la Lupa Capitolina
rassegna stampa
articoli sull’incontro di studi
La Lupa Capitolina: nuove prospettive di studio
28 Febbraio 2007, Università La Sapienza di Roma.
- Giuseppe della Fina (Repubblica)
- Fabio Isman (Il Messaggero)
- Adele Cambria (L’Unità)
- Andrea Carandini (Il Corriere della Sera)
Giuseppe Della Fina, da Repubblica
Nella giornata di ieri, per iniziativa del Dipartimento di Scienze Storiche e Archeologiche dell’Università La Sapienza, si è tenuto un interessante incontro-dibattito che ha avuto lo scopo di far discutere tra loro i sostenitori di tesi fortemente contrapposte. Sintetizzare un dibattito vivace, nel corso del quale sono state avanzate ipotesi diverse e forniti dati nuovi, non è semplice.
Numerosi archeologi intervenuti hanno sostenuto l’antichità della statua e segnalato la difficoltà di considerare dirimente il tipo di fusione in conseguenza della nostra conoscenza limitata delle tecniche di lavorazione antiche dovuta al numero di grandi bronzi giunti sino a noi. Hanno aggiunto poi considerazioni di tipo stilistico e storico che permetterebbero un inquadramento più coerente dell’opera in epoca antica anche se con alcune oscillazioni cronologiche significative: Giovanni Colonna ha prospettato una datazione nel primo quarto del V sec. a. C. e la fabbricazione in un’officina romana magari da parte di maestranze provenienti dalla Sardegna fenicio-punica; Gilda Bartoloni ha ipotizzato una realizzazione da parte di maestranze etrusche probabilmente veienti sempre nei decenni iniziali del V sec. a. C.; Andrea Carandini ha immaginato una datazione nella prima metà di quello stesso secolo. Francesco Roncalli ha insistito sul carattere di capolavoro del pezzo e sulla sua unicità; Maurizio Sannibale ha proposto di abbassarne la datazione e ha interpretato la statua come la ricostruzione a posteriori di un prototipo arcaico realizzato a partire dalla fine del IV sec. a. C. Sempre a favore dell’antichità della Lupa si sono schierati Eugenio la Rocca e Anna Mura Sommella che hanno richiamato le risultanze delle indagini archeometriche svolte in occasione del recente restauro dell’opera.
Adriano la Regina ha confermato invece la medievalità della statua. Una spaccatura si è registrata tra gli storici dell’arte medievale e gli studiosi di tecnologia antica. Tra questi ultimi Edilberto Formigli (Università di Siena) ha sostenuto in maniera convinta che la Lupa sia opera di maestranze medievali ed evidenziato l´assenza di un´attenta levigatura, mentre Claudio Giardino ha perorato la causa dell’etruscità partendo dall’esame della lega di bronzo dell’opera ed evidenziando l’alta percentuale di presenza del piombo non riscontrabile in età medievale. Sempre Giardino ha ricordato come l´analisi degli isotopi del piombo consenta di stabilire la provenienza del metallo dalle miniere sarde di Calabona, a sud di Alghero. Intorno alla Lupa Capitolina - c´è da scommetterci - si continuerà a discutere ed è un bene dato che la sua notorietà l’aveva quasi preservata da studi specifici e approfonditi.
Fabio Isman, da Il Mesaggero
A questo punto, la Lupa Capitolina è solo un mistero. Il Dipartimento d’Archeologia della Sapienza convoca una ventina di docenti ed esperti a dibattere se sia etrusca, o invece medievale, e il match (perché tale talora diventa, s’intende puramente scientifico) dà un esito non univoco: undici la vogliono antica, ma sei la dicono più recente. I “campioni” degli schieramenti sono forse Adriano La Regina (medievale) e Andrea Carandini (etrusca); ma altri offrono probabilmente le maggiori sorprese. Anna Maria Carruba, che la Lupa ha restaurata, dà fuoco alle polveri: una forbita serie di considerazioni sulla fusione e su certi dettagli, per lei la fanno post-datare. Però Claudio Parisi Presicce, dei Musei Capitolini, mostra che già in antico si facevano grandi fusioni a cera persa, fa scorrere esempi remoti di ciocche del pelame, di vasi sanguigni in vista e di posture dell’animale simbolo di Roma (tratte da monete imperiali), che fanno decisamente inclinare la bilancia a suo favore.
