaventosa guerra, strada per strada, in cui trovò la morte anche il fratello di Vespasiano Flavio Sabino, prefetto della città. Giunto al potere, Vespasiano fece di tutto per far dimenticare questo spargimento di sangue e la stagione dell’anarchia e soprattutto quella neroniana. Si impegnò a risarcire il senato, a riedificare la città. L¹anfiteatro Flavio, il Colosseo, è la testimonianza più importante di quella stagione di governo. Nella quale peraltro furono riparate strade e acquedotti, ricostruito il Campidoglio, edificati un nuovo foro e il tempio della Pace. Con gli intellettuali, Vespasiano, uomo semplice ancorché tutt’altro che rozzo, fu magnanimo. A patto che non ordissero congiure come ritenne che avesse fatto il filosofo stoico Elvidio Prisco, capo dell’opposizione senatoria, che, individuato come cospiratore, fu costretto a suicidarsi. L¹uomo che meglio rappresentò la cultura del consenso ai suoi tempi fu Plinio il Vecchio. L¹autore della Storia naturale servì Vespasiano con dedizione, fu da lui nominato comandante della base navale di Miseno e trovò la morte soffocato dalla cenere dell’eruzione del Vesuvio nel 79 che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia. Ed è al rapporto tra Plinio il Vecchio e Vespasiano che Luca Canali, con la collaborazione di Maria Pellegrini, ha dedicato una bellissima Vita di Plinio che sta per essere pubblicata dall’editore «Ponte alle Grazie». Diciamo subito che Plinio non era affatto vecchio quando morì per essere andato a studiare da vicino, mentre tutti fuggivano, gli effetti dell’eruzione del Vesuvio. Aveva appena cinquantasei anni quel «protomartire della scienza sperimentale» (la definizione è di Italo Calvino). E buona parte di quegli anni li aveva dedicati a scrivere i trentasette libri della Storia naturale: trentaquattromila notizie frutto di osservazioni dell’autore oltreché della consultazione di duemila volumi di cinquecento autori. Su temi che spaziano dalla geografia alla cosmologia, dall’antropologia all’etnografia, dalla zoologia alla biologia, alla medicina, alla metallurgia, alla mineralogia. Con ampie incursioni nei campi dell’architettura e della storia dell’arte. Plinio viveva a Miseno con la sorella Plinia e il figlio di lei, anche lui Plinio. Fu detto «il Vecchio» proprio per distinguerlo da quel nipote che fu poi soprannominato «il Giovane». Quest’ultimo raccontò che, al momento della morte, suo zio gli aveva lasciato centosettanta volumi di estratti di letture con fogli scritti su entrambe le facciate in caratteri minutissimi. «Non c’è nessun libro così spregevole da non poterne ricavare qualcosa di utile», diceva «il Vecchio». E così scriveva di sé nella prefazione alla Storia naturale: «Sono un uomo, sono affaccendato nelle occupazioni di ogni giorno; mi dedico a opere come questa nei ritagli di tempo, vale a dire di notte (perché qualcuno di voi non pensi che, almeno in quelle ore, io me ne sia stato inoperoso). I giorni li dedico a voi, le mie ore di sonno sono quelle strettamente necessarie alla mia salute e mi accontento di quest’unica ricompensa: che mentre rimugino codeste cose, aggiungo ore alla mia vita». Per poi concludere con una frase che è rimasta celebre: «Si può infatti dire con certezza che vivere è vegliare (vita vigilia est)». Plinio era nato a Como nella Gallia Cisalpina tra il 23 e il 24 d.C. da un’agiata famiglia dell’ordine equestre, ordine costituito da ricchi proprietari, uomini d’affari, appaltatori di lavori pubblici e della riscossione delle imposte, uomini a cui era affidata l’amministrazione dello stato. Da giovane, a Roma, aveva esercitato l’attività forense per poi seguire la via della cariche pubbliche. Quando nel 57-58 gli fu affidato il tribunato militare nella Germania inferiore strinse amicizia con Tito. Questi lo mise in contatto con suo padre, Vespasiano, e tra i due nacque un rapporto di consuetudine. Fu in quegli anni che Plinio iniziò a ritirarsi dalla vita politica e ad attenersi ai dettami della «prudenza». Lui, un conservatore moderato, aveva capito per tempo che la dinastia giulio-claudia stava scivolando lungo un pendio in cui ogni opportunità nascondeva un rischio. «Plinio», scrive Canali, «non era un accigliato moralista come il grande storico Tacito, né il disincantato aristocratico Petronio, né il giovanissimo, frivolo, ma infine tragico Lucano, tutti clandestinamente ostili al potere imperiale (questi ultimi due scoperti come partecipanti alla congiura di Pisone e costretti al suicidio)». Era ostile al principato «solo quando esso era impersonato da un supremo reggitore del potere come Nerone, bizzarro, narciso, ellenizzante, nemico dell’aristocrazia e persino del ceto equestre, incline invece a favorire il “popolino”, e per di più d’una terribile ferocia nella eliminazione dei suoi avversari». Perciò dopo la morte di Claudio ritenne opportuno ritirarsi definitivamente a vita privata - e ai suoi studi - in attesa di tempi migliori. Tenendo per sé l¹antipatia nei confronti di Nerone. E quando in epoca successiva alla morte del tiranno, tornerà Sull’argomento, lo farà senza enfasi. Parlando, nella Storia naturale, dei funghi e dei pericoli cui ci si espone mangiandoli, nel citare l¹uso fattone da Agrippina per avvelenare Claudio, lasciò cadere con sintetica eleganza: «Agrippina, dopo aver commesso questo crimine, fornì al mondo intero e a se stessa un altro veleno, suo figlio Nerone». Con l’ascesa al potere di Vespasiano e il mutamento di clima politico seguito alla morte di Nerone e al periodo dell’anarchia militare, Plinio riprese dunque la carriera politica. Ebbe più volte l’incarico di procuratore - magistratura di genere finanziario riguardante l¹amministrazione dei redditi imperiali nelle province - che gli consentì ampi sopralluoghi di carattere naturalistico, etnografico, geografico in terre straniere. Fu procuratore nella Spagna Tarraconese, nelle Gallie, in Germania, in Africa e «ognuno di questi incarichi ebbe in lui un equilibrato, umanissimo e onestissimo tramite con il potere centrale». Ma, tiene a precisare Canali, la sua fedeltà a Vespasiano, non ebbe modalità riconducibili né a «opportunismo personale», né a «piaggeria di cortigiano». Piuttosto «era adesione piena e sincera all’ideologia del primo imperatore della dinastia Flavia», di cui, come si è detto, egli era stato stretto collaboratore. Vespasiano non era uomo «da errare nella scelta di uomini leali, esperti, efficienti, che applicassero il suo programma politico, economico e civile». E Plinio «era senza dubbio leale, esperto, efficiente in qualsiasi momento e in ognuna delle attività che lo avevano talvolta messo alla prova: con ammirevole versatilità era stato un ottimo combattente, un pervicace e infaticabile uomo di cultura, e terminò la sua vita durante l¹espletamento del suo dovere di prefetto della flotta di Miseno». L’originalità del rapporto tra questo uomo di cultura e questo imperatore è individuabile nel libero, fecondo intreccio tra due persone modificate dal tempo che era trascorso dal loro primo incontro. Plinio diede prova di saper conciliare la rinnovata partecipazione alla vita politica con i suoi nuovi interessi e, più in generale, la sua personalità così come s’era andata trasformando nei tempi dell’allontanamento dalla politica stessa. Vespasiano, invece di piegare Plinio o altri come lui al culto della propria persona come avrebbero fatto gran parte dei suoi predecessori, scelse di averlo dalla sua lasciandogli lo spazio per continuare ad essere sé stesso. Risultato: la Storia naturale fu di per sé un monumento a Vespasiano. Forse più importante del Colosseo. Ma, al di là di queste considerazioni, possiamo dire che Plinio fu veramente grande? O non fu piuttosto un semplice erudito incapace di guardare oltre gli orizzonti della sua epoca? Per capire di cosa si sta parlando è necessario rifarsi a quello che, sul rapporto tra intellettuali e società nel mondo antico, William Stahl ha scritto in un libro di qualche anno fa: La scienza dei romani. Quando si prendono in esame la società dei greci e quella dei romani, sosteneva Stahl, «si rimane immediatamente colpiti dalle differenze notevolissime tra le mentalità di questi due popoli». Si potrebbe addirittura venire indotti «a concludere che avessero temperamenti antitetici, che i greci fossero teorici e intellettuali, i romani pratici e anti-intellettuali». Come è ovvio, prosegue Stahl, «una generalizzazione semplicistica di questo tipo appare scarsamente fondata: ma, per quanto riguarda gli atteggiamenti assunti dai due popoli nei confronti della scienza, essa si avvicina abbastanza alla verità». I greci mostravano «una profonda avversione per la scienza applicata che consideravano “adatta agli artigiani”». I romani, invece, «facevano fatica ad assimilare anche le nozioni più elementari della scienza teorica, persino quando venivano presentate in forme semplici e comprensibili». Stahl ha sostenuto che «gli intellettuali romani più dotati del periodo classico non seppero comprendere la natura sistematica delle discipline scientifiche e non furono in grado di padroneggiare nessuna delle scienze greche». Solo raramente «attingevano ai trattati teorici e di solito lasciavano tali argomenti agli scribacchini e ai polimati (gli eruditi pedanti) i quali capivano ancora meno il rigore e la logica dell’indagine scientifica». Tenendo a mente queste considerazioni, si può capire meglio il contesto in cui Plinio si trovò a vivere, a far ricerche, a scrivere. E anche perché, nei secoli successivi, più d’uno abbia potuto dubitare della sua grandezza. Ma, una volta inquadrato il tema come ha fatto Stahl, si può tranquillamente affermare che Plinio il Vecchio ha un ruolo non irrilevante nella storia della cultura antica. Solo che le sue pagine vanno lette tra le righe per coglierne il messaggio più riposto. Plinio è animato da un’ansia di sistemazione enciclopedica delle conoscenze acquisite nelle varie discipline. E’ un moralista: se la prende con la pigrizia, la brama di ricchezze, l¹oro e l¹argento, i medici «mestieranti in cerca di fama con qualsiasi stramberia», la storia (o meglio: il piacere con il quale gli scrittori amano «depositare negli annali storie di sangue e massacri»). Ma, come già notò una ventina d¹anni fa Italo Lana, il suo modo di descrivere il rapporto uomo natura è modellato su quello suddito-imperatore. E gli omaggi indiretti - proprio perché spontanei - al «suo» imperatore, Vespasiano, non si contano. E proprio perché furono omaggi di un uomo libero, quelli di Plinio hanno giovato alla fama del destinatario assai più delle lodi cortigiane di molti altri uomini di cultura nei confronti di predecessori o successori di Vespasiano. Quasi che, anziché fosse stato per amore della conoscenza, quel suo immolarsi alle falde del Vesuvio Plinio lo avesse fatto per celebrare la grandezza del suo imperatore, morto poco prima di quell’eruzione. Un imperatore che non gli aveva imposto altro che di essere libero di dedicarsi ai suoi studi e alle sue ricerche.

domenica 27 gennaio 2008

L'orientamento astronomico delle citta' romane

L'orientamento astronomico delle citta' romane
da IL GIORNALE DI VICENZA

Vicenza tra i 38 centri italiani oggetto di una ricerca sulle citta' megalitiche. Lo studio pubblicato anche sul sito internet di una universita' Usa
In corso Palladio tra i misteri astrologici: I romani avrebbero costruito la citta' orientandola sul solstizio d'estate

di Alessandro Mognon

Fino a ieri non lo sapevamo, ma passeggiando per corso Palladio è come trovarsi fra i misteri delle pietre di Stonehenge o dentro i segreti delle gallerie delle piramidi d´Egitto. Tutti monumenti orientati in base ad allineamenti astronomici. Perchè lo stesso facevano gli antichi romani quando costruivano le citta', come ipotizza una ricerca di Giulio Magli, fisico e docente di meccanica razionale al Politecnico di Milano e studioso di archeoastronomia. Che dopo aver misurato e analizzato 38 citta' italiane fondate dai romani, ha stabilito che l´orientamento ha forti aspetti simbolici legati all?´astronomia. E fra queste solo due citta' sono state concepite duemila anni fa e per motivi ancora misteriosi per essere in linea con il sorgere del sole nel solstizio d?´estate: Verona e Vicenza.

La ricerca di Magli, che fa parte di uno studio pubblicato nel suo libro "I segreti della antiche citta' megalitiche", presente tra l´altro sul sito internet del dipartimento di fisica della Cornell University di Ithaca (New York): www.arxiv.org. E il motivo di tanto interesse c'è: un legame preciso fra le citta' romane e i simboli astronomici non era mai stato approfondito, se non addiruttra negato. Anche se come fa notare il fisico italiano « gia' Ovidio e Plutarco raccontavano di come la creazione di una nuova citta'
si basasse sull´esame del volo degli uccelli o di altri riferimenti astronomici. Magli ha preso in esame solo citta' italiane in cui le due strade principali che caratterizzano le citta' romane, il decumano e il cardo che si incrociano a 90 gradi, e le altre strade a "griglia" sono ancora riconoscibili. Poi ha verificato l´orientamento degli assi della griglia in relazione ai movimenti del sorgere del sole a est durante il corso dell´anno. In realta' a Vicenza di certo c'è il decumano-corso Palladio mentre ancora dubbio è dove fosse il cardo. Ma la direzione c'è. Da qui tutta una serie di scoperte. Secondo il ricercatore di Milano gli antichi romani orientarono verso nord solo tre citta': Pesaro, Rimini e Senigallia. La maggioranza dei centri fondati fra il periodo repubblicano e quello imperiale (fra il V secolo avanti Cristo e il I dopo Cristo) sono allineati verso il sorgere del sole durante determinate feste sacre o in base ai punti cardinali.

