sabato 10 marzo 2018

Antica caserma romana sotto la metro c

Il Fatto 3.3.18
Un’antica caserma romana sotto la Metro C
Lavori infiniti - Trovata la residenza del comandante risalente al Secondo secolo dopo Cristo
di Lorenzo Giarelli

Due edifici di epoca Romana, che comprendono un’area di servizio e 14 ambienti disposti attorno a un cortile con fontana e vasche. Risalgono al Secondo secolo dopo Cristo e sono venuti alla luce nei mesi scorsi durante gli scavi per la stazione di via Amba Aradam della Metro C, a Roma.
Ieri la Soprintendenza speciale di Roma Archeologia, Belle arti Paesaggio ha svelato le nuove scoperte alla stampa, in attesa che i ritrovamenti vengano messi in sicurezza e riproposti al pubblico quando saranno ultimati i lavori per la metropolitana. “Si tratta di edifici risalenti all’Età Adrianea – commenta Rossella Rea, funzionario archeologico del ministero dei Beni culturali – adiacenti al dormitorio della caserma romana emersa nella primavera del 2016. È una scoperta eccezionale, a Roma non è mai stata trovata una domus collegata alla caserma”.
Gli scavi, avvenuti a dodici metri di profondità, hanno riportato alla luce l’antica residenza del comandante della caserma, con pavimenti “di buona fattura in opus sectile (una tecnica che utilizza il taglio dei marmi, ndr) a quadrati di marmo bianco e ardesia grigia, a mosaico o in cocciopesto”, come racconta Simona Morretta, direttore scientifico dello scavo.
Al centro di uno dei pavimenti si trova il mosaico più suggestivo, in cui un satiro e un amorino lottano (o forse danzano) sotto a un tralcio d’uva. Appena più in là, un ambiente riscaldato – probabilmente termale – e un ampio cortile con una fontana al centro.
Non è la prima volta che gli scavi della metropolitana di Roma consentono scoperte del genere: “La Metro C – ricorda Francesco Prosperetti, direttore della Soprintendenza – fin dalla sua prima stazione a Pantano, nei pressi dell’antica città di Gabii, si è dimostrata uno strabiliante cantiere archeologico”. Due anni fa emersero i dormitori dei militari, ma negli anni scorsi gli scavi avevano permesso il ritrovamento, tra gli altri, di un grande bacino idrico a San Giovanni e dell’antico Auditorium di Adriano vicino a Piazza Venezia.
Accanto all’importanza archeologica delle scoperte c’è però la questione dei lavori per la Metro C, attiva in 21 stazioni ma ancora in attesa di completamento nell’ultimo tratto, dopo continui rinvii. L’ultimo è arrivato poche settimane fa, quando il Comune, la società Roma Metropolitane e il consorzio Metro C hanno dovuto rimandare l’inaugurazione della stazione di San Giovanni – punto di snodo con la linea della Metro A – inizialmente prevista per marzo.
Adesso, mentre la Procura contabile della Corte dei Conti chiede 221 milioni di euro di risarcimento a 25 ex dirigenti per l’aumento dei costi di costruzione della Metro C, la fine dei lavori tra San Giovanni e Fori Imperiali è prevista per il 2022. La data di consegna, promette Prosperetti, non verrà condizionata dai nuovi ritrovamenti: “Ne abbiamo parlato anche con Raffaele Cantone (presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, ndr) e abbiamo convenuto che il progetto può essere portato avanti senza significativi ritardi nella realizzazione dell’opera pubblica”.
Ancora pochi giorni e i ritrovamenti saranno infatti rimossi dal cantiere: “Tra un paio di settimane li metteremo in sicurezza dentro a container per conservarli al meglio, proprio come avvenuto per le caserme ritrovate due anni fa”. L’obiettivo è quello di restituire al pubblico tutte le scoperte: “Vogliamo che Amba Aradam ospiti questi ritrovamenti – assicura Prosperetti – che verranno riportati qui a gallerie completate. Sarà la stazione più bella del mondo”.