E se Mario D’Onofrio è l’unico a reputarla «carolingia», Anna Mura Sommella ne ha trovato dei prototipi nei dipinti di Tarquinia. Ma per Maurizio Sarmino, dei Musei Vaticani, “nasce” nel IV secolo avanti Cristo (dunque, non etrusca), come surroga d’un precedente esemplare distrutto. C’è poi chi non d’arte, bensì di esami di laboratorio si occupa. E gli ostacoli per continuare a ritenere la Lupa un esemplare classico ed antico, si moltiplicano. La terra di fusione proviene dalla Valle del Tevere, tra Roma ed Orvieto; ma il piombo, dalla miniera sarda di Calabona, vicino ad Alghero: piombo cui Roma accedeva in età classica, e certo non nel Medioevo.
Ma dall’Università di Milano-Bicocca arriva Marco Martini e racconta che la luminescenza data quel bronzo dal X al XV secolo; per Gilberto Calderoni, Scienza della Terra alla Sapienza, il radiocarbonio la colloca invece verso il 650 dopo Cristo; altri spiega che la struttura della lega è quella degli etruschi, e mostra perfino una fusione a cera persa, di una scultura che proviene da Susa, in Iran, alta un metro e 20 e oggi al Louvre, che risale a ben 14 secoli prima di Cristo; e Marina Righetti, pur essendo medievista, crede alla versione classica (ed antica): rigetta l’ipotesi che la Lupa sia del 1200.
Insomma, un bel guazzabuglio. Condito dalle solite velate polemiche tra chi si dedica ad esami di laboratorio e gli studiosi d’arte. Un pomeriggio intero a discuterne, nella certezza che (D’Onofrio) «non è semplice rimuovere consolidate convenzioni». E alla fine, un archeologo famoso e saggio come Antonio Giuliano, se ne va chiedendosi: «Ma perché non lasciano in pace questa Lupa benedetta? Tanto, ad una verità comprovata ed accettata da tutti non s’arriverà mai».
Adele Cambria, da L’Unità
È stato un autentico certame quello che si è scatenato ieri per oltre cinque ore nel gremitissimo Odeion (o Museo dei Gessi) dell’Università «La Sapienza», a proposito della origine - etrusca? etrusco/romana? medioevale? - della Lupa Capitolina. Adriano La Regina, introducendo il dibattito con una erudita ma veloce analisi dei caratteri stilistici della scultura, ha concluso: «Come abbiamo visto gli elementi formali non riescono a dare oggi una risposta univoca alle domande sulla datazione dell’opera: più produttivo appare dunque il passaggio alla discussione sulle tecniche di fusione della Lupa Capitolina, quali risultano dal restauro, supportato dalle nuove tecnologie di indagine sui monumenti antichi, e condotto da Anna Maria Carruba; a cui ora darei la parola, limitandomi a confermare che non esistono grandi sculture bronzee dell’antichità, tra quelle, e non sono poche, a noi pervenute, che presentino una fusione diretta, ad un sol getto, tecnicamente definita “a cera persa”. Come risulta essere quella della Lupa».
E, a questo punto, la responsabile della clamorosa operazione di spostamento in avanti (di un numero tuttavia imprecisato di secoli) della data di nascita di quello che è, per antonomasia, il simbolo di Roma, ha ripercorso sobriamente le scoperte già illustrate nel suo libro, «La Lupa Capitolina», sottotitolo «Un bronzo medioevale»: concludendo che «le abilità metallurgiche dell’Età Classica, declinarono con la fine dell’Impero romano, e risorsero nel Medioevo, quando l’esigenza di assicurare la limpidezza del suono delle campane, riscoprì la fusione a getto unico, c.d. “a cera persa” che, in antico, comunque, risultava utilizzato soltanto per bronzi di piccole o medie dimensioni». «Una coraggiosa e pericolosa ipotesi critica», la sua, a parere di Eugenio La Rocca: introducendolo, la Direttrice del Dipartimento di Scienze Storiche, Archeologiche e Antropologiche dell’Antichità, Gilda Bartoloni, l’aveva brillantemente definito «Il padrone della Lupa». E il Soprintendente archeologico capitolino ha avvertito: «Le opere d’arte più celebri sono - e forse sono destinate a rimanere - le più misteriose. In realtà, non ci si appassiona nemmeno alla loro origine. Ma il restauro della Lupa ci costringe a separare il nucleo della materia concreta, questa scultura bronzea, dal guscio delle interpretazioni. Tuttavia le indagini tecnologiche sono soltanto una componente della lettura di un’opera d’arte, e vanno considerate nel contesto in cui le si usa, e chiedersi a quali domande avrebbero dovuto rispondere. I bronzi che in questa ipotesi - che ha avuto un enorme clamore mediatico - sono stati messi a confronto con la Lupa, come il Grifo e il Leone di Perugia, o il Leone di Braunschweig, coprono un arco di tempo, tra il settimo e il quindicesimo secolo, troppo vasto, rispetto alla datazione tradizionale dell’opera (480-470 a.C). Era dunque indispensabile riportare la discussione alla sua sede naturale: questa. Un luogo in cui tutte le ipotesi possano discutersi pacatamente, avviandosi sulla strada di una conclusione possibile». Il che non è stato, e non poteva essere.