Altre citta' sembrano orientate entro 10 gradi a sudest rispetto al sorgere del sole o in prossimita' del solstizio d'inverno. E poi ci sono Verona e Vicenza, tutte e due nate intorno al I secolo dopo Cristo e uniche fra le 38, come risulta dallo studio di Giulio Magli, ad essere allineate con il solstizio d?´estate. «Le due citta' tra l´altro sono anche vicine fra loro - dice l´esperto di archeoastronomia -, anche se sul motivo di questo tipo di orientamento, come per le tre citt? dell?´Adriatico allineate verso nord, bisognera' indagare ancora». Insomma l´orientamento delle citta' romane non sarebbe casuale, ma pianificato e voluto. Per motivi ancora ignoti. Così, quando il 21 giugno, giorno del solstizio d?´estate, faremo shopping in corso Palladio a Vicenza, ricordiamocelo: magari leccando un cono panna e cioccolato, ma stiamo camminando in mezzo a un antico mistero.

Roma e il suo Impero. Istituzioni, economia, religione

Jacques, F. Scheid, J.
Roma e il suo Impero. Istituzioni, economia, religione

Biblioteca Storica Laterza, 2005

In breve: Qual era il segreto di Roma? Come riuscì, la città, a mantenere saldamente il controllo di un impero tanto vasto ed eterogeneo, che andava dalla Spagna alla Persia, dalla Britannia all’Africa del Nord? Nella affascinante ricostruzione di tutti gli aspetti della vita sociale e istituzionale della Roma imperiale, alternando capitoli riguardanti la religione, la società e l’economia a capitoli sull’organizzazione militare, l’amministrazione delle province e il potere centrale, Jacques e Scheid ci consegnano una storia esaustiva dell’impero romano, che ne sottolinea la complessità dell’apparato istituzionale e la formidabile capacità di creare consenso. Una lettura classica di storia romana.
Indice: Prefazione - I. Dal "Princeps" all'imperatore: 1. La creazione del principato da parte di Augusto - 2. L'investitura del principe dopo Augusto - 3. I poteri del principe - 4. La rappresentazione del potere imperiale - II. Il principe e la "res publica": 1. Le istituzioni tradizionali del popolo romano - 2. Il principe e il governo della "res publica" - III. Le religioni: 1. Princìpi generali - 2. I culti pubblici - 3. Religioni, devozioni e pensieri religiosi privati - IV. L'esercito: 1. La struttura dell'esercito - 2. L'organizzazione dell'esercito - 3. Il reclutamento - 4. L'attività – militare e le strategie dell'Impero - 5. Il posto dell'esercito e dei militari nell'Impero - V. L'influenza romana sull'Impero: 1. L'occupazione dell'Impero - 2. L'amministrazione delle province - 3. Gli Stati vassalli - VI. Gli statuti delle persone e della comunità: 1. Le cittadinanze - 2. Statuti e strutture delle città - 3. Il governo della comunité cittadina - 4. Le comunità prive di statuto civico - 5. La politica imperiale - VII. La società: 1. La popolazione dell'Impero - 2. Le caratteristiche della società romana - 3. Le relazioni sociali - 4. I ceti dirigenti - 5. Le categorie intermedie - 6. Il "sistema schiavistico": la schiavitù e le altre forze di lavoro - VIII. L'attività economica: 1. I poteri pubblici e l'economia - 2. Le attività economiche - 3. Le grandi zone di produzione - Bibliografia - Indice analitico

Indigitamenta. Divinità funzionali e Funzionalità divina nella Religione Romana

Indigitamenta. Divinità funzionali e Funzionalità divina nella Religione Romana
Autore: Micol Perfigli
Intr. di John Scheid
Collana: Anthropoi. Studi e materiali di Antropologia storica del mondo antico (2)
ISBN: 88-467-0977-2 Anno: 2004 Pagine n° 164 € 19.00

Tutti conoscono o credono di conoscere le grandi divinità delle religioni antiche, quella dei Greci e quella dei Romani. Questo libro studia le divinità minori, uno degli aspetti più oscuri e affascinanti e insieme una peculiarità della religione dei Romani. Esso vuole quindi indagare sulla folla numerosissima di dei, che avrebbero assistito l’uomo in ogni momento della sua esistenza, dal concepimento nel ventre materno, alla morte. Queste divinità, note alla tradizione come dei degli indigitamenta, ci sono testimoniate per lo più dai padri della Chiesa, che nella loro feroce campagna antipagana appaiono interessati a mettere in ridicolo la religione romana ed elencarono queste divinità con fini polemici. Lo studio e l’interpretazione delle fonti antiche è seguito da una ricerca di storia culturale, che mette in discussione la presunzione dei moderni di inferire l’ignoto a partire dai pochi dati antichi effettivamente conosciuti. L’importanza del tema e la proficuità della indagine condotta sono sottolineate nella prefazione di John Scheid, che è professore di Religion, institutions et société de la Rome antique, presso il Collège de France, a Parigi.

I culti orientali nell'impero romano.

E. Sanzi
I culti orientali nell'impero romano.
Un’antologia di fonti.
Hierá

A partire dagli studi sistematici di Franz Cumont i culti orientali e la loro diffusione durante il primo ed il secondo ellenismo non hanno mai smesso di costituire un autentico Leitmotiv nel campo degli studi storico-religiosi. La presente antologia intende mettere a disposizione dello studiosus lector una serie di fonti per lo più letterarie offerte dallopera di quegli stessi autori che, in gran numero, sono stati testimoni oculari di tale fenomeno religioso. Le loro voci, siano esse lespressione di fervidi devoti, di infaticabili accusatori o di icastici dileggiatori, continuano a rivelarsi degli strumenti imprescindibili per ricostruire una delle componenti precipue dello spirito di unepoca non necessariamente così piena di angoscia come spesso la si è voluta descrivere. È proprio in questepoca che personaggi divini come Isis, Osiris, Sarapis, Cybele e Attis, Aphrodite e Adonis, la Dea Syria, Iupter Dolichenus, Iupter Heliopolitanus, Mitra ed altri ancora vengono avvertiti come benevoli e salvifici soccorritori di tutti gli uomini, anche dei più umili, i quali sentono di potersi rivolgere a loro pieni di fiducia e devozione intrecciando voti. Rincuorano di certo le parole di buona speranza con le quali Isis consola un Lucio altrimenti inconsolabile e destinato a diventare il suo più encomiabile proselita: Eccomi commossa dalle tue tristi disgrazie, eccomi benigna e propizia! Allontana le lacrime, poni fine ai lamenti, allontana una volta per tutte la tristezza: ormai, grazie al mio intervento provvidenziale, inizia a sorgere il giorno della tua salvezza.

Palma Campania. Il versante collinare restituisce importanti reperti archeologici di epoca romana.

Palma Campania. Il versante collinare restituisce importanti reperti archeologici di epoca romana.
PASQUALE IORIO
26/01/2008 IL MATTINO

La scoperta nel corso dei lavori per la prevenzione del rischio idrogeologico, quando alcuni volontari del gruppo archeologico Terra di Palma si sono accorti della presenza di importanti tracce del passato. In località San Pantaleone, nei pressi del boschetto comunale, in un'area di circa mille metri quadri è stato possibile riconoscere un insieme di forme murarie caratterizzate da blocchi squadrati di calcare di medie dimensioni misti a malta. Strutture ad arco parzialmente ricoperte da terra, che sembrano collegare ambienti confinanti. Lungo il muro nord, in prossimità dell'arco, sono anche visibili resti di intonaco bianco con una parete portante che si mostra per una ventina di centimetri. Ai piedi della collina, non molto distante dal ritrovamento, è situato un grosso blocco, presumibilmente crollato dalla stessa struttura. Durante la ricognizione i volontari hanno anche recuperato materiale edilizio, tra cui frammenti di tegole, coppi, mattoni e intonaci colorati. Sono stati rinvenuti pure pezzetti di ceramiche, coperchi e piatti, insieme con pochi resti faunistici: due frammenti di tartaruga e uno di osso. Ma non è tutto. In località Montetto, nella frazione Vico, è venuto alla luce interessante materiale da crollo: cocci e pezzi di tegole in laterizio, frammenti di vasi ed un interessante coperchio di sepoltura di tarda epoca romana. Dei rinvenimenti sono stati messi a conoscenza Giuseppe Vecchio e Vito Luongo dell'ufficio di Nola della soprintendenza archeologica dove è stato poi consegnato il materiale rinvenuto. «Ci auguriamo che questi ulteriori rinvenimenti di strutture murarie, databili ad epoca romana, possano aprire nuovi orizzonti di sviluppo culturale ed ambientale per la nostra cittadina - sottolinea Luigi Sorrentino del gruppo archeologico Terra di Palma - ciò sarà possibile solo se le istituzioni e la società civile prendono atto di una nuova cultura di tutela e salvaguardia del patrimonio archeologico esistente lungo il versante collinare che va dal Vallone di Ajello alla località Montetto a Vico. Un appello sentiamo di lanciarlo all'ufficio urbanistico del Comune - aggiunge Sorrentino - affinché vincoli gli scavi delle nuove costruzioni sia pubbliche che private in questa zona ad un preventivo parere della Soprintendenza ai Beni Archeologici per evitare la distruzione di tante preesistenze storiche che il nostro territorio ancora conserva

giovedì 24 gennaio 2008

Atene, il mistero della citta' di Teseo

dal "corriere della sera" del mercoledi, 26 gennaio 2000

Atene, il mistero della citta' di Teseo

Nell' VIII secolo a.C. gli aristocratici ruppero con la monarchia. E crearono una piazza. Nella stessa epoca nacque Roma: con alcune sorprendenti analogie
Carandini Andrea