Gli ultimi romani


Corriere 9.3.18
Gli ultimi romani
La fedeltà alla «res publica» in quell’impero nato ai confini
Aquileia rende omaggio alla Serbia, terra dove si intrapresero campagne cruciali e dove si giocarono i destini di grandi imperatori
Il crepuscolo di un mondo che volle appartenere alla potenza «caput mundi». Con orgoglio vivo
di Giovanni Brizzi
ordinario di Storia romana presso l’Università di Bologna

La merita, la Serbia, una mostra come quella («Tesori e imperatori. Lo splendore della Serbia romana») che si apre a Palazzo Meizlik, in Aquileia. La merita perché, al di là della bellezza e dell’importanza dei pezzi esposti, ben sessantadue, provenienti dai Musei del paese, ci parla del rilievo strategico di una terra il cui spazio si divise in antico fra tre diverse province di Roma, due delle quali, Pannonia Inferior e Moesia Superior, veri cardini difensivi del limes imperiale; e di un grande fiume, il Danubio, che era allora, ad un tempo, tramite e frontiera. Ma la merita, soprattutto, in nome degli uomini che, in quel tempo, la nobilitarono con il loro valore. Soprattutto a loro, e soprattutto agli esponenti del momento che portò all’effimero miracolo della Tetrarchia - a Claudio II, Aureliano, Diocleziano; ai minori…— vorrei rendere qui un breve omaggio.
Irrimediabilmente scavalcata dal principato nonostante ogni sforzo, la grande aristocrazia repubblicana continuò testardamente a tener vivo, per i primi tre secoli dell’impero, blasone e idea generatrice. In nome di entrambi, continuò a cullare le proprie ambizioni di potere, pur contentandosi sempre più di identificarsi col principio che voleva, se non un impossibile ritorno alla forma repubblicana di governo, almeno l’ optimus sul trono.
Con questa idealità furono costretti a confrontarsi per secoli gli imperatori; e non solo loro. Anche la stessa, chiusa nobilitas degli ottimati dovette fare i conti, infine, con la sempre più accentuata, cosciente ed orgogliosa concorrenza del ceto equestre; che, da ultimo, ne raccolse l’eredità, etica prima ancora che di potere. Trasformati già ad opera di Augusto da mercanti, finanzieri, imprenditori in servitori dello Stato (e cioè in ceto di servizio), dalla graduale consapevolezza del nuovo ruolo loro affidato, i cavalieri maturarono infatti via via una vocazione politica prima sconosciuta, divenendo i più gelosi e fedeli custodi dell’antica concezione serviana del munus , del dovere da rendersi alla res publica , alla «cosa di tutti», anche con la vita; e in particolare si fecero carico dell’essenziale funzione bellica. La progressiva rinuncia dell’ antiqua nobilitas , di una nobiltà di sangue sempre più «impigrita e dimentica delle guerre», come dice Tacito, finì per lasciar loro quasi l’esclusiva della difesa dell’impero, portando all’emergere di una categoria di uomini che, in nome di una sorta di «specializzazione funzionale», si sogliono definire viri militares : uomini che, usciti sovente dai ranghi dell’esercito, giunsero grazie al loro valore fino alle tres militiae , ai comandi minori dell’ordine equestre, e furono poi issati per cooptazione ai vertici della struttura militare, il comando delle legioni e il governo delle grandi province armate imperiali, come, appunto, Pannonia e Mesia.
Emersa del tutto con Marco Aurelio, questa componente prese a custodire, ormai sempre più sola, l’idea che alla base del potere imperiale dovesse esserci la virtus, in particolare la capacità bellica di chi prendeva l’impero sulle proprie spalle; sicché ritenendosi depositaria del compito di difenderlo, fu spinta, da ultimo, a rivendicare il diritto di governarlo, portando alla porpora molti uomini emersi dalle sue file.
Quella che è stata definita «anarchia militare» del III secolo, ma che si può forse meglio chiamare «seconda rivoluzione romana», ebbe come fine la ricerca, spesso incongrua e violenta ma in fondo sincera, dell’ optimus da mettere sul trono; e non solo in nome delle esigenze di lotta a barbari sempre più minacciosi, ma come ossequio sentito a un astratto e forse frainteso, eppure tuttora necessario, principio morale.
Per questi uomini la moderna storiografia ha accolto il termine di Illyriciani, dalla terra che almeno militarmente li generò, e ha coniato quello di «Soldatenkaiser», di imperatori-soldati, a definire i sovrani guerrieri che si succedettero tra la fine di Severo Alessandro e il regno di Diocleziano. Che non nacquero tutti in Serbia, naturalmente; ma che nel servizio in Illirico (anche se forse soprattutto in Serbia: va segnalata la presenza qui del grande centro nevralgico di Sirmium, Sremska Mitrovica) ebbero la loro genesi etica.
Se, nel corso dei secoli, l’esser Romano significò soprattutto riconoscersi nell’impegno di responsabilità verso una res publica questi uomini furono forse gli ultimi veri Romani, esponenti di un mondo in cui pienamente si riconoscevano e che tenacemente difesero, ben meritandosi l’appellativo di restitutores .