Interessantissimo l’intervento di Claudio Parise Presicce, il giovane Conservatore dei Musei Capitolini che ha seguito passo passo i restauri. Ha sottolineato come le indagini più avanzate effettuate sulla scultura, e ripetute in laboratori diversi, Milano, Berlino, Upsala, per verifica, abbiano dato anche risultati contradditori: per esempio, ad Upsala, la datazione della scultura potrebbe essere vicina a quella del cavallo di Marco Aurelio. Ha ipotizzato che nella fattura dei bronzi antichi le due tecniche - quella a cera persa e quella a parti saldate - convivessero. Ed ha concluso per il mantenimento della datazione tradizionale. Lella Cracco Ruggini, autorevole studiosa dell’iconografia della Lupa Capitolina, distingue i due filoni della rappresentazione della Lupa romana: quella materna col muso affettuosamente rivolto verso i gemelli e la lupa totem, feroce che punta le zampe e digrigna i denti, riprodotta in antiche monete d’oro e d’argento e in un mosaico di Ostia del III sec.a.C. Conclude, la studiosa, chiedendosi: «La Lupa Capitolina è un rifacimento medioevale? Personalmente non ci credo molto. In ogni caso, al tempo di papa Sisto IV, che la regalò al popolo romano in segno di conciliazione tra il popolo e la curia, si riteneva che si trattasse di una scultura antica». Pacato Andrea Carandini, nel ricordare che «il Medioevo non ci ha offerto, finora, nessuna scultura bronzea assimilabile alla Lupa».
Insomma, l’unico difensore ad oltranza della Lupa medioevale, risulta il professor Edilberto Formigli: con la paradossale motivazione che la Lupa capitolina è troppo rozza per essere un’opera dell’ antichità.
Andrea Carandini, da Il Corriere della Sera
Le leggi fisiche sono probabilistiche, e anche quelle desunte dalla tecnica, per cui si tratta di ipotesi, più o meno verosimili, non di verità assolute. La legge tecnica suddetta - per la quale la cera perduta a getto unico nei grandi bronzi sarebbe un’invenzione esclusivamente medievale - si basa su una statistica molto limitata, specialmente per l’età tardo-arcaica. D’altra parte si conoscono nella storia della tecnica scoperte, geniali o casuali, che non hanno avuto seguito, per cui soltanto secoli dopo sono state generalizzate (come la polvere da sparo in Cina). Constato inoltre che, a suo tempo (prima della medievalizzazione della Lupa), i restauratori della Chimera di Arezzo - bronzo indiscutibilmente antico - hanno interpretato la fusione di quel bronzo in modo opposto a quello che ora propone la Carruba, la quale peraltro onestamente scrive per essa di «ardua individuazione dell’originale procedimento di realizzazione». La conformazione raccolta di un quadrupede, con le zampe al medesimo livello, sembra prestarsi assai meglio alla fusione unica di una figura umana, più lunga e articolata, per cui nei casi di questi animali la fusione a getto unico parrebbe accettabile. Non è forse un caso che le possibili eccezioni alla legge tecnica della Carruba riguardino due quadrupedi. Non sarei tanto sicuro, come la Carruba, che la lupa non possa corrispondere ad alcuna notizia delle fonti letterarie. Potrebbe trattarsi della Lupa che in antico era sul Campidoglio, se solo i gemelli sottostanti fossero stati rivestiti d’oro; infatti sulla Lupa mancano tracce auree (si veda A.C., a cura di, La leggenda di Roma, Mondadori 2006) . Come che sia, ogni argomento tratto dal silenzio un argomento non è. Conosciamo inoltre un’altra lupa antica stante e con testa non rivolta all’indietro, come quella del denario di Satrienus del 77 a.C., che con mammelle rigonfie e crine rilevato tra collo e schiena presuppone, seppure alla lontana, la Lupa Capitolina. Dissento con l’interpretazione storico-artistica che la Carruba ci dà della lupa. Scrive di «forma lineare, legata, rigida, emblematica e astratta» e di «motivi svuotati di ogni intento naturalistico». Invece la Lupa è una creazione straordinariamente naturalistica, che imita la natura di una lupa «vera» ed anche le stilizzazioni del pelo sono, come vedremo, al servizio dell’anatomia. Questa tesi è bene argomentata in uno studio recente di Nadia Canu. Immaginare un’opera realisticamente e stilisticamente tanto straordinaria nella Roma dell’ VIII secolo d.C. è impresa che rasenta