GIALLI La capitale greca fu fondata dall' eroe attico? Un nuovo studio rivela gli intrighi politici che furono all' origine di un mito antico Atene, il mistero della citta' di Teseo Ne ll' VIII secolo a.C. gli aristocratici ruppero con la monarchia. E crearono una piazza Nella stessa epoca nacque Roma: con alcune sorprendenti analogie Recenti studi consentono finalmente di gettar luce sulle origini di Atene. Una sintesi dei risulta ti e' uscita in La citta' greca antica, a cura di Emanuele Greco. Provo qui a esporli reinterpretandoli. Teseo e' l' eroe fondatore della citta' di Atene. L' avvenimento veniva datato nel 1259 a.C., quarant' anni prima dell' inizio della guerra di Tr oia, ma la nascita delle prime citta' in Grecia non viene ammessa giustamente dagli storici contemporanei prima dell' VIII secolo a.C. L' enorme contraddizione e' dovuta al fatto che gli ignoti aristocratici creatori di Atene hanno attribuito la loro azione fondativa - databile fra la meta' dell' VIII e gli inizi del VII secolo a.C. - a un eroe dell' Attica (la regione in cui sorge Atene), le cui gesta sono ambientate in quella regione a partire dall' eta' eroica (micenea). Questo modo di ricord are le origini, che confonde spazi e tempi, per noi di ardua comprensione, e' tipico di una cultura che non conosce ancora la storia e che memorizza e legittima gli eventi ricorrendo alle ambiguita' del mito. Le imprese tradizionali di Teseo - la lot ta con i centauri, i rapimenti di Elena e Proserpina e l' incontro con Piritoo - riguardano l' Attica piu' che Atene, a partire da Aphidna, il villaggio della madre dell' eroe. Se Teseo e' in origine un eroe dell' Attica bisogna a mio avviso pensare di conseguenza ch' egli simboleggiasse una qualche unificazione della regione precedente la citta' . Cio' non vuol dire ch' essa fosse la prima in assoluto e infatti i Greci conoscevano Cecrope, primo mitico re di Cecropia (primo nome di Atene), che simboleggia il primo re miceneo di Atene e dell' Attica. Crollata intorno al 1200 la civilta' palaziale micenea, e' possibile ipotizzare, sulle basi delle gesta di Teseo, una seconda e diversa unificazione avvenuta nel medioevo seguito a quel crollo. Ne e' altro indizio l' unificazione culturale dell' Attica attestata dalla ceramica dal X secolo a.C., che avrebbe potuto implicare o condurre (nel IX secolo?) a una lega preurbana dei villaggi della regione incentrata sull' acropoli di Ionia (secon do nome di Atene). + nota infatti una seconda cronologia che assegna Teseo al secondo quarto del IX secolo a.C. Se questa ricostruzione si rivelasse verosimile, il mito di Teseo avrebbe potuto cominciare a radicarsi oltre ad Atene in questo medioevo, per cui Teseo viene inserito tra i re di questo centro. Si sarebbe infine ricorsi allo stesso Teseo nella seconda meta' dell' VIII secolo o poco oltre per attribuirgli la fondazione della citta' di Atene. Allora la figura dell' eroe dovette radicars i definitivamente, non (piu' ) sull' Acropoli, ma nella citta' bassa, dove sorge la prima piazza della citta' . Atene conosceva sei edifici pubblici vicini e in relazione con Teseo: Pritaneo, Aglaurion, Teseion, Anakeion, Boukoleion e Basileion. Essi accoglievano istituzioni e culti della prima Atene e delimitavano la prima piazza pubblica cittadina, a noi nota solo dalle fonti letterarie e che dobbiamo distinguere da quella, ben conosciuta anche dal punto di vista archeologico, che si trova a n ord - ovest dell' Acropoli e che e' databile dall' ultimo terzo del VI secolo a.C. La prima piazza di Atene non era localizzabile fino a quando una iscrizione ha rivelato il luogo di uno dei suddetti edifici, l' Aglaurion, il santuario di Aglaurio, f iglia di Cecrope, da immaginarsi alla radice del fianco orientale dell' Acropoli. Il Pritaneo, fondato da Teseo, era il luogo da cui l' eroe era partito come giovane efebo verso Creta per uccidere il Minotauro. Nell' edificio ardeva il fuoco della ci tta' sacro a Hestia e vi aveva sede il magistrato annuale chiamato arconte eponimo, che dava il suo nome all' anno. L' Aglaurion era il luogo dove Teseo aveva concluso la pace con le Amazzoni e aveva giurato di rapire Elena e Persefone e dove gli efe bi ateniesi giureranno prima di prendere servizio. Il Teseion era un recinto sacro in cui si venerava Teseo, di fronte al quale si riuniva la prima assemblea cittadina. L' Anakeion era invece un santuario dei Dioscuri, venuti in Attica per riprenders i Elena, la sorella rapita da Teseo. Il Boukoleion era un santuario di Dioniso, dove la moglie dell' arconte re (erede dei primitivi sovrani di Atene) si univa ogni anno in sacro matrimonio col dio sposo di Arianna, che Teseo aveva abbandonato. Il Ba sileion era un erede dell' antica reggia dell' Acropoli dove risiedevano i quattro re delle tribu' e forse lo stesso arconte re. Se il Pritaneo ospitava l' arconte eponimo esso doveva esistere al tempo di Creonte che per primo ricopri' tale magistrat ura annuale nel 683 a.C., ma esso puo' forse risalire alla meta' dell' VIII secolo, quando l' arcontato eponimo ha inizio come magistratura decennale. L' accoglimento dei re delle tribu' e forse dell' arconte re nel Basileion implica la discesa di qu esti eredi dell' antico re dall' Acropoli alla citta' bassa, dove essi abitano insieme sulla pubblica piazza. Non e' un caso che la festa della fondazione di Atene, i Synoikia, prevedeva sacrifici celebrati dai quattro re delle tribu' rivolti a Zeus e ad Athena delle fratrie, che sono raggruppamenti di cittadini entro rioni della citta' suddivisi nelle quattro tribu' . Unificare l' Attica nell' VIII secolo significo' pertanto ripartire gli abitanti della regione in queste divisioni organizzative e topografiche dello Stato. Atene diventa in tal modo il microcosmo dell' Attica e i suoi abitanti vengono integrati nella sua cittadinanza senza dover per questo trasferirsi dai loro villaggi ad Atene. La creazione della prima piazza pubblica, dell e piu' antiche istituzioni e culti cittadini e del nome stesso della citta' (Atene e' il terzo nome dell' abitato) appare dunque come esito di una decisione politica, di un progetto e quindi di una fondazione di un sistema istituzionale (J. M. Luce, in "Revue Archeologique", 1998). La fondazione della citta' consiste dunque nella creazione della sua prima piazza, che poteva magari esistere anche prima, ma che diventa solo ora sede di santuari, assemblee e magistrature cittadine. La presenza nell a colonia greca di Megara Iblea in Sicilia di una piazza fin dall' VIII secolo suffraga questa interpretazione. Gli aristocratici che hanno fondato Atene si sono nascosti dietro Teseo per legittimare le istituzioni che rompevano definitivamente con l a regalita' ma che per essere accolte dovevano apparire al tempo stesso come conseguenza e rinascita della piu' antica unificazione dell' Attica nel medioevo ellenico e quindi come un evento assorbibile nel complesso mitico di Teseo, l' eroe attico d i tutti i tempi: dell' eta' eroica, dell' eta' oscura e di quella della citta' . Ci sono somiglianze e differenze fra le fondazioni di Atene e Roma. L' epoca e' la stessa ed e' la fondazione a dare i nomi definitivi: Atene e Roma. Anche a Roma il cre atore della citta' e' una figura mitica, che tuttavia ha un nome senza precedenti e agisce in modo nuovo: Romolo (piccolo Romo) uccide per il trono lo zio Amulio e il gemello Remo. Anche nel Lazio e' noto alla fine dell' Eta' del Bronzo un re leggend ario, unificatore dei villaggi della regione, ed e' Latino, ma non e' lui a fondare Roma. Romolo fonda inoltre Roma con rito etrusco, ma Numa completera' la fondazione con il culto di Vesta, corrispettivo latino della greca Hestia. Dall' arce del Pal atino, antica sede dei capi, la reggia viene trasferita da Numa nella citta' bassa, entro il nuovo Santuario di Vesta presso il Foro, come ad Atene dall' Acropoli alla piazza che e' ai suoi piedi. Romolo articola lo Stato in tribu' e curie, come Tese o in tribu' e fratrie. Roma avra' due luoghi di assemblea, il Foro e il Campo Marzio, come Atene aggiungera' una seconda piazza e in entrambi i casi tale sdoppiamento avverra' dopo la meta' del VI secolo a.C. Teseo e' una struttura mitica dietro cui si nasconde un gruppo di aristocratici ateniesi. Romolo e' una struttura mitistorica, dietro cui si intravede il primo re di Roma. Andrea Carandini
* Il libro: "La citta' greca antica" a cura di E. Greco, Donzelli, pp. 464, L. 80.000

ROMA Il ritorno della Lupa

Corriere della sera, sabato, 03 giugno 2000
ROMA Il ritorno della Lupa

Presentato il restauro del mitico bronzo. E' solo la prima tappa del «giugno archeologico» Ma i gemelli forse in origine non c' erano
Carandini Andrea, Colonnelli Lauretta


EVENTI Una mostra a Palazzo Caffarelli illustra le origini del celebre mammifero del V secolo avanti Cristo. E intanto si annuncia per la fine del mese l' apertura di una nuova sezione dei Musei Capitolini ROMA Il ritorno della Lupa Presentato il res tauro del mitico bronzo. E' solo la prima tappa del «giugno archeologico» di ANDREA CARANDINI I l mese di giugno si presenta a Roma come un grande banchetto archeologico, che rischia di superare la pur grande festa del giugno scorso, quando è stata r iaperta la Domus Aurea di Nerone. A Palazzo Caffarelli in Campidoglio, vicino al più bel caffé del mondo e ai musei completamente rinnovati, si apre la mostra sulla Lupa capitolina restaurata. Lo splendido bronzo degli inizi del V secolo a.C. mostra le mammelle gonfie(non si tratta di aggiunte successive, come si sospettava). I festeggiamenti archeologici culmineranno con l' apertura dei monumenti dell' Appia Antica (Cecilia Metella, Villa dei Quintili), con altre due sezioni del Museo Nazionale Romano (l' epigrafica e la protostorica) e con due mostre. La prima su Gli Argonauti del Pacifico porta negli abissi di una società vivente che non conosce i metalli. La seconda mostra si intitola Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città. Sarà ospitata nelle aule delle Terme di Diocleziano. Il ministro Giovanna Melandri inaugurerà museo e mostre il 27 giugno, ore 18. La mostra sulle origini di Roma presenterà sorprese dovute agli scavi di questi ultimi anni. Vi figureranno, fra l' altro, le prime mura di Roma e una loro porta (metà dell' VIII secolo), che la tradizione attribuisce a Romolo, ricostruite in scala uno a uno. *** Fino a poco tempo fa Roma non aveva un museo archeologico. Sembra un paradosso, ma è così. I musei di Roma, v ecchi e nuovi, riguardano infatti la storia dell' arte antica, illustrano cioè la scultura e qualche volta la pittura dell' antica Roma. Ma con l' apertura di una piccola e splendida sezione del Museo Nazionale Romano in via delle Botteghe Oscure, Ro ma ha finalmente il suo primo museo che illustra l' archeologia di una porzione della città nel Campo Marzio e dell' intera città in età tardo-antica e medievale. Tutti sappiamo che il fascino di Roma sta nel puzzle complicatissimo della sua formazio ne, fatta di monumenti di epoche diverse. Quando appendiamo un quadro nel centro storico non sappiamo se stiamo bucando un muro della Roma imperiale, tardo-medievale o settecentesco. Questo miscuglio di epoche diverse lo possiamo osservare superficia lmente passeggiando per la città. Mancava tuttavia una indagine scientifica di un isolato urbano capace di mostrare analiticamente ed in sintesi come si è costruita la città, come si è passati per le diverse Rome su cui camminiamo e che ci avvolgono. L' archeologia tradizionale era in grado di chiarire un luogo o l' altro ma non riusciva a tenere in pugno e a dimostrare le crescite e le demolizioni di un organismo complessissimo, tanto che è stato paragonato da Freud alla psiche umana. Ma è spun tato un giorno un archeologo abile nell' archeologia stratigrafica e urbana «all' inglese» che ha cominciato a scavare venti anni fa, chiamato dalla Soprintendenza, in un isolato che si affaccia su via delle Botteghe Oscure: Daniele Manacorda. Si è p resentata in tal modo la grande occasione di anatomizzare un isolato intero che per alcune vicende singolari era rimasto privo dei suoi abitanti ed era diventato di proprietà pubblica. Così un archeologo classico ha cominciato a trattare la Roma del ' 700 e di tutti gli altri secoli fino a Cesare con lo stesso interesse e la medesima cura: era la prima volta che ciò accadeva su così vasta scala. Oggi il risultato di vent' anni di ricerche coordinate dalla Soprintendenza statale vengono illustrat i in una parte dell' isolato restaurato. Sulle pareti scrostate vediamo il sovrapporsi vertiginoso di muri imperiali, quali il portico/cripta del teatro di Balbo, su su per muri medievali, lungo 2000 anni di vicende umane. La ricerca stratigrafica e l' utilizzo di qualsiasi reperto frammentario e frustulo scritto hanno portato a ricostruzioni periodo per periodo, realizzate dai migliori illustratori di realtà archeologiche che io conosca in Europa, allievi di P. Donati, di recente scomparso. Pos siamo così vedere in modo esatto e avvincente come si presentava il Campo Marzio prima che Roma fosse stabilmente popolata, il sorgere del Teatro augusteo di Balbo col suo portico e della vicina piazza Minucia in cui si distribuiva la farina ai Roman i a partire da Domiziano, il decadere, dissolversi e interrarsi della città antica fra V e VIII secolo, salvo il timido spuntare di qualche chiesetta, e infine il nuovo paesaggio urbano medievale dal IX secolo in poi, con le case dei mercanti (con id entificazione dei proprietari tramite documenti di archivio), fino al cinquecentesco Conservatorio di S. Caterina per le «vergini miserabili», di cui viene ricostruita la vita quotidiana e l' uscita annuale delle vergini in strada per trovare marito. E poi ancora avanti, fino ai primi numeri civici degli inizi dell' 800 e oltre, fino al museo attuale della Crypta Balbi. Produzioni di vetro, calcare in cui statue e capitelli finivano in calce, fabbriche di metalli, panni e corde si susseguono in un vortice affannoso, instancabile e mutante delle attività produttive umane. Dopo aver sistemato le collezioni d' arte antica, la Soprintendenza statale di Roma ha aperto dunque il capitolo nuovi dei musei archeologici come nel 2000 possiamo intende rli. Aspettiamo con ansia per fine giugno l' apertura di un' altra sezione del Museo Nazionale Romano, con l' esposizione della necropoli della Gabii protostorica, altro scavo di eccezionale importanza che illustra la vita dei più antichi Latini. Con gli scavi ai Fori imperiali e con questi ultimi musei l' archeologia italiana può dirsi trionfalmente entrata in Europa. Il merito va ad Adriano La Regina e ai collaboratori da lui scelti. Il restauro architettonico dell' isolato trova i suoi moment i migliori quando scopre i muri (ancora da didascalizzare) e si mette al servizio della comprensione archeologica del sito e quelli meno felici in alcune soluzioni post-moderne, che sembrano slegate dal contesto. Se un visitatore dovesse chiedermi da dove conviene cominciare la visita di Roma, risponderei dal piccolo museo in via delle Botteghe Oscure, perché offre la chiave per intendere sistematicamente, seppure in un campione, come è fatto il cuore di Roma. Potessero aggiungersi altri musei p er illustrare gli altri quartieri della città, in un racconto che comincia dalla natura e finisce con noi, giunti al massimo dell' artificialità! Ieri non ci speravo, oggi sì. La mostra sulla Lupa Capitolina si apre oggi a Palazzo Caffarelli dei Muse i Capitolini e si chiude il 15 ottobre. Catalogo Electa (pagine 119, lire 65.000). Indirizzo Internet: www. comune.roma.it/cultura/italiano/musei Ma i gemelli forse in origine non c' erano U na lupa che forse non ha allattato Romolo e Remo fin dalla sua origine, nel V secolo a. C., ma soltanto a partire dal Rinascimento, quando le furono posti sotto le mammelle i due gemelli finora attribuiti al Pollaiuolo. E' una delle tesi sulla statua in bronzo conservata nei Musei Capitolini che sono emerse durante il restauro cominciato tre anni fa. I risultati sono ora illustrati in una mostra che resterà aperta a Palazzo Caffarelli, in Campidoglio, fino al 15 ottobre. Accanto all' antica scultura simbolo di Roma, messa in mostra separatamente dai gem elli, sono esposte anche altre opere legate al mito del Lupercale e provenienti da musei italiani e stranieri. Ma la sezione più interessante è quella che offre alcune risposte al mistero della Lupa Capitolina, nonostante la statua sia forse l' unica , o una delle pochissime sculture antiche, non provienente da scavi ma sempre rimasta in vista. Il dato più rilevante delle analisi di restauro è che si tratta di un modello a cera persa e che l' argilla del modello, tuttora conservato all' interno d ella Lupa, proviene dalla valle del Tevere. Mentre il piombo di cui è composta la lega in cui è fusa l' opera proviene dalle miniere di Calabona in Sardegna. Un quadro storico che induce a confermare l' ipotesi per cui la Lupa sarebbe stata realizzat a dall' artista etrusco Vulca, o dalla sua scuola, attiva a Roma fin dall' epoca dei Tarquini. Novità infine anche su Romolo e Remo: potrebbero non essere opera del Pollaiuolo, ma di artisti che seguivano la tecnica di fusione dell' officina ferrares e. Ma il dibattito sulla loro presenza originaria sotto la Lupa è aperto. Lauretta Colonnelli

mercoledì 23 gennaio 2008

Sarcofaghi, busti e il cofanetto di Teodorico A Venezia si svela un altro volto dei Barbari

