sabato 10 marzo 2018

Gli ultimi romani


Corriere 9.3.18
Gli ultimi romani
La fedeltà alla «res publica» in quell’impero nato ai confini
Aquileia rende omaggio alla Serbia, terra dove si intrapresero campagne cruciali e dove si giocarono i destini di grandi imperatori
Il crepuscolo di un mondo che volle appartenere alla potenza «caput mundi». Con orgoglio vivo
di Giovanni Brizzi
ordinario di Storia romana presso l’Università di Bologna

La merita, la Serbia, una mostra come quella («Tesori e imperatori. Lo splendore della Serbia romana») che si apre a Palazzo Meizlik, in Aquileia. La merita perché, al di là della bellezza e dell’importanza dei pezzi esposti, ben sessantadue, provenienti dai Musei del paese, ci parla del rilievo strategico di una terra il cui spazio si divise in antico fra tre diverse province di Roma, due delle quali, Pannonia Inferior e Moesia Superior, veri cardini difensivi del limes imperiale; e di un grande fiume, il Danubio, che era allora, ad un tempo, tramite e frontiera. Ma la merita, soprattutto, in nome degli uomini che, in quel tempo, la nobilitarono con il loro valore. Soprattutto a loro, e soprattutto agli esponenti del momento che portò all’effimero miracolo della Tetrarchia - a Claudio II, Aureliano, Diocleziano; ai minori…— vorrei rendere qui un breve omaggio.
Irrimediabilmente scavalcata dal principato nonostante ogni sforzo, la grande aristocrazia repubblicana continuò testardamente a tener vivo, per i primi tre secoli dell’impero, blasone e idea generatrice. In nome di entrambi, continuò a cullare le proprie ambizioni di potere, pur contentandosi sempre più di identificarsi col principio che voleva, se non un impossibile ritorno alla forma repubblicana di governo, almeno l’ optimus sul trono.
Con questa idealità furono costretti a confrontarsi per secoli gli imperatori; e non solo loro. Anche la stessa, chiusa nobilitas degli ottimati dovette fare i conti, infine, con la sempre più accentuata, cosciente ed orgogliosa concorrenza del ceto equestre; che, da ultimo, ne raccolse l’eredità, etica prima ancora che di potere. Trasformati già ad opera di Augusto da mercanti, finanzieri, imprenditori in servitori dello Stato (e cioè in ceto di servizio), dalla graduale consapevolezza del nuovo ruolo loro affidato, i cavalieri maturarono infatti via via una vocazione politica prima sconosciuta, divenendo i più gelosi e fedeli custodi dell’antica concezione serviana del munus , del dovere da rendersi alla res publica , alla «cosa di tutti», anche con la vita; e in particolare si fecero carico dell’essenziale funzione bellica. La progressiva rinuncia dell’ antiqua nobilitas , di una nobiltà di sangue sempre più «impigrita e dimentica delle guerre», come dice Tacito, finì per lasciar loro quasi l’esclusiva della difesa dell’impero, portando all’emergere di una categoria di uomini che, in nome di una sorta di «specializzazione funzionale», si sogliono definire viri militares : uomini che, usciti sovente dai ranghi dell’esercito, giunsero grazie al loro valore fino alle tres militiae , ai comandi minori dell’ordine equestre, e furono poi issati per cooptazione ai vertici della struttura militare, il comando delle legioni e il governo delle grandi province armate imperiali, come, appunto, Pannonia e Mesia.
Emersa del tutto con Marco Aurelio, questa componente prese a custodire, ormai sempre più sola, l’idea che alla base del potere imperiale dovesse esserci la virtus, in particolare la capacità bellica di chi prendeva l’impero sulle proprie spalle; sicché ritenendosi depositaria del compito di difenderlo, fu spinta, da ultimo, a rivendicare il diritto di governarlo, portando alla porpora molti uomini emersi dalle sue file.
Quella che è stata definita «anarchia militare» del III secolo, ma che si può forse meglio chiamare «seconda rivoluzione romana», ebbe come fine la ricerca, spesso incongrua e violenta ma in fondo sincera, dell’ optimus da mettere sul trono; e non solo in nome delle esigenze di lotta a barbari sempre più minacciosi, ma come ossequio sentito a un astratto e forse frainteso, eppure tuttora necessario, principio morale.
Per questi uomini la moderna storiografia ha accolto il termine di Illyriciani, dalla terra che almeno militarmente li generò, e ha coniato quello di «Soldatenkaiser», di imperatori-soldati, a definire i sovrani guerrieri che si succedettero tra la fine di Severo Alessandro e il regno di Diocleziano. Che non nacquero tutti in Serbia, naturalmente; ma che nel servizio in Illirico (anche se forse soprattutto in Serbia: va segnalata la presenza qui del grande centro nevralgico di Sirmium, Sremska Mitrovica) ebbero la loro genesi etica.
Se, nel corso dei secoli, l’esser Romano significò soprattutto riconoscersi nell’impegno di responsabilità verso una res publica questi uomini furono forse gli ultimi veri Romani, esponenti di un mondo in cui pienamente si riconoscevano e che tenacemente difesero, ben meritandosi l’appellativo di restitutores .