l’impossibile. Nella «nuova Roma» e nel «nuovo Laterano» di Aquisgrana venne esposta - per volere di Carlo Magno, che la nostra Lupa aveva visto in Roma - un’orsa bronzea romana di ottima fattura, presa per una lupa, il che è quanto mai significativo sulla sensibilità artistica medievale che con i simboli vinceva ogni realtà. È finito il tempo della naturalis historia dell’età classica, basata sulla classificazione proto-scientifica di vegetali e animali, e comincia quello degli animali fraintesi e fantasiosi, privi di ogni intento naturalistico. Si pensi alla faina coccodrillesca più che lupesca del dittico di Ratisbona del 900 d.C. circa, al mostruoso leone di Hildesheim del 1015 che ha il volto di un pipistrello, al maestoso ma goffo leone di Braunschweig del 1166, che sembra di pezza e ricorda il felino del Mago d’Oz, fino ai più tardi leoni stilòfori, come quello del Duomo di Parma, che anelano tristemente a una liberazione impossibile dalla pietra appena squadrata. Certo, la Lupa Capitolina - tra i rarissimi grandi bronzi sempre esposti e superstiti, con il Marco Aurelio - raggiunge la sua massima fortuna proprio dall’VIII secolo d.C., per cui diventa il modello di ogni successiva medievale ferinità. L’unica somiglianza della Lupa con i leoni medievali sta nel dettaglio iconografico delle ciocche di peli sul dorso, ma nella Lupa esse sono abilmente intrecciate e alternate, mentre nei leoni sono banalmente discriminate e disposte a coppie; né va tralasciata la ripetizione incongrua dello stesso motivo lungo le zampe posteriori di quei felini. Nei leoni la caratteristica del crine, che presenta in natura questi intrecci speciali sopra il dorso, viene tradita. La stilizzazione tardo-arcaica si mette invece al servizio dell’ anatomia. La stilizzazione medievale viola ogni naturalismo, per rappresentare animali metafisici, blasonati da motivi antichi e fraintesi, di straordinariamente lunga durata.
Ciocche per ciocche, bastano alcuni confronti stilistici con bronzi e terrecotte etruschi e laziali - databili tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo a.C. e quindi di poco più tardi della Lupa - per consentirci di argomentare nuovamente con forza che la Lupa Capitolina è un’opera d’ arte etrusco-romana della prima metà del V secolo a.C.
Occorre presupporre un’intera tradizione artistica di naturalismo animalistico alle spalle della nostra Lupa, che per quanto relativamente isolata, dal nulla certo non può nascere (lacunare di Tarquinia, idrie ceratane, protomi in oro etrusche del Cabinet des Mèdailles di Parigi, protome della tomba dell’Orco II di Tarquinia, Lupo della tomba François di Vulci; per non parlare dei cani nella ceramografia e nella scultura greca). Un possibile archetipo greco, della seconda metà del VII secolo e attestato a Veio, si trova nel leone dell’Olpe Chigi, che ha dorso e criniera cosparso proprio di quelle ciocche di cui fin qui si è trattato. Al contrario il Medioevo non ha offerto - almeno fino ad ora - alcun confronto che soddisfi dal punto di vista stilistico. È dunque proprio grazie alle considerazioni della Carruba che mi sono convinto nuovamente che la Lupa è un’opera che a Roma ricordava la leggenda della fondazione, al tempo quanto mai oscuro che si concluse con le XII Tavole: una probabile committenza patrizia ad un artigiano che potrebbe anche essere di Veio, in quel tempo floridissima. Da un qualche tempo la lettura stilistica è stata dichiarata inefficace, demodée; ma di questo passo si rischia di assolutizzare ipotesi tecniche - comunque interessanti eppur non decisive - impigrendo l’occhio fino al punto da non riuscire più a distinguere le forme artistiche e da confonderle con meri dettagli iconografici. Resta il fatto che ogni singolo punto di vista - anche il mio - è parziale, probabilistico e pertanto soggetto ad errori. Siamo abbastanza maturi nel mestiere per non aver bisogno di certezze assolute, basate su una presunta oggettività tecnica, che potrebbe rivelarsi illusoria. È invece consigliabile illustrare le ragioni per le quali crediamo un’ipotesi non assolutamente vera ma relativamente più probabile di un’altra. Conserviamo insomma un briciolo di dubbio - questo è l’ invito che possiamo rivolgerci - ché la boria è sciocca.