Corriere della Sera 23.1.08
La mostra Palazzo Grassi torna a esplorare le civiltà del passato
I tesori dei migranti che fecero l'Europa
Sarcofaghi, busti e il cofanetto di Teodorico A Venezia si svela un altro volto dei Barbari
di Paolo Conti

Un viaggio attraverso la mescolanza di culti e di tradizioni. Il curatore Aillagon: «L'esposizione vuole superare i luoghi comuni. E far riflettere sulla situazione odierna del nostro Continente»

Palazzo Grassi è certamente un punto di riferimento per l'arte contemporanea. Ma nello stesso tempo siamo tutti convinti che l'arte contemporanea abbia bisogno della storia, del passato, delle civiltà precedenti. Strumenti essenziali per comprendere il mondo che ci circonda». Monique Veaute, nuovo direttore e amministratore delegato di palazzo Grassi, debutta a Venezia senza il multicolore universo della straordinaria collezione contemporanea di François Pinault, presidente-padrone dell'istituzione culturale privata. Ovvero della carta da visita più nota al grande pubblico internazionale.
Stavolta la scommessa si chiama «Roma e i Barbari- La nascita di un nuovo mondo». Nella sua sobria solennità, il titolo rimanda alla tradizione di palazzo Grassi tracciata nella stagione Fiat: i Fenici, i Celti, gli Etruschi, i Faraoni che si alternavano a Balthus, Warhol, al Futurismo e a Picasso. Ancora Monique Veaute: «Il legame con quel retaggio è molto forte. E ciò dimostra come Pinault non abbia come interesse unico la propria collezione ma intenda seguire un discorso culturale più ampio e articolato».
Dunque, Roma e i Barbari. Il curatore della mostra Jean-Jacques Aillagon, ex direttore di palazzo Grassi e ora presidente della fondazione del castello di Versailles, ha detto giorni fa: «La nostra esposizione deve superare le due caricature». Ovvero le caricature semplificatrici di una nobile civiltà distrutta da un'orda di devastatori. C'è da raccontare, invece, come e perché proprio nel binomio Roma-Barbari affondino le radici dell'Europa. Con un rinvio all'oggi, alla cronaca più viva e spesso dolorosa della contemporaneità: la migrazione e la fusione etnica e culturale tra i popoli, un fenomeno (oggi come allora) fatto di forti e reciproche curiosità e di altrettanto forti ostilità. La mostra è già ricca sulla carta: mille anni di storia raccontata (la cronologia parte dalla sottomissione della Gallia da parte di Cesare tra il 58 e il 51 avanti Cristo e si conclude con l'incoronazione di Ottone I nel 962 quindi con la nascita del Sacro romano impero germanico) e 1.700 pezzi esposti provenienti da 24 Paesi, prestati da 200 tra musei ed esposizioni.
Scrive nell'introduzione Aillagon: «Il continente europeo troppo spesso celebra le radici greche, romane ed ebraico- cristiane dimenticando le proprie origini barbare peraltro così potenti e determinanti. La mostra invita a riflettere sulla situazione attuale dell'Europa, spazio politico e culturale che ha dominato il mondo o ha tentato di dominarlo, e che oggi si confronta con l'esigenza di imparare a convivere con un numero sempre più consistente di donne e uomini provenienti da altre parti del mondo».
Riecco il parallelo ieri-oggi. Così come Roma rappresentò un modello politico e di civiltà, anche nella vita quotidiana, oggi l'Europa incarna un riferimento universale di organizzazione e qualità della vita pubblica e privata. E così come i Barbari modificarono per sempre Roma con la loro cultura, anche oggi il fenomeno delle migrazioni sta regalando un volto definitivamente nuovo al Vecchio Continente: quello di una inedita ed eterogenea civiltà. L'arte può aiutarci a capire, scrive François Pinault: «Questo periodo complesso, segnato dall'incontro tra civiltà, dall'apertura, dalla mescolanza di culti e tradizioni, dalla diffusione delle conoscenze, dall'arricchimento reciproco e dalla diversità culturale, testimonia la forza senza tempo e universale dell'arte che trae origine nella notte dei tempi, prolungandosi nelle creazioni più contemporanee ». Tre i gioielli principali. Il sarcofago Ludovisi, prestato dal Museo nazionale romano di palazzo Altemps. Poi il busto di Marco Aurelio di Avenches (più di un chilo e mezzo d'oro a 22 carati): il suo immenso valore non sta solo nell'oro, si tratta di uno dei rari busti imperiali in metallo scampati alla fusione. E il Missorium d'argento (piatto d'Achille o piatto di Scipione) prestato dalla Bibliothèque Nationale de France e pesante più di dieci chilogrammi. È uno dei pezzi di argenteria antica di dimensioni maggiori arrivati fino a noi: ritrovato nel Rodano nel 1656, fu donato a Luigi XIV per il suo gabinetto delle Antichità. Ma bisogna citare anche il cofanetto di Teodorico che per la prima volta in 1400 anni lascerà l'abbazia di Saint-Maurice in Svizzera per raggiungere Venezia.
Altri arrivi sono considerati patrimoni nazionali nei Paesi che li prestano: per esempio il tesoro di Beja in Portogallo, l'evangelario di Notger in Belgio, il tesoro di Childerico conservato alla Biblioteca nazionale francese di Parigi. E, visto che una mostra aumenta di valore nel momento in cui presenta inediti e materiali nuovi, si segnalano debutti in un contesto espositivo di recenti scoperte: è il caso del tesoro della tomba della dama di Grez-Doiceau di Namur. Dopo Roma e i Barbari, palazzo Grassi pensa al progetto di punta della Dogana, del nuovo-antico spazio espositivo conquistato da Pinault. Lì si farà il punto su altre contaminazioni culturali. Quelle che concimano le idee del Terzo millennio e insieme attivano uno dei mercati più ricchi e intriganti della globalizzazione. Ovvero l'arte contemporanea.

Barbari. Invasioni di civiltà

Corriere della Sera 23.1.08
Barbari. Invasioni di civiltà
di Alessandro Barbero

Facevano carriera nell'esercito romano, compravano gioielli da siriani ed ebrei. L'impero non poteva più farne a meno.
Ma poi qualcosa andò storto...

Quando pensiamo alle invasioni barbariche, le immagini che ci vengono in mente sono ancor oggi quelle create dai pittori pompier dell'Ottocento: barbari in pelliccia ed elmo cornuto che vagano bramosi nei palazzi conquistati, valutando coll'occhio avido suppellettili preziose e branchi di schiave seminude; oppure, orde di nomadi irsuti che galoppano ululando nelle pianure, lasciando dietro di sé soltanto macerie fumanti. Che gli archeologi non abbiano mai trovato, da nessuna parte, un elmo cornuto e che tutti i re barbari di cui siamo a conoscenza fossero circondati da uno stuolo di segretari romani non basta per dissipare l'idea profondamente radicata di una contrapposizione fra due mondi irriducibili l'uno all'altro. E del resto, diciamolo, una certa dose di responsabilità spetta anche agli scrittori antichi: i quali amavano rappresentare l'impero romano come un'isola di civiltà in mezzo a un mare di barbarie, una fortezza assediata contro cui le steppe del Nord e i deserti del Sud vomitavano incessantemente orde di aggressori.
Senonché quella descrizione è interessata e le cose non stavano proprio così. Intanto, va detto che se il romano medio aveva una paura ancestrale dei barbari, il barbaro aveva molta più paura dei romani, e non a torto: perché alla minima provocazione l'imperatore scatenava fuori dai confini terrificanti spedizioni punitive, bruciando villaggi e raccolti, e trucidando gli indigeni, finché i capitribù non venivano in ginocchio a implorare la pace. In cambio offrivano tributi di grano e di bestiame, il lavoro gratuito dei loro uomini nei cantieri del limes o nei campi dei latifondisti romani, e giovani da arruolare nell'esercito imperiale. Giacché quest'impero immenso, che si estendeva dalla Scozia alla Mesopotamia, aveva sempre fame di uomini; le guerre incessanti, la miseria, la peste aprivano larghi vuoti fra i lavoratori della campagna e negli organici delle legioni; e per riempirli, l'unico modo era di accogliere immigrati barbari, e se necessario deportarli con la forza. Roma, dunque, non poteva vivere senza i barbari; e i barbari non potevano vivere senza Roma. I capi più accorti sapevano che fare la guerra all'impero non era la scelta più vantaggiosa. Conveniva molto di più mettersi d'accordo con l'imperatore, fare la guardia in suo nome, e in cambio d'oro sonante, alle zone di frontiera o alle piste carovaniere, come fecero per secoli le tribù saracene del deserto arabico o quelle berbere del Sahara. Quando Roma doveva fare la guerra, per esempio contro la Persia, il grande nemico d'Oriente, i principi barbari si facevano assumere, comandavano bande mercenarie, strappavano gradi e stipendi nell'esercito. Con quell'oro, una volta tornati a casa, si facevano costruire ville all'uso romano, compravano armi e gioielli dai mercanti siriani ed ebrei, e quando la loro gente faceva la fame per colpa d'un cattivo raccolto, imploravano l'imperatore di mandare grano per nutrirla. Nessuna delle tribù che vivevano a poca distanza dal limes avrebbe più saputo cavarsela se i rapporti coll'impero fossero stati improvvisamente interrotti.
Insieme ai mercanti con le loro merci preziose, passavano il confine i sacerdoti e i monaci cristiani, a portare anche ai barbari la buona novella. All'inizio i capitribù erano diffidenti, qualcuno di quei missionari ci lasciava la pelle, e i barbari convertiti rischiavano il rogo o l'affogamento, ultimi martiri in un mondo dove i cristiani ormai non erano più perseguitati, e anzi tendevano a comandare. Ma la forza del Cristianesimo, come quella dell'oro romano, vinceva tutte le diffidenze: all'epoca delle invasioni, i barbari erano ormai in gran parte cristiani, o sulla via di diventarlo.
Giacché le invasioni ci sono state davvero; ma si trattò d'una faccenda molto più complicata di quel che siamo soliti immaginare. Per secoli l'impero aveva assorbito i barbari, integrandoli a tutti i livelli della sua struttura sociale, fino al punto che una buona metà degli alti ufficiali dell'esercito erano immigrati. Questa cosiddetta barbarizzazione non indebolì affatto l'impero, anzi proprio i generali di origine barbara, come Stilicone, lo difesero con incrollabile fedeltà. Quello che venne meno, a un certo punto, fu la capacità del governo imperiale di gestire con successo le operazioni umanitarie, l'accoglienza di profughi, la sistemazione degli immigrati nelle nuove sedi.
Abusi e malversazioni nella gestione dei campi profughi, ribellioni violente di immigrati che non si riuscì a domare con la forza, accordi negoziati alla meno peggio che consentivano ai capi barbari di entrare sul suolo romano con la loro gente armata, provocarono un'insicurezza crescente, un degrado nel rapporto di fiducia fra i cittadini e il governo, e alla fine la rinuncia dell'imperatore a mantenere l'ordine pubblico e riscuotere le imposte in intere province dell'Italia, della Gallia, della Spagna, dell'Africa. Furono allora i capi barbari, stanziati lì a volte col permesso del governo e a volte abusivamente, a prendere in mano le cose.
I grandi latifondisti e i vescovi cattolici impararono presto a collaborare con loro, rendendo indispensabili le proprie competenze gestionali. Il degrado che subentrò lentamente, nelle infrastrutture, negli scambi, nell'istruzione pubblica, non fu tanto dovuto alla barbarie dei nuovi arrivati, quanto al venir meno dell'unità mediterranea, al crescente isolamento d'ogni provincia, al crollo del prelievo fiscale e degli investimenti. Ma in quei secoli dell'Alto Medioevo che produssero pochi testi scritti e pochi edifici imponenti, e che perciò a noi appaiono oscuri, l'eredità di fondo della civiltà mediterranea, grecoromana e cristiana, si mescolò con le forze nuove dei barbari venuti dal Nord, e da questo connubio faticoso cominciarono ad emergere nuove lingue, nuove identità nazionali, una nuova civiltà, quella dell'Occidente come lo conosciamo ancor oggi.