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articoli sull’incontro di studi
La Lupa Capitolina: nuove prospettive di studio
28 Febbraio 2007, Università La Sapienza di Roma.
- Giuseppe della Fina (Repubblica)
- Fabio Isman (Il Messaggero)
- Adele Cambria (L’Unità)
- Andrea Carandini (Il Corriere della Sera)
Giuseppe Della Fina, da Repubblica
Nella giornata di ieri, per iniziativa del Dipartimento di Scienze Storiche e Archeologiche dell’Università La Sapienza, si è tenuto un interessante incontro-dibattito che ha avuto lo scopo di far discutere tra loro i sostenitori di tesi fortemente contrapposte. Sintetizzare un dibattito vivace, nel corso del quale sono state avanzate ipotesi diverse e forniti dati nuovi, non è semplice.
Numerosi archeologi intervenuti hanno sostenuto l’antichità della statua e segnalato la difficoltà di considerare dirimente il tipo di fusione in conseguenza della nostra conoscenza limitata delle tecniche di lavorazione antiche dovuta al numero di grandi bronzi giunti sino a noi. Hanno aggiunto poi considerazioni di tipo stilistico e storico che permetterebbero un inquadramento più coerente dell’opera in epoca antica anche se con alcune oscillazioni cronologiche significative: Giovanni Colonna ha prospettato una datazione nel primo quarto del V sec. a. C. e la fabbricazione in un’officina romana magari da parte di maestranze provenienti dalla Sardegna fenicio-punica; Gilda Bartoloni ha ipotizzato una realizzazione da parte di maestranze etrusche probabilmente veienti sempre nei decenni iniziali del V sec. a. C.; Andrea Carandini ha immaginato una datazione nella prima metà di quello stesso secolo. Francesco Roncalli ha insistito sul carattere di capolavoro del pezzo e sulla sua unicità; Maurizio Sannibale ha proposto di abbassarne la datazione e ha interpretato la statua come la ricostruzione a posteriori di un prototipo arcaico realizzato a partire dalla fine del IV sec. a. C. Sempre a favore dell’antichità della Lupa si sono schierati Eugenio la Rocca e Anna Mura Sommella che hanno richiamato le risultanze delle indagini archeometriche svolte in occasione del recente restauro dell’opera.
Adriano la Regina ha confermato invece la medievalità della statua. Una spaccatura si è registrata tra gli storici dell’arte medievale e gli studiosi di tecnologia antica. Tra questi ultimi Edilberto Formigli (Università di Siena) ha sostenuto in maniera convinta che la Lupa sia opera di maestranze medievali ed evidenziato l´assenza di un´attenta levigatura, mentre Claudio Giardino ha perorato la causa dell’etruscità partendo dall’esame della lega di bronzo dell’opera ed evidenziando l’alta percentuale di presenza del piombo non riscontrabile in età medievale. Sempre Giardino ha ricordato come l´analisi degli isotopi del piombo consenta di stabilire la provenienza del metallo dalle miniere sarde di Calabona, a sud di Alghero. Intorno alla Lupa Capitolina - c´è da scommetterci - si continuerà a discutere ed è un bene dato che la sua notorietà l’aveva quasi preservata da studi specifici e approfonditi.
Fabio Isman, da Il Mesaggero
A questo punto, la Lupa Capitolina è solo un mistero. Il Dipartimento d’Archeologia della Sapienza convoca una ventina di docenti ed esperti a dibattere se sia etrusca, o invece medievale, e il match (perché tale talora diventa, s’intende puramente scientifico) dà un esito non univoco: undici la vogliono antica, ma sei la dicono più recente. I “campioni” degli schieramenti sono forse Adriano La Regina (medievale) e Andrea Carandini (etrusca); ma altri offrono probabilmente le maggiori sorprese. Anna Maria Carruba, che la Lupa ha restaurata, dà fuoco alle polveri: una forbita serie di considerazioni sulla fusione e su certi dettagli, per lei la fanno post-datare. Però Claudio Parisi Presicce, dei Musei Capitolini, mostra che già in antico si facevano grandi fusioni a cera persa, fa scorrere esempi remoti di ciocche del pelame, di vasi sanguigni in vista e di posture dell’animale simbolo di Roma (tratte da monete imperiali), che fanno decisamente inclinare la bilancia a suo favore.
E se Mario D’Onofrio è l’unico a reputarla «carolingia», Anna Mura Sommella ne ha trovato dei prototipi nei dipinti di Tarquinia. Ma per Maurizio Sarmino, dei Musei Vaticani, “nasce” nel IV secolo avanti Cristo (dunque, non etrusca), come surroga d’un precedente esemplare distrutto. C’è poi chi non d’arte, bensì di esami di laboratorio si occupa. E gli ostacoli per continuare a ritenere la Lupa un esemplare classico ed antico, si moltiplicano. La terra di fusione proviene dalla Valle del Tevere, tra Roma ed Orvieto; ma il piombo, dalla miniera sarda di Calabona, vicino ad Alghero: piombo cui Roma accedeva in età classica, e certo non nel Medioevo.
Ma dall’Università di Milano-Bicocca arriva Marco Martini e racconta che la luminescenza data quel bronzo dal X al XV secolo; per Gilberto Calderoni, Scienza della Terra alla Sapienza, il radiocarbonio la colloca invece verso il 650 dopo Cristo; altri spiega che la struttura della lega è quella degli etruschi, e mostra perfino una fusione a cera persa, di una scultura che proviene da Susa, in Iran, alta un metro e 20 e oggi al Louvre, che risale a ben 14 secoli prima di Cristo; e Marina Righetti, pur essendo medievista, crede alla versione classica (ed antica): rigetta l’ipotesi che la Lupa sia del 1200.
Insomma, un bel guazzabuglio. Condito dalle solite velate polemiche tra chi si dedica ad esami di laboratorio e gli studiosi d’arte. Un pomeriggio intero a discuterne, nella certezza che (D’Onofrio) «non è semplice rimuovere consolidate convenzioni». E alla fine, un archeologo famoso e saggio come Antonio Giuliano, se ne va chiedendosi: «Ma perché non lasciano in pace questa Lupa benedetta? Tanto, ad una verità comprovata ed accettata da tutti non s’arriverà mai».
Adele Cambria, da L’Unità
È stato un autentico certame quello che si è scatenato ieri per oltre cinque ore nel gremitissimo Odeion (o Museo dei Gessi) dell’Università «La Sapienza», a proposito della origine - etrusca? etrusco/romana? medioevale? - della Lupa Capitolina. Adriano La Regina, introducendo il dibattito con una erudita ma veloce analisi dei caratteri stilistici della scultura, ha concluso: «Come abbiamo visto gli elementi formali non riescono a dare oggi una risposta univoca alle domande sulla datazione dell’opera: più produttivo appare dunque il passaggio alla discussione sulle tecniche di fusione della Lupa Capitolina, quali risultano dal restauro, supportato dalle nuove tecnologie di indagine sui monumenti antichi, e condotto da Anna Maria Carruba; a cui ora darei la parola, limitandomi a confermare che non esistono grandi sculture bronzee dell’antichità, tra quelle, e non sono poche, a noi pervenute, che presentino una fusione diretta, ad un sol getto, tecnicamente definita “a cera persa”. Come risulta essere quella della Lupa».
E, a questo punto, la responsabile della clamorosa operazione di spostamento in avanti (di un numero tuttavia imprecisato di secoli) della data di nascita di quello che è, per antonomasia, il simbolo di Roma, ha ripercorso sobriamente le scoperte già illustrate nel suo libro, «La Lupa Capitolina», sottotitolo «Un bronzo medioevale»: concludendo che «le abilità metallurgiche dell’Età Classica, declinarono con la fine dell’Impero romano, e risorsero nel Medioevo, quando l’esigenza di assicurare la limpidezza del suono delle campane, riscoprì la fusione a getto unico, c.d. “a cera persa” che, in antico, comunque, risultava utilizzato soltanto per bronzi di piccole o medie dimensioni». «Una coraggiosa e pericolosa ipotesi critica», la sua, a parere di Eugenio La Rocca: introducendolo, la Direttrice del Dipartimento di Scienze Storiche, Archeologiche e Antropologiche dell’Antichità, Gilda Bartoloni, l’aveva brillantemente definito «Il padrone della Lupa». E il Soprintendente archeologico capitolino ha avvertito: «Le opere d’arte più celebri sono - e forse sono destinate a rimanere - le più misteriose. In realtà, non ci si appassiona nemmeno alla loro origine. Ma il restauro della Lupa ci costringe a separare il nucleo della materia concreta, questa scultura bronzea, dal guscio delle interpretazioni. Tuttavia le indagini tecnologiche sono soltanto una componente della lettura di un’opera d’arte, e vanno considerate nel contesto in cui le si usa, e chiedersi a quali domande avrebbero dovuto rispondere. I bronzi che in questa ipotesi - che ha avuto un enorme clamore mediatico - sono stati messi a confronto con la Lupa, come il Grifo e il Leone di Perugia, o il Leone di Braunschweig, coprono un arco di tempo, tra il settimo e il quindicesimo secolo, troppo vasto, rispetto alla datazione tradizionale dell’opera (480-470 a.C). Era dunque indispensabile riportare la discussione alla sua sede naturale: questa. Un luogo in cui tutte le ipotesi possano discutersi pacatamente, avviandosi sulla strada di una conclusione possibile». Il che non è stato, e non poteva essere.