martedì 22 gennaio 2008

Palatino, il tunnel segreto di Augusto

Palatino, il tunnel segreto di Augusto
Con gli archeologi tra i tesori scavati nei criptoportici
CARLO ALBERTO BUCCI
SABATO, 05 GENNAIO 2008 LA REPUBBLICA - Roma

Secondo le cronache di Svetonio fu qui che venne ucciso Caligola. Il passaggio sotto la casa dell´imperatore


Del togato, che giace ancora accanto al cumulo di terra che l´ha sepolto, si spera di ritrovare almeno la testa. Mentre è certo che proprio tra uno di questi criptoportici scavati nelle viscere del Palatino trovò la morte per mano dei suoi pretoriano Caligola il 14 gennaio del 41 d. C. Bellezza e ferocia, storia e archeologia, architettura e natura, si sovrappongono nel cuore della Città eterna. Ci siamo calati nel buco nel terreno che scende a nove metri sotto gli "Horti" che i Farnese nel XVI secolo fecero costruire spianando le rovine della dimora di Tiberio e riempiendo di terra i criptoportici che collegavano le case di d´Augusto con il Foro romano: i passaggi segreti - architetture tanto semplici quanto utili, imponenti, spartane - del palazzo degli imperatori.
Il soprintendente Angelo Bottini scende per la prima volta a vedere lo scavo che, iniziato a settembre e diretto dall´archeologa Maria Antonietta Tomei, sta rapidamente liberando dalle tonnellate di terra il tunnel che corre parallelo al criptoportico di Nerone. Ma svuotati dai detriti sono anche i passaggi laterali che, di volta in volta, gli operai dell´azienda "Consorzio Italia" trovano scendendo fino al pavimento, a cinque metri dalla chiave di volta. E in uno di questi anfratti - tra le volte che minacciano di crollare sotto la spinta delle radici degli alberi, giunte a scardinare fin quaggiù mattoni e malta - la terra usata come riempitivo ha restituito la statua acefala di un membro dell´élite imperale che volle farsi rappresentare bello come un dio greco. E la cui foto il 10 dicembre è stata mostrata durante la conferenza stampa per la riapertura (il 2 marzo prossimo) della Domus d´Augusto.
Bottini si piega per analizzare la statua. «Guardi soprintendente, ci sono ampie tracce di rosso sul appanneggio» sottolinea la Tomei liberando il vestito dalla polvere. «Già, anche la scultura nell´arte romana risplendeva di "rosso pompeiano"». Accanto al corpo, gli archeologi i primi di dicembre hanno trovato anche tre ali di marmo, «la suggestione è che appartengano alle Nike che fungevano da acroteri sul tempio della Vittoria». Verrebbe voglia di togliere la terra oltre il collo mozzo del togato, e cercare le altri parti di queste o di altre meravigliose statue. «Non si può "sgrottare", rischiamo di fare la fine dei topi», avverte la Tomei: «Lo scavo deve essere stratigrafico, partire dall´alto». E si sporge nel buio della caverna creata dal crollo del criptoportico «che la mancanza di tegole bipedali ci permette di datare a una fase pre neroniana, forse all´età augustea o al tempo di Caligola», precisa l´archeologa della soprintendenza. «Questo scavo dimostra che la casa di Augusto era molto più estesa di quanto immaginiamo. E mettere in sicurezza dai crolli immanenti la domus del suo successore Tiberio, significa salvare tutto il Palatino, che è un luogo ancora tutto da scoprire».
Il colle cede e i percorsi sotterranei rischiano di franare l´uno nell´altro. Per questo, con la consulenza dell´ingegner Giorgio Croci, si stanno facendo lavori di scavo e di consolidamento. Un primo intervento l´ha realizzato il vecchio Dionisio. L´operaio sorride soddisfatto e mostra il muro di mattoni che ha tamponato il crollo di una volta. «L´ho fatto come lo facevano gli antichi romani, dottò. Reggerà».

"Cerco la moneta giusta per datare questa meraviglia"

"Cerco la moneta giusta per datare questa meraviglia"
(c. a. b.) intervista ad Angelo Bottini
SABATO, 05 GENNAIO 2008, LA REPUBBLICA - Roma

L´INTERVISTA

Parla il soprintendente archeologo Angelo Bottini che si è calato per la prima volta nel passaggio

«Questa dei criptoportici, è una magnifica mania degli architetti romani. Servivano come passaggi interni e sotterranei. Poi, quando il palazzo divenne esclusiva dell´imperatore, ai tempi di Nerone, almeno in parte non servirono più. E caddero in disuso». Il soprintendente archeologo si studia la nuova meraviglia del Palatino. E ne spiega passato e futuro.
Sorpreso dal criptoportico, professor Bottini?
«A Roma tutto è sorprendente. E, nonostante l´antichità sia stata molto studiata, offre continue novità. Come il ninfeo che abbiamo pensato di identificare con il Lupercale e, ora, come questa rete di criptoportici che stupisce per stato di conservazione ed estensione».
Ha visto che bella la statua del togato?
«Sì, ma a me interessa più trovare una moneta, il frammento di un vaso sbeccato o il marchio di fabbrica, il bollo, su un mattone».
I musei ne sono pieni, però.
«Ma questi elementi minimi sono fondamentali per la datazione. E quando vengono rubati da pasticcioni Indiana Jones, sono guai seri. È come quando arriva la scientifica e trova la scena del crimine manomessa».
Che vi aspettate di trovare nel luogo dell´assassinio di Caligola?
«Ci aspettiamo innanzitutto di mettere in sicurezza il colle e di proteggere dai crolli le rovine del Palatino. Intanto però restauriamo e contemporaneamente portiamo alla luce i segreti della dimora imperiale, che sono ancora molti. E al tempo stesso apriamo al pubblico nuovi ambienti. È un circolo continuo, virtuoso».
Per uno scavo completo, di quanti soldi avreste bisogno?
«Sparo? Cento milioni. Ma no, non servono. Se domani venisse il premier Prodi e me li offrisse, io direi: no grazie. Meglio cinque. E un impegno costante del governo che ogni anno ci dia i fondi per arrivare, in un paio di decenni, alla salvezza del Palatino».
Se avesse mano libera, quanti operai impiegherebbe?
«Pochi, non servono megacantieri. Se potessi, scaverei completamente l´area sovrastante. Ma si tratta degli "Horti farnesiani". E bisogna rispettare il giardino cinquecentesco».
Gli alberi però hanno solo 200 anni al massimo. Che c´entrano col Rinascimento?
«Molti li ha messi nell´800 l´archeologo Pietro Rosa. Non si possono toccare li ha piantati ... un avo delle dottoressa Tomei».

Avatar a spasso nella Roma antica

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MASSIMO MATTONE
Il Sole 24 Ore (Nova) 17/01/2008

L'incedere del tempo è naturalmente associato alla perdita ineluttabile di informazioni sul passato. Della memoria storica. Che però -in barba alla crescente distanza temporale dall`evento - trova proprio nel progresso scientifico e tecnologico un valido alleato per non dimenticare. E per creare nuovi modelli di conoscenza e di apprendimento. È il caso del Museo virtuale della Via Flaminia antica, simbiosi perfetta di cultura, innovazione e nuove tecnologie basate sul coinvolgimento multisensoriale.
Il progetto - che regala all`Italia il primo museo virtuale archeologico multiutente in Europa - raccoglie i frutti di anni di lavoro di esperti informatici, paleobiologi, archeologi, architetti, storici dell`arte e ricercatori dell`ItabcCnr,
l`Istituto di Tecnologie Applicate ai Beni Culturali-Virtual Heritage Lab del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
In una sorta di Second Life, quattro visitatori (reali) del Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano - grazie ad altrettante postazioni interattive - potranno compiere un viaggio
(virtuale) alla scoperta della Villa di Livia (moglie di Augusto), del casale medievale Malborghetto, dell`area archeologica di Grottarossa e del ponte Milvio, teatro di scontro tra Massenzio e Costantino.
I rispettivi avatar, aggirandosi tra giardini e chiostri affrescati dell`età augustea, immersi nella flora e la fauna del tempo, s`imbatteranno di volta in volta in un soldato di Augusto, un giardiniere, un pittore. I più fortunati potranno anche incontrare l`Imperatore. O sua moglie Livia. E il resto del pubblico? Nessun problema. Infilando un paio di occhiali stereoscopici, potrà seguire in tempo reale- attraverso un apposito maxischermo - le esplorazioni virtuali degli avatar. «Siamo vicini al cinema del futuro», ha commentato Maurizio Forte, responsabile Itabc-Cnr del progetto. Rimarcandone il carattere assolutamente scientifico. Aspetto che il suo istituto ha messo ancor più in risalto firmando di recente il London Charter, la Carta europea che traccia le linee guida affinché le
opere virtuali «rispondano a criteri di scientificità e trasparenza delle fonti documentarie».

lunedì 21 gennaio 2008

Rosso pompeiano. La decorazione pittorica nelle collezioni del Museo Nazionale di Napoli e Pompei

La Repubblica 21.1.08
Roma. Rosso pompeiano. La decorazione pittorica nelle collezioni del Museo Nazionale di Napoli e Pompei
Palazzo Massimo alle Terme. Fino al 30 marzo.

La pittura decorativa parietale romana viene comunemente detta stile pompeiano, con riferimento ai ritrovamenti effettuati nelle dimore della città vesuviana, distrutta nel 79 a. C. Questo stile si articola in quattro fasi: nella prima, imita un rivestimento a lastre marmoree, nella seconda, è caratterizzato da vedute architettoniche e paesaggistiche, da quadri con statue, figure umane e animali, nella terza, dalla predilezione per l'ornamentazione policroma, nella quarta, da un particolare impiego di materiali fantastici. A partire dal 1739 i Borboni fecero staccare alcuni frammenti dalle pareti affrescate delle case di Ercolano, Pompei, Stabia e Boscotrecase. Ora questi frammenti, incorniciati, sono esposti insieme a intere pareti dipinte di Moregine, della Casa del Bracciale d'oro, della villa di Livia, moglie di Augusto.

sabato 19 gennaio 2008

I barbari. Non erano né rozzi né incolti e per loro Roma era un mito

La Repubblica 19.1.08
I barbari. Non erano né rozzi né incolti e per loro Roma era un mito
Si apre il 26 gennaio a Palazzo Grassi una grande mostra dedicata alle popolazioni che scesero in Italia dal Nord Europa
di Paolo Rumiz