Interessantissimo l’intervento di Claudio Parise Presicce, il giovane Conservatore dei Musei Capitolini che ha seguito passo passo i restauri. Ha sottolineato come le indagini più avanzate effettuate sulla scultura, e ripetute in laboratori diversi, Milano, Berlino, Upsala, per verifica, abbiano dato anche risultati contradditori: per esempio, ad Upsala, la datazione della scultura potrebbe essere vicina a quella del cavallo di Marco Aurelio. Ha ipotizzato che nella fattura dei bronzi antichi le due tecniche - quella a cera persa e quella a parti saldate - convivessero. Ed ha concluso per il mantenimento della datazione tradizionale. Lella Cracco Ruggini, autorevole studiosa dell’iconografia della Lupa Capitolina, distingue i due filoni della rappresentazione della Lupa romana: quella materna col muso affettuosamente rivolto verso i gemelli e la lupa totem, feroce che punta le zampe e digrigna i denti, riprodotta in antiche monete d’oro e d’argento e in un mosaico di Ostia del III sec.a.C. Conclude, la studiosa, chiedendosi: «La Lupa Capitolina è un rifacimento medioevale? Personalmente non ci credo molto. In ogni caso, al tempo di papa Sisto IV, che la regalò al popolo romano in segno di conciliazione tra il popolo e la curia, si riteneva che si trattasse di una scultura antica». Pacato Andrea Carandini, nel ricordare che «il Medioevo non ci ha offerto, finora, nessuna scultura bronzea assimilabile alla Lupa».
Insomma, l’unico difensore ad oltranza della Lupa medioevale, risulta il professor Edilberto Formigli: con la paradossale motivazione che la Lupa capitolina è troppo rozza per essere un’opera dell’ antichità.
Andrea Carandini, da Il Corriere della Sera
Le leggi fisiche sono probabilistiche, e anche quelle desunte dalla tecnica, per cui si tratta di ipotesi, più o meno verosimili, non di verità assolute. La legge tecnica suddetta - per la quale la cera perduta a getto unico nei grandi bronzi sarebbe un’invenzione esclusivamente medievale - si basa su una statistica molto limitata, specialmente per l’età tardo-arcaica. D’altra parte si conoscono nella storia della tecnica scoperte, geniali o casuali, che non hanno avuto seguito, per cui soltanto secoli dopo sono state generalizzate (come la polvere da sparo in Cina). Constato inoltre che, a suo tempo (prima della medievalizzazione della Lupa), i restauratori della Chimera di Arezzo - bronzo indiscutibilmente antico - hanno interpretato la fusione di quel bronzo in modo opposto a quello che ora propone la Carruba, la quale peraltro onestamente scrive per essa di «ardua individuazione dell’originale procedimento di realizzazione». La conformazione raccolta di un quadrupede, con le zampe al medesimo livello, sembra prestarsi assai meglio alla fusione unica di una figura umana, più lunga e articolata, per cui nei casi di questi animali la fusione a getto unico parrebbe accettabile. Non è forse un caso che le possibili eccezioni alla legge tecnica della Carruba riguardino due quadrupedi. Non sarei tanto sicuro, come la Carruba, che la lupa non possa corrispondere ad alcuna notizia delle fonti letterarie. Potrebbe trattarsi della Lupa che in antico era sul Campidoglio, se solo i gemelli sottostanti fossero stati rivestiti d’oro; infatti sulla Lupa mancano tracce auree (si veda A.C., a cura di, La leggenda di Roma, Mondadori 2006) . Come che sia, ogni argomento tratto dal silenzio un argomento non è. Conosciamo inoltre un’altra lupa antica stante e con testa non rivolta all’indietro, come quella del denario di Satrienus del 77 a.C., che con mammelle rigonfie e crine rilevato tra collo e schiena presuppone, seppure alla lontana, la Lupa Capitolina. Dissento con l’interpretazione storico-artistica che la Carruba ci dà della lupa. Scrive di «forma lineare, legata, rigida, emblematica e astratta» e di «motivi svuotati di ogni intento naturalistico». Invece la Lupa è una creazione straordinariamente naturalistica, che imita la natura di una lupa «vera» ed anche le stilizzazioni del pelo sono, come vedremo, al servizio dell’anatomia. Questa tesi è bene argomentata in uno studio recente di Nadia Canu. Immaginare un’opera realisticamente e stilisticamente tanto straordinaria nella Roma dell’ VIII secolo d.C. è impresa che rasenta