Cieli bassi della Francia del Nord, pioggia fine tra gli abeti. In una radura, alcuni archeologi cercano tra i resti di un campo militare romano del quarto secolo. Dal terriccio saturo di frammenti di coccio, sbuca a un certo punto un testone di pietra arenaria, primitivo e calvo, più simile al guanto di un pugile che a un ariete. Si scava ancora, ed ecco emergere anche il busto, percorso per tutta la lunghezza, fino al mento, da un enorme sesso maschile. Gli esperti riconoscono al volo l´impressionante inquilino del "Castrum". E´ Freyr, il Dio germanico della fertilità, adorato dagli stessi popoli che hanno distrutto le legioni di Augusto nella Selva di Teutoburgo. Una preda di guerra? Niente affatto: è un idolo dei legionari stessi, sistemato accanto alle statue degli dei olimpii, lì sulle retrovie del Limes imperiale.
Domanda: che ci faceva il simbolo di pietra del nemico in mezzo alle aquile e ai fasci littori? Nella logica dello scontro di civiltà, non sarebbe come scoprire oggi un Corano in arabo nello zaino di un soldato americano in Iraq? C´è la risposta: prima dello scontro c´era stato l´incontro. Nel quarto secolo le legioni si erano già "barbarizzate"; avevano inglobato nei loro ranghi contingenti germanici, goti e vandali con tutto il loro armamentario di dei, idoli, usanze. "Franco nel civile, sono soldato romano sotto le armi", si legge in una lapidaria iscrizione tombale di quel tempo. Era chiaro: per reggere all´urto della "grande immigrazione" l´impero aveva dovuto assumere una struttura "federale", accogliendo nel suo territorio popoli stranieri purché questi accettassero di difendere il Limes con le armi. I due mondi - Mediterraneo e mondo continentale - si erano sfiorati e annusati a lungo prima di scontrarsi.
E´ duro assai a sgretolarsi l´immaginario occidentale - greco-romano o giudaico-cristiano non importa - che vede l´arrivo dei barbari come un´orda selvaggia che rompe gli argini, sfonda una muraglia, dilaga stupefatta su terre che non conosce, passa come un caterpillar su templi, strade selciate, acquedotti, palazzi e ville patrizie. Un flagello, una massa incontenibile di guerrieri forti e incorrotti che scardina le difese di una popolazione decadente, i suoi guerrieri effeminati, i suoi affaristi imbroglioni, ne rade al suolo le città, ne rifiuta e ne abbatte gli dei millenari per sostituirli con i propri. Niente di più sbagliato per raccontare un´epoca che fu invece di coabitazione, quella da cui nasce il mondo cristiano, che a impero defunto diventa veicolo di romanizzazione in terre mai toccate dalle legioni. Tempestose scogliere d´Irlanda, ventosa Danimarca alle porte del Baltico, cupe foreste di Sassonia, steppe oltre il Tibisco.
La stessa parola "invasioni" è depistante, perché riduce a evento da rotocalco quello che fu un processo lungo di osmosi, prima che di confronto e scontro; una coabitazione, che prolungò la vita dell´impero anziché accelerarne il crollo. Insomma, i popoli venuti dal Nord e dalle steppe eurasiatiche vanno riabilitati, riletti come civiltà: è quanto ci dice la mostra "Roma e i Barbari, nascita di un nuovo mondo" che dal 26 gennaio sarà aperta per sei mesi a Palazzo Grassi, Venezia, campo San Samuele 3231. Una massa di reperti che travolge, sbriciola stereotipi, evoca l´affresco grandioso di un´epoca lunghissima. Dieci secoli, fino al tempo dei vichinghi, dei magiari e degli slavi. Ultime retroguardie delle turbolenze iniziate poco dopo l´epoca di Augusto.
All´inizio, il barbaro è nient´altro che il trofeo. La misura stessa della potenza dell´impero è data - su colonne, scudi, sarcofaghi e archi di trionfo - dalla quantità di corpi nudi e barbuti massacrati dalle legioni, arrotati da quadrighe o inginocchiati con le mani legate dietro la schiena. E´ questo il senso dell´erculea statua decapitata del prigioniero gallo scoperta in Francia a Saint Bertrand-de-Comminges; e lo stesso può dirsi delle immagini truculente di battaglia che circondano il sarcofago del Portonaccio a Roma, oppure del cammeo col trionfo di Licinio imperatore, i cui cavalli calpestano un tappeto di corpi nemici, aprendosi a ventaglio come quelli di San Marco a Venezia.
«Il tema della supremazia di Roma sull´Orbe è rappresentato in mille varianti da un perfetto sistema di propaganda» spiega Jean-Jacques Aillagon, 61 anni, curatore della mostra ed ex presidente del centro Pompidou a Parigi. «Roma è la prima civiltà che usa l´immagine per diffondere l´idea di se stessa e del mondo». Un´immagine così forte, così venerabile, che il sogno resterà intatto anche dopo il crollo, vedrà nei barbari i suoi più accesi sostenitori, e si reincarnerà da Carlo Magno in poi nell´idea di Sacro Romano Impero Germanico, di cui l´Austria-Ungheria fu l´ultima immagine terrena. Teodorico a Ravenna e Alarico a Tolosa pretendono di essere imperatori; re visigoti e longobardi battono monete che li vedono rappresentati alla romana; alcuni di loro - consapevoli di non poter rivaleggiare con i monumenti del passato - si preoccuparono di restaurarli. L´acquedotto di Ravenna o le terme di Cartagine sono giunte in ottimo stato fino a noi grazie ai barbari invasori.
Tempo fa un abitante di Magonza mi parlò con commozione e orgoglio del "Castrum", il campo romano della sua città. M´accorsi che mai nessun italiano avrebbe vantato con tanta fierezza il passaggio delle legioni. Mi chiesi come mai gli eredi dei barbari Germani ricordassero Roma con più partecipazione dei latini. Cosa poteva spiegarlo se non il fascino che il mito imperiale, la sua formidabile organizzazione, la sua logistica, avevano esercitato sui popoli del Nord e del lontano Oriente? Era chiaro: la leggenda di Roma era sopravvissuta alla periferia dell´impero meglio che nel suo centro papalino, dove un altro potere - un altro monarca circondato da ori, incensi e canti gregoriani - aveva cancellato il vecchio mondo dopo averne accelerato la dissoluzione.
Erano rozzi e incolti? Ma quando mai. Aristocrazie barbare e romani avevano gli stessi modelli di autorappresentazione. L´imperatrice Amalasunta, sesto secolo, è in tutto e per tutto bizantina; la figlia di Teodorico l´ostrogoto ha scettro, corona, globo e dalmatica; abbina magnificamente la potenza del Nord con la raffinatezza d´Oriente, è una valchiria nei panni di Teodora, imperatrice costantinopolitana. E che dire della croce votiva visigota di Cluny, capolavoro di oreficeria e omaggio commovente alla Chiesa di Cristo, oppure della fibbia vandalica trovata a Cartagine, tutta europea nell´anima, segno che l´altra sponda del Mediterraneo - quella che diede origine a Sant´Agostino - fece parte del nostro mondo prima di essere risucchiata dal Jihad. Per non parlare del reliquiario merovingio dell´abbazia di Sain Maurice d´Agaune, nel Vallese, Svizzera, barbarico cofanetto che ingloba un cammeo classico e dopo quattordici secoli esce per la prima volta dalla sua teca claustrale per volare all´estero.
Roma ebbe imperatori africani e illirici, si collegò alle classi dirigenti straniere cooptandole nel senato, costruì a suo favore una rete di complicità internazionale di cui solo la massoneria inglese al tempo della regina Vittoria può dare una pallida idea. Secondo Monique Veaute, amministratrice di Palazzo Grassi, Roma è un esempio perfetto di "bon usage dell´immigration", e sembra che sbatta questa realtà sul muso degli stati-nazione d´Europa che oggi vedono le loro banlieues in fiamme e i loro immigrati in perenne stato d´accusa. Georges Duby scrive che i barbari di allora «avevano un solo desiderio: integrarsi. E per integrarsi veramente era necessario farsi cristiani». E´ accaduto per Longobardi, Goti, Vandali, Alemanni, Svevi, Franchi, Daci, Sassoni e Angli. Perché oggi non accade? Forse perché il cristianesimo sapeva "inculturarsi" meglio nei nuovi popoli, tirandoli a sé senza togliere nulla alle loro identità? O perché l´idea romana dell´ecumene si è estinta con la fine degli imperi e il trionfo delle nazioni?
L´emblema della mostra è un busto aureo di Marco Aurelio, l´imperatore-filosofo che muore combattendo sul Danubio. Questo reperto eccezionale, prestato a Venezia dopo estenuanti trattative dal museo Romains di Avenches in Svizzera, simboleggia il destino dell´impero, il suo apogeo e la sua decadenza. Era il tempo in cui le legioni, irrobustite di nuovo sangue barbarico, avevano raggiunto il top della loro potenza d´urto. Ma l´Orbe era ormai troppo grande per resistere, in quel tempo senza telefoni, senza internet, treni e aeroplani. Le magnifiche strade romane non bastavano più, e lo sguardo di Marco Aurelio imperatore, perso verso le pianure infinite dei sarmati e dei daci oltre i Carpazi - le stesse da cui sarebbero sbucati gli Unni - sembra percepirlo come fato ineluttabile.

venerdì 18 gennaio 2008

Londra celebra Adriano: «Una figura di straordinaria attualità»

Corriere della Sera 18.1.08
Mostre. Colloquio con il direttore del British Museum, candidato alla guida del Metropolitan
L'imperatore che si ritirò dall'Iraq
Londra celebra Adriano: «Una figura di straordinaria attualità»
di Guido Santevecchi

Il Vallo? L'idea era di unire la Britannia al resto di Roma
Questa è la più grande istituzione del mondo: io sto bene qui Il potere e i conflitti

All'imperatore romano, che regnò dal 117 al 138, anno della sua morte, è dedicata la mostra «Hadrian, Empire and Conflict» in programma da luglio a ottobre al British Museum di Londra


LONDRA — Le parole di Neil MacGregor, nella Great Court del British Museum, hanno il tono di un elogio funebre. Diciannove secoli dopo la morte dell'imperatore romano che Londra si prepara a celebrare con una grande mostra: Hadrian, Empire and Conflict, inprogramma da luglio a ottobre. Alle spalle del direttore del museo la testa di bronzo di Adriano domina la sala: l'artista romano-britannico l'aveva modellata dopo aver osservato da vicino il sovrano durante la sua visita a Londinium nel 122. Secoli dopo qualcuno la gettò nel Tamigi, da dove è riemersa nel 1834. Il direttore MacGregor ci parla in italiano, ma potrebbe esprimersi anche in latino, perché sente di essere un erede della grande costruzione imperiale di cui la Provincia Britannia faceva parte.
«Abbiamo scelto di offrire Adriano ai visitatori come protagonista del 2008 perché pensiamo che questa figura classica abbia un rilievo nelle nostre vite ancora oggi, rappresenti la continuità della storia. Volete una prova? La sua prima decisione quando arrivò al potere nel 117 dopo Cristo fu di ritirare le legioni dalla Mesopotamia, l'Iraq di oggi. L'ordine partì poche settimane, forse pochi giorni soltanto dopo l'inizio del suo dominio. E poi la sua seconda priorità fu l'apertura di un negoziato con i Parti, i moderni iraniani », dice con un sorriso. E subito insiste con i paralleli, con i segni della continuità della storia: «C'erano rivolte dalla Mesopotamia alla Palestina, ai Balcani quando Adriano prese in mano le sorti del mondo».
Iraq, Palestina, Kosovo, sembra di leggere i titoli dei giornali.
Vuole forse dire che l'imperatore potrebbe suggerire qualche risposta al prossimo presidente degli Stati Uniti? Se fosse vivo oggi, invece che nella sua villa di Tivoli, Adriano potrebbe insediarsi alla Casa Bianca di Washington? MacGregor sta al gioco e replica deciso: «Israele non sarebbe d'accordo. Una sezione della mostra illustrerà la repressione della ribellione in Giudea, che rappresentò il volto brutale del suo potere. Scavi recenti hanno restituito reperti commoventi di quella campagna spietata: come alcune chiavi trovate dagli archeologi israeliani nel deserto. Le avevano portate nelle loro sacche dei fuggiaschi ebrei, erano le chiavi delle case in cui avevano sperato di poter tornare: ma i romani distrussero decine di città e villaggi e quella gente morì in una grotta».
Anche Neil MacGregor potrebbe avere qualche motivo di risentimento storico nei confronti di Adriano. Il direttore viene dalla Scozia, che fu separata dal resto dell'isola con il Vallo Adriano. «Per noi è l'imperatore che ha fissato i confini tra l'Inghilterra e la Scozia, ma quel muro non era fatto solo per dividere, l'idea era di unire la Britannia governata dai romani con il resto dell'impero». Eppure uno studio che sta avendo un buon successo editoriale,
An Imperial Possession, di David Mattingly, sostiene in termini revisionisti che l'impero romano non ha fatto alcun bene alla Britannia, che è stato un dominio militare di sfruttamento. MacGregor non è d'accordo: «Per me la presenza romana in Britannia è stato il fatto fondamentale di tutta la nostra storia, una circostanza molto felice, che ci ha legato al continente, ci ha reso parte delle grandi vicende del Mediterraneo. E il Vallo Adriano è in un certo senso un simbolo di questa nostra Gran Bretagna, della sua doppia natura, non interamente europea, in parte atlantica, fuori dall'Europa, una continuità affascinante».
Però era pur sempre un muro, come quello di Berlino. Sembra ardito vederci qualcosa di positivo. «Quello di Adriano era una risposta intelligente a una crisi, come la decisione di ritirarsi dalla Mesopotamia, per fissare una frontiera difendibile dal punto di vista militare e politico. Certo, moralmente ogni muro è problematico». Ma la politica non è mai morale. MacGregor ride: «Lei viene dal Paese di Machiavelli, io no».
Non è machiavellico, ma da quello che dice il direttore è evidentemente convinto che l'impero vittoriano britannico sia stato più vicino all'Antica Roma che non alla politica di superpotenza americana.
«Sì, i due imperi sono molto simili, per la loro visione mondiale della civilizzazione e per l'eredità. Hanno lasciato lingue universali: il latino e l'inglese; un sistema legale: il diritto romano e il nostro common law; ed erano impegnati allo stesso modo nel campo delle comunicazioni: i romani hanno costruito una rete di grandi vie, noi la ferrovia.
Erano due imperi molto pratici, che guardavano alla stabilità per garantire la libertà dei commerci e per questo hanno consentito diversità enormi al loro interno, hanno permesso ai popoli di mantenere tradizioni, religioni, in questo erano di massima tolleranza».
Di Neil MacGregor si parla sempre come del possibile successore di Philippe de Montebello alla guida del Metropolitan Museum di New York.
«Sto benissimo al British», replica senza esitazione il direttore scozzese. Forse pensa agli Uffizi? «Si guarda sempre agli Uffizi, con amore e nostalgia, ma io sono qui, nella più grande istituzione del mondo». Saluta e torna nel suo studio, forse a pensare alle sue legioni: quei cinque milioni e mezzo di visitatori che l'anno scorso sono entrati al British Museum.

venerdì 11 gennaio 2008

Roma, l’inganno della Lupa è "nata" nel Medioevo

Grazie alla tecnica di fusione del bronzo è stato possibile svelare l’origine della famosa opera

Roma, l’inganno della Lupa è "nata" nel Medioevo

Scultura simbolo della città, si pensava che risalisse al V secolo avanti Cristo. Ora uno studio ne ha accertato l’età reale

di ADRIANO LA REGINA *

OPERA d’arte celeberrima, simbolo di Roma e rappresentazione emblematica delle sue origini leggendarie, la Lupa capitolina è da sempre considerata uno dei capolavori dell’antichità. Compare nei manuali di storia dell’arte come oggetto di produzione etrusca.

Già attribuita a Vulca, il grande scultore di Veio chiamato a Roma nel tardo VI secolo per decorare il tempio di Giove capitolino, la Lupa è stata più di recente giudicata opera di un artista veiente della generazione successiva, il quale l’avrebbe plasmata e fusa tra gli anni 480-470 avanti Cristo. È invece noto da tempo che i gemelli sono stati aggiunti nel 1471 o poco dopo quando il bronzo, donato da Sisto IV alla città di Roma, fu trasferito dal Laterano sul Campidoglio.

Ora ci viene dimostrato, con argomenti inoppugnabili, che neanche la Lupa è antica. Per caratteristiche tecniche essa si inserisce infatti coerentemente nella classe della grande scultura bronzea d’epoca medievale, mentre per qualità formali può essere attribuita ad un periodo compreso tra l’età carolingia e quella propria dell’arte romanica.

Nel 1997 il restauro della scultura fu affidato ad Anna Maria Carruba, una storica dell’arte restauratrice che da anni si dedica alla conservazione di bronzi antichi, la quale ha svolto accurate indagini intese anche a determinare la tecnica di fusione. Ne risultò che la scultura era stata fusa a cera persa col metodo diretto effettuato in un solo getto. Questa tecnica si evolve e si raffina in età medievale al punto di consentire la fusione di grandi bronzi, anche per l’esigenza di fondere le campane senza saldature e difetti, onde ottenerne purezza di suoni.

I bronzi d’epoca antica, greci, etruschi e romani, si distinguono da quelli medievali per la fusione in parti separate, poi saldate tra loro. Secondo la tradizione Rhoikos e Theodoros, due scultori greci del VI secolo a. C., "i primi a liquefare il bronzo ed a fondere statue" nelle parole di Pausania, avrebbero trovato il modo di ottenere le fusioni più accurate. La loro innovazione può essere riconosciuta, e questo è un altro importante contributo originale di Anna Maria Carruba, non nell’invenzione della fusione, già nota da tempo per la piccola plastica, ma piuttosto nella scoperta della tecnica della saldatura di parti fuse separatamente mediante l’impiego di altro bronzo come materiale saldante, definita "brasatura forte".

La tecnica adottata dal mondo greco, poi introdotta in Etruria ed a Roma, risulta estremamente più duttile nella costruzione dei volumi e dei sottosquadri, consentendo così di raggiungere risultati di grande ardimento compositivo e superando i limiti di stabilità imposti persino dal marmo, il più nobile dei materiali lapidei. Consente inoltre di ottenere livelli di qualità finissima nel plasmare le superfici, ed assicura infine un beneficio non secondario nel ridurre i rischi di fallimento durante i processi di fusione.

La tecnica medievale di fusione in un solo getto comporta invece l’adozione di forme ben più rigide, meno libere nello spazio, ma con indubbi vantaggi sotto il profilo funzionale, com’è nel caso delle campane; solamente nel Rinascimento si sarebbero raggiunti con l’impiego di questa tecnica, ed è celebre l’esempio del Perseo di Cellini, risultati per qualità paragonabili a quelli che in antico erano stati ottenuti con la fusione in parti separate.

La Lupa capitolina ha occupato una strana posizione nella storia dell’arte. Se si escludono alcuni studiosi dimenticati del XIX secolo, i quali ne avevano intuito l’origine medievale senza tuttavia dimostrarla, il contributo critico che oggi possiamo considerare il più importante tra quelli del Novecento è senz’altro dovuto ad Emanuel Ltwy, che basandosi solamente sull’analisi dei caratteri formali già nel 1934 escludeva la possibilità di attribuire la scultura alla produzione artistica etrusco-italica.

La critica si è però prevalentemente orientata, dapprima con qualche riluttanza e poi più decisamente, verso una sua collocazione nel mondo antico, individuandone la provenienza di volta in volta in ambienti della Magna Grecia, di Roma, dell’Etruria. Nella prima metà del Novecento con Giulio Quirino Giglioli, in un clima di entusiasmo per la scoperta dell’Apollo di Veio e di rampante nazionalismo, la Lupa "minacciosamente pronta a tutelare il popolo che la venerava" fu considerata opera di Vulca.

Maggior consenso è stato riscosso da Friedrich Matz (1951), il quale ha attribuito la scultura al decennio 480-470 avanti Cristo. Questa datazione perdura stranamente anche dopo l’acquisizione dei nuovi dati. Nel 2000, in occasione della sua presentazione dopo il restauro, la Lupa capitolina veniva ancora dichiarata senza alcuna esitazione, nella pubblicazione curata dai Musei Capitolini, il prodotto di una officina veiente degli anni 480-470. E quanto mai singolare che nel caso di un’opera di così ardua e sofferta classificazione siano rimaste inascoltate le indicazioni provenienti dalle indagini sulla tecnica di fusione eseguite durante il restauro.

Anna Maria Carruba ha sottratto un capolavoro all’arte etrusca, restituendolo a quella medievale. Se fosse necessaria una conferma di questo risultato del suo lavoro basterebbe osservare come la storia dell’arte etrusco-italica non risenta in alcun modo della perdita: la Lupa, in quel contesto, ha costituito sempre una presenza "extra ordinem", irrazionale, estranea a qualunque forma di storicizzazione. Non a caso, infatti, a differenza di altri grandi bronzi quali la Chimera e l’Arringatore, essa ha attratto assai poco l’attenzione di coloro che negli anni recenti più si sono dedicati allo studio dell’arte etrusca. D’altra parte, la nuova datazione lascia intravedere ampie prospettive di studio.

Sono ad esempio già più facilmente comprensibili alcuni rapporti di stile quali l’innesto di forme proprie della scultura sassanide del VII-VIII secolo nell’arte romanica.

(L’autore, ex sovrintendente ai Beni archeologici di Roma, è professore di Etruscologia all’università "la Sapienza")

la Repubblica, 17 novembre 2006

Lupa Capitolina: quali origini?

Paolo Brogi, Corriere della Sera di Roma del 13.02.2007

Bronzo medievale o etrusco? La Lupa, orgoglio dei Musei Capitolini, status symbol avvolto da un’aura quasi sacra, per anni emblema indiscusso della città che nei suoi momenti d’entusiasmo l’ha voluta attribuire al celebre scultore etrusco Vulca, è ora decisamente nei guai. Anna Maria Carruba, la restauratrice che l’ha avuta per le mani alla fine dello scorso decennio per risistemarla, non solo giura che il bronzo è medievale ma ora ha messo tutte queste sue convinzioni nero su bianco tramutandole in un documentato libretto appena uscito edito da De Luca Editori d’arte, «La Lupa Capitolina, un bronzo medievale».

Dalla sua la Carruba ha l’ex storico soprintendente archeologico di Roma, Adriano La Regina, che è sceso lancia in resta sposando il suo punto di vista e che oggi presenterà insieme ad altri studiosi il saggio a Palazzo Massimo, quartier generale dell’archeologia di stato. E contro? C’è certamente l’altro soprintendente ai monumenti, quello comunale, il professor Eugenio La Rocca il quale non solo non è stato invitato alla kermesse dissacratoria di oggi, ma che si prepara a partecipare alla
«giornata di studio» sulla Lupa il 28 al Museo d’arte classica «Odeion»: lì insieme ad archeologi (da Giovanni Colonna a Francesco Roncalli e Andrea Carandini) sono stati invitati anche parecchi storici, da Mario D’Onofrio a Lellia Cracco Ruggini.
Il punto di vista della Carruba è questo: la Lupa è stata realizzata con una fusione ad un solo getto, tecnica elaborata nel Me–dio Evo, mentre tutte le principali opere in bronzo di età etrusca e romana ri–sultano prodotte con assemblaggio di parti separate. Così, brandendo contro la Lupa i bronzi di Riace come la Chimera di Arezzo o il celebre Arringatore, il Grifo di Perugia come gli evangelisti di Orvieto, Carruba ha sferrato il suo attacco.

La restauratrice ricorda le citazioni classiche di una Lupa in bronzo, descritta in Campidoglio da Cicerone (nel 65 a.C. fu colpita da un fulmine), oppure da Tito Livio che la collocava presso il fico Ruminale, o ancora da Dionigi da Alicarnasso che riferiva di una bronzo munito di gemelli presso il Lupercale. «Ma dalle informazioni che essi forniscono - spiega la restauratrice - si desume che non si tratta della stessa statua: sono esistite diverse lupe di bronzo e non sembra che quella conservata ai musei capitolini possa essere identificata con alcuna di queste…». Non sembra. Ma vallo a spiegare ai contrari.

la Lupa Capitolina

la Lupa Capitolina
rassegna stampa
articoli sull’incontro di studi
La Lupa Capitolina: nuove prospettive di studio
28 Febbraio 2007, Università La Sapienza di Roma.

- Giuseppe della Fina (Repubblica)
- Fabio Isman (Il Messaggero)
- Adele Cambria (L’Unità)
- Andrea Carandini (Il Corriere della Sera)

Giuseppe Della Fina, da Repubblica
Nella giornata di ieri, per iniziativa del Dipartimento di Scienze Storiche e Archeologiche dell’Università La Sapienza, si è tenuto un interessante incontro-dibattito che ha avuto lo scopo di far discutere tra loro i sostenitori di tesi fortemente contrapposte. Sintetizzare un dibattito vivace, nel corso del quale sono state avanzate ipotesi diverse e forniti dati nuovi, non è semplice.

Numerosi archeologi intervenuti hanno sostenuto l’antichità della statua e segnalato la difficoltà di considerare dirimente il tipo di fusione in conseguenza della nostra conoscenza limitata delle tecniche di lavorazione antiche dovuta al numero di grandi bronzi giunti sino a noi. Hanno aggiunto poi considerazioni di tipo stilistico e storico che permetterebbero un inquadramento più coerente dell’opera in epoca antica anche se con alcune oscillazioni cronologiche significative: Giovanni Colonna ha prospettato una datazione nel primo quarto del V sec. a. C. e la fabbricazione in un’officina romana magari da parte di maestranze provenienti dalla Sardegna fenicio-punica; Gilda Bartoloni ha ipotizzato una realizzazione da parte di maestranze etrusche probabilmente veienti sempre nei decenni iniziali del V sec. a. C.; Andrea Carandini ha immaginato una datazione nella prima metà di quello stesso secolo. Francesco Roncalli ha insistito sul carattere di capolavoro del pezzo e sulla sua unicità; Maurizio Sannibale ha proposto di abbassarne la datazione e ha interpretato la statua come la ricostruzione a posteriori di un prototipo arcaico realizzato a partire dalla fine del IV sec. a. C. Sempre a favore dell’antichità della Lupa si sono schierati Eugenio la Rocca e Anna Mura Sommella che hanno richiamato le risultanze delle indagini archeometriche svolte in occasione del recente restauro dell’opera.

Adriano la Regina ha confermato invece la medievalità della statua. Una spaccatura si è registrata tra gli storici dell’arte medievale e gli studiosi di tecnologia antica. Tra questi ultimi Edilberto Formigli (Università di Siena) ha sostenuto in maniera convinta che la Lupa sia opera di maestranze medievali ed evidenziato l´assenza di un´attenta levigatura, mentre Claudio Giardino ha perorato la causa dell’etruscità partendo dall’esame della lega di bronzo dell’opera ed evidenziando l’alta percentuale di presenza del piombo non riscontrabile in età medievale. Sempre Giardino ha ricordato come l´analisi degli isotopi del piombo consenta di stabilire la provenienza del metallo dalle miniere sarde di Calabona, a sud di Alghero. Intorno alla Lupa Capitolina - c´è da scommetterci - si continuerà a discutere ed è un bene dato che la sua notorietà l’aveva quasi preservata da studi specifici e approfonditi.

Fabio Isman, da Il Mesaggero

A questo punto, la Lupa Capitolina è solo un mistero. Il Dipartimento d’Archeologia della Sapienza convoca una ventina di docenti ed esperti a dibattere se sia etrusca, o invece medievale, e il match (perché tale talora diventa, s’intende puramente scientifico) dà un esito non univoco: undici la vogliono antica, ma sei la dicono più recente. I “campioni” degli schieramenti sono forse Adriano La Regina (medievale) e Andrea Carandini (etrusca); ma altri offrono probabilmente le maggiori sorprese. Anna Maria Carruba, che la Lupa ha restaurata, dà fuoco alle polveri: una forbita serie di considerazioni sulla fusione e su certi dettagli, per lei la fanno post-datare. Però Claudio Parisi Presicce, dei Musei Capitolini, mostra che già in antico si facevano grandi fusioni a cera persa, fa scorrere esempi remoti di ciocche del pelame, di vasi sanguigni in vista e di posture dell’animale simbolo di Roma (tratte da monete imperiali), che fanno decisamente inclinare la bilancia a suo favore.

E se Mario D’Onofrio è l’unico a reputarla «carolingia», Anna Mura Sommella ne ha trovato dei prototipi nei dipinti di Tarquinia. Ma per Maurizio Sarmino, dei Musei Vaticani, “nasce” nel IV secolo avanti Cristo (dunque, non etrusca), come surroga d’un precedente esemplare distrutto. C’è poi chi non d’arte, bensì di esami di laboratorio si occupa. E gli ostacoli per continuare a ritenere la Lupa un esemplare classico ed antico, si moltiplicano. La terra di fusione proviene dalla Valle del Tevere, tra Roma ed Orvieto; ma il piombo, dalla miniera sarda di Calabona, vicino ad Alghero: piombo cui Roma accedeva in età classica, e certo non nel Medioevo.