l’impossibile. Nella «nuova Roma» e nel «nuovo Laterano» di Aquisgrana venne esposta - per volere di Carlo Magno, che la nostra Lupa aveva visto in Roma - un’orsa bronzea romana di ottima fattura, presa per una lupa, il che è quanto mai significativo sulla sensibilità artistica medievale che con i simboli vinceva ogni realtà. È finito il tempo della naturalis historia dell’età classica, basata sulla classificazione proto-scientifica di vegetali e animali, e comincia quello degli animali fraintesi e fantasiosi, privi di ogni intento naturalistico. Si pensi alla faina coccodrillesca più che lupesca del dittico di Ratisbona del 900 d.C. circa, al mostruoso leone di Hildesheim del 1015 che ha il volto di un pipistrello, al maestoso ma goffo leone di Braunschweig del 1166, che sembra di pezza e ricorda il felino del Mago d’Oz, fino ai più tardi leoni stilòfori, come quello del Duomo di Parma, che anelano tristemente a una liberazione impossibile dalla pietra appena squadrata. Certo, la Lupa Capitolina - tra i rarissimi grandi bronzi sempre esposti e superstiti, con il Marco Aurelio - raggiunge la sua massima fortuna proprio dall’VIII secolo d.C., per cui diventa il modello di ogni successiva medievale ferinità. L’unica somiglianza della Lupa con i leoni medievali sta nel dettaglio iconografico delle ciocche di peli sul dorso, ma nella Lupa esse sono abilmente intrecciate e alternate, mentre nei leoni sono banalmente discriminate e disposte a coppie; né va tralasciata la ripetizione incongrua dello stesso motivo lungo le zampe posteriori di quei felini. Nei leoni la caratteristica del crine, che presenta in natura questi intrecci speciali sopra il dorso, viene tradita. La stilizzazione tardo-arcaica si mette invece al servizio dell’ anatomia. La stilizzazione medievale viola ogni naturalismo, per rappresentare animali metafisici, blasonati da motivi antichi e fraintesi, di straordinariamente lunga durata.
Ciocche per ciocche, bastano alcuni confronti stilistici con bronzi e terrecotte etruschi e laziali - databili tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo a.C. e quindi di poco più tardi della Lupa - per consentirci di argomentare nuovamente con forza che la Lupa Capitolina è un’opera d’ arte etrusco-romana della prima metà del V secolo a.C.
Occorre presupporre un’intera tradizione artistica di naturalismo animalistico alle spalle della nostra Lupa, che per quanto relativamente isolata, dal nulla certo non può nascere (lacunare di Tarquinia, idrie ceratane, protomi in oro etrusche del Cabinet des Mèdailles di Parigi, protome della tomba dell’Orco II di Tarquinia, Lupo della tomba François di Vulci; per non parlare dei cani nella ceramografia e nella scultura greca). Un possibile archetipo greco, della seconda metà del VII secolo e attestato a Veio, si trova nel leone dell’Olpe Chigi, che ha dorso e criniera cosparso proprio di quelle ciocche di cui fin qui si è trattato. Al contrario il Medioevo non ha offerto - almeno fino ad ora - alcun confronto che soddisfi dal punto di vista stilistico. È dunque proprio grazie alle considerazioni della Carruba che mi sono convinto nuovamente che la Lupa è un’opera che a Roma ricordava la leggenda della fondazione, al tempo quanto mai oscuro che si concluse con le XII Tavole: una probabile committenza patrizia ad un artigiano che potrebbe anche essere di Veio, in quel tempo floridissima. Da un qualche tempo la lettura stilistica è stata dichiarata inefficace, demodée; ma di questo passo si rischia di assolutizzare ipotesi tecniche - comunque interessanti eppur non decisive - impigrendo l’occhio fino al punto da non riuscire più a distinguere le forme artistiche e da confonderle con meri dettagli iconografici. Resta il fatto che ogni singolo punto di vista - anche il mio - è parziale, probabilistico e pertanto soggetto ad errori. Siamo abbastanza maturi nel mestiere per non aver bisogno di certezze assolute, basate su una presunta oggettività tecnica, che potrebbe rivelarsi illusoria. È invece consigliabile illustrare le ragioni per le quali crediamo un’ipotesi non assolutamente vera ma relativamente più probabile di un’altra. Conserviamo insomma un briciolo di dubbio - questo è l’ invito che possiamo rivolgerci - ché la boria è sciocca.