Ma dall’Università di Milano-Bicocca arriva Marco Martini e racconta che la luminescenza data quel bronzo dal X al XV secolo; per Gilberto Calderoni, Scienza della Terra alla Sapienza, il radiocarbonio la colloca invece verso il 650 dopo Cristo; altri spiega che la struttura della lega è quella degli etruschi, e mostra perfino una fusione a cera persa, di una scultura che proviene da Susa, in Iran, alta un metro e 20 e oggi al Louvre, che risale a ben 14 secoli prima di Cristo; e Marina Righetti, pur essendo medievista, crede alla versione classica (ed antica): rigetta l’ipotesi che la Lupa sia del 1200.

Insomma, un bel guazzabuglio. Condito dalle solite velate polemiche tra chi si dedica ad esami di laboratorio e gli studiosi d’arte. Un pomeriggio intero a discuterne, nella certezza che (D’Onofrio) «non è semplice rimuovere consolidate convenzioni». E alla fine, un archeologo famoso e saggio come Antonio Giuliano, se ne va chiedendosi: «Ma perché non lasciano in pace questa Lupa benedetta? Tanto, ad una verità comprovata ed accettata da tutti non s’arriverà mai».

Adele Cambria, da L’Unità

È stato un autentico certame quello che si è scatenato ieri per oltre cinque ore nel gremitissimo Odeion (o Museo dei Gessi) dell’Università «La Sapienza», a proposito della origine - etrusca? etrusco/romana? medioevale? - della Lupa Capitolina. Adriano La Regina, introducendo il dibattito con una erudita ma veloce analisi dei caratteri stilistici della scultura, ha concluso: «Come abbiamo visto gli elementi formali non riescono a dare oggi una risposta univoca alle domande sulla datazione dell’opera: più produttivo appare dunque il passaggio alla discussione sulle tecniche di fusione della Lupa Capitolina, quali risultano dal restauro, supportato dalle nuove tecnologie di indagine sui monumenti antichi, e condotto da Anna Maria Carruba; a cui ora darei la parola, limitandomi a confermare che non esistono grandi sculture bronzee dell’antichità, tra quelle, e non sono poche, a noi pervenute, che presentino una fusione diretta, ad un sol getto, tecnicamente definita “a cera persa”. Come risulta essere quella della Lupa».

E, a questo punto, la responsabile della clamorosa operazione di spostamento in avanti (di un numero tuttavia imprecisato di secoli) della data di nascita di quello che è, per antonomasia, il simbolo di Roma, ha ripercorso sobriamente le scoperte già illustrate nel suo libro, «La Lupa Capitolina», sottotitolo «Un bronzo medioevale»: concludendo che «le abilità metallurgiche dell’Età Classica, declinarono con la fine dell’Impero romano, e risorsero nel Medioevo, quando l’esigenza di assicurare la limpidezza del suono delle campane, riscoprì la fusione a getto unico, c.d. “a cera persa” che, in antico, comunque, risultava utilizzato soltanto per bronzi di piccole o medie dimensioni». «Una coraggiosa e pericolosa ipotesi critica», la sua, a parere di Eugenio La Rocca: introducendolo, la Direttrice del Dipartimento di Scienze Storiche, Archeologiche e Antropologiche dell’Antichità, Gilda Bartoloni, l’aveva brillantemente definito «Il padrone della Lupa». E il Soprintendente archeologico capitolino ha avvertito: «Le opere d’arte più celebri sono - e forse sono destinate a rimanere - le più misteriose. In realtà, non ci si appassiona nemmeno alla loro origine. Ma il restauro della Lupa ci costringe a separare il nucleo della materia concreta, questa scultura bronzea, dal guscio delle interpretazioni. Tuttavia le indagini tecnologiche sono soltanto una componente della lettura di un’opera d’arte, e vanno considerate nel contesto in cui le si usa, e chiedersi a quali domande avrebbero dovuto rispondere. I bronzi che in questa ipotesi - che ha avuto un enorme clamore mediatico - sono stati messi a confronto con la Lupa, come il Grifo e il Leone di Perugia, o il Leone di Braunschweig, coprono un arco di tempo, tra il settimo e il quindicesimo secolo, troppo vasto, rispetto alla datazione tradizionale dell’opera (480-470 a.C). Era dunque indispensabile riportare la discussione alla sua sede naturale: questa. Un luogo in cui tutte le ipotesi possano discutersi pacatamente, avviandosi sulla strada di una conclusione possibile». Il che non è stato, e non poteva essere.

Interessantissimo l’intervento di Claudio Parise Presicce, il giovane Conservatore dei Musei Capitolini che ha seguito passo passo i restauri. Ha sottolineato come le indagini più avanzate effettuate sulla scultura, e ripetute in laboratori diversi, Milano, Berlino, Upsala, per verifica, abbiano dato anche risultati contradditori: per esempio, ad Upsala, la datazione della scultura potrebbe essere vicina a quella del cavallo di Marco Aurelio. Ha ipotizzato che nella fattura dei bronzi antichi le due tecniche - quella a cera persa e quella a parti saldate - convivessero. Ed ha concluso per il mantenimento della datazione tradizionale. Lella Cracco Ruggini, autorevole studiosa dell’iconografia della Lupa Capitolina, distingue i due filoni della rappresentazione della Lupa romana: quella materna col muso affettuosamente rivolto verso i gemelli e la lupa totem, feroce che punta le zampe e digrigna i denti, riprodotta in antiche monete d’oro e d’argento e in un mosaico di Ostia del III sec.a.C. Conclude, la studiosa, chiedendosi: «La Lupa Capitolina è un rifacimento medioevale? Personalmente non ci credo molto. In ogni caso, al tempo di papa Sisto IV, che la regalò al popolo romano in segno di conciliazione tra il popolo e la curia, si riteneva che si trattasse di una scultura antica». Pacato Andrea Carandini, nel ricordare che «il Medioevo non ci ha offerto, finora, nessuna scultura bronzea assimilabile alla Lupa».

Insomma, l’unico difensore ad oltranza della Lupa medioevale, risulta il professor Edilberto Formigli: con la paradossale motivazione che la Lupa capitolina è troppo rozza per essere un’opera dell’ antichità.

Andrea Carandini, da Il Corriere della Sera

Le leggi fisiche sono probabilistiche, e anche quelle desunte dalla tecnica, per cui si tratta di ipotesi, più o meno verosimili, non di verità assolute. La legge tecnica suddetta - per la quale la cera perduta a getto unico nei grandi bronzi sarebbe un’invenzione esclusivamente medievale - si basa su una statistica molto limitata, specialmente per l’età tardo-arcaica. D’altra parte si conoscono nella storia della tecnica scoperte, geniali o casuali, che non hanno avuto seguito, per cui soltanto secoli dopo sono state generalizzate (come la polvere da sparo in Cina). Constato inoltre che, a suo tempo (prima della medievalizzazione della Lupa), i restauratori della Chimera di Arezzo - bronzo indiscutibilmente antico - hanno interpretato la fusione di quel bronzo in modo opposto a quello che ora propone la Carruba, la quale peraltro onestamente scrive per essa di «ardua individuazione dell’originale procedimento di realizzazione». La conformazione raccolta di un quadrupede, con le zampe al medesimo livello, sembra prestarsi assai meglio alla fusione unica di una figura umana, più lunga e articolata, per cui nei casi di questi animali la fusione a getto unico parrebbe accettabile. Non è forse un caso che le possibili eccezioni alla legge tecnica della Carruba riguardino due quadrupedi. Non sarei tanto sicuro, come la Carruba, che la lupa non possa corrispondere ad alcuna notizia delle fonti letterarie. Potrebbe trattarsi della Lupa che in antico era sul Campidoglio, se solo i gemelli sottostanti fossero stati rivestiti d’oro; infatti sulla Lupa mancano tracce auree (si veda A.C., a cura di, La leggenda di Roma, Mondadori 2006) . Come che sia, ogni argomento tratto dal silenzio un argomento non è. Conosciamo inoltre un’altra lupa antica stante e con testa non rivolta all’indietro, come quella del denario di Satrienus del 77 a.C., che con mammelle rigonfie e crine rilevato tra collo e schiena presuppone, seppure alla lontana, la Lupa Capitolina. Dissento con l’interpretazione storico-artistica che la Carruba ci dà della lupa. Scrive di «forma lineare, legata, rigida, emblematica e astratta» e di «motivi svuotati di ogni intento naturalistico». Invece la Lupa è una creazione straordinariamente naturalistica, che imita la natura di una lupa «vera» ed anche le stilizzazioni del pelo sono, come vedremo, al servizio dell’anatomia. Questa tesi è bene argomentata in uno studio recente di Nadia Canu. Immaginare un’opera realisticamente e stilisticamente tanto straordinaria nella Roma dell’ VIII secolo d.C. è impresa che rasenta l’impossibile. Nella «nuova Roma» e nel «nuovo Laterano» di Aquisgrana venne esposta - per volere di Carlo Magno, che la nostra Lupa aveva visto in Roma - un’orsa bronzea romana di ottima fattura, presa per una lupa, il che è quanto mai significativo sulla sensibilità artistica medievale che con i simboli vinceva ogni realtà. È finito il tempo della naturalis historia dell’età classica, basata sulla classificazione proto-scientifica di vegetali e animali, e comincia quello degli animali fraintesi e fantasiosi, privi di ogni intento naturalistico. Si pensi alla faina coccodrillesca più che lupesca del dittico di Ratisbona del 900 d.C. circa, al mostruoso leone di Hildesheim del 1015 che ha il volto di un pipistrello, al maestoso ma goffo leone di Braunschweig del 1166, che sembra di pezza e ricorda il felino del Mago d’Oz, fino ai più tardi leoni stilòfori, come quello del Duomo di Parma, che anelano tristemente a una liberazione impossibile dalla pietra appena squadrata. Certo, la Lupa Capitolina - tra i rarissimi grandi bronzi sempre esposti e superstiti, con il Marco Aurelio - raggiunge la sua massima fortuna proprio dall’VIII secolo d.C., per cui diventa il modello di ogni successiva medievale ferinità. L’unica somiglianza della Lupa con i leoni medievali sta nel dettaglio iconografico delle ciocche di peli sul dorso, ma nella Lupa esse sono abilmente intrecciate e alternate, mentre nei leoni sono banalmente discriminate e disposte a coppie; né va tralasciata la ripetizione incongrua dello stesso motivo lungo le zampe posteriori di quei felini. Nei leoni la caratteristica del crine, che presenta in natura questi intrecci speciali sopra il dorso, viene tradita. La stilizzazione tardo-arcaica si mette invece al servizio dell’ anatomia. La stilizzazione medievale viola ogni naturalismo, per rappresentare animali metafisici, blasonati da motivi antichi e fraintesi, di straordinariamente lunga durata.

Ciocche per ciocche, bastano alcuni confronti stilistici con bronzi e terrecotte etruschi e laziali - databili tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo a.C. e quindi di poco più tardi della Lupa - per consentirci di argomentare nuovamente con forza che la Lupa Capitolina è un’opera d’ arte etrusco-romana della prima metà del V secolo a.C.

Occorre presupporre un’intera tradizione artistica di naturalismo animalistico alle spalle della nostra Lupa, che per quanto relativamente isolata, dal nulla certo non può nascere (lacunare di Tarquinia, idrie ceratane, protomi in oro etrusche del Cabinet des Mèdailles di Parigi, protome della tomba dell’Orco II di Tarquinia, Lupo della tomba François di Vulci; per non parlare dei cani nella ceramografia e nella scultura greca). Un possibile archetipo greco, della seconda metà del VII secolo e attestato a Veio, si trova nel leone dell’Olpe Chigi, che ha dorso e criniera cosparso proprio di quelle ciocche di cui fin qui si è trattato. Al contrario il Medioevo non ha offerto - almeno fino ad ora - alcun confronto che soddisfi dal punto di vista stilistico. È dunque proprio grazie alle considerazioni della Carruba che mi sono convinto nuovamente che la Lupa è un’opera che a Roma ricordava la leggenda della fondazione, al tempo quanto mai oscuro che si concluse con le XII Tavole: una probabile committenza patrizia ad un artigiano che potrebbe anche essere di Veio, in quel tempo floridissima. Da un qualche tempo la lettura stilistica è stata dichiarata inefficace, demodée; ma di questo passo si rischia di assolutizzare ipotesi tecniche - comunque interessanti eppur non decisive - impigrendo l’occhio fino al punto da non riuscire più a distinguere le forme artistiche e da confonderle con meri dettagli iconografici. Resta il fatto che ogni singolo punto di vista - anche il mio - è parziale, probabilistico e pertanto soggetto ad errori. Siamo abbastanza maturi nel mestiere per non aver bisogno di certezze assolute, basate su una presunta oggettività tecnica, che potrebbe rivelarsi illusoria. È invece consigliabile illustrare le ragioni per le quali crediamo un’ipotesi non assolutamente vera ma relativamente più probabile di un’altra. Conserviamo insomma un briciolo di dubbio - questo è l’ invito che possiamo rivolgerci - ché la boria è sciocca.