giovedì 30 aprile 2020

Gli antichi romani arrivarono in Cina prima di Marco Polo


Corriere della sera - VENERDÌ 25AGOSTO 2000 - Pagina 17
  
I risultati di uno studio internazionale

«Gli antichi romani arrivarono in Cina prima di Marco Polo»

NEW YORK Molto prima che Marco Polo mettesse piede in Catai, o che la mitica Via della Seta venisse aperta, i romani erano già in Cina, a fondare una colonia sul limitare del deserto dei Gobi. E questa la singolare ipotesi offerta da un gruppo internazionale di studiosi che, se confermata, potrebbe portare a riscrivere un pezzo di storia antica. Di prove inconfutabili ancora non ce ne sono, ma sulla base della rilettura di antichi documenti del 5 dopo Cristo e della scoperta di nuovi reperti, è emerso che vicino ai villaggio di Zhelaizhai, nella provincia del Gansu, sorgeva una città chiamata Liqian. Un nome usato a quei tempi in Cina per indicare il potente impero romano. Secondo lo storico locale Guang Heng e altri accademici, sol­tanto due altre città cinesi sulla Via della Seta, avevano nomi di località straniere e in entrambi i casi si trattava di città fondate da coloni venuti da lontano. Perché, dunque, non ipotizzare che Liqian potesse essere romana? Zhelaizhai non era certo dietro l’angolo per un viag­giatore dell’antico impero romano vissuto peraltro circa duemila anni fa. Tanto più che per raggiungerla, a quei tempi, si doveva passare attraverso l’impero dei Parti (1’ attuale Iran e Iraq), nemico giurato di Roma. Ma Heng ritiene di avere tutta la matassa della storia in mano: avallando l’ipotesi di uno studioso della Oxford University, l’americano Homer Hasenpflug Dubs, che già nel 1955 aveva avanzato l’ipotesi dell’esistenza di una città romana nella Cina antica, lo studioso sostiene che i coloni fondatori non erano altro che legionari alle dipendenze di Licinio Crasso che nel 53 aC. avviò una campagna contro i Parti. Fatti prigionieri e poi in seguito fuggiti, questi avrebbero gettato le fondamenta di una città descritta in un libro della dinastia cinese degli Han e adesso analizzato da lui in dettaglio circondata da una doppia palizzata in legno. Una struttura, questa, che all’epoca veniva costruita solo dai romani.
Secondo Hueng intervistato dal Los Angeles Times, dove si ribadisce la presenza a Zhelaisai di una popolazione di origine non cinese (riccioli castani e occhi chiari) questa rilettura dei testi antichi verrebbe confermata anche dal ritrovamento locale di vasi di terracotta con disegni di soldati schierati «a testuggine». Ovvero, la formazione tipica da battaglia degli antichi romani.
Simona Vigna

mercoledì 29 aprile 2020

Rimproveri di Federico II ai romani


RIMPROVERI DI FEDERICO II AI ROMANI

(20 aprile 1239)

Fridericus, Dei gratia Romanorum imperator semper augustus, Hierusalem et Sicilie rex, senatori Urbis a suis conromanis salutem.
Cum Roma sit nostri caput et auctrix imperii, et Romanus imperator a Rome, vocabulo nuncupetur,  ut sibi nostri nominis et honoris processus et auspicia debeamus, in admirationem rapimur vehementem, si ubi nostri promovendus est honor et iniuria propulsanda, apud eos qui tendntur et debent pro culmine nostro se murum defensionis opponere insurgentibus ex adverso, ipsis audientibus et dissimulantibus, contrarium patiamur. Propter quod graviter dolore compellimur quod Romanus autistes contra Romanum principem, id quod alibi non guderet, sicut dicitur, in Urbe presumpsit, et Romanum imperatorem, authorem Urbis et benefactorem populi Romanorum, ipsis non resistentibus, impie blasphemavit: ut beneficiorurn nostrorum tam proceres quam populum Romanum, quibus specialiter et conimuniter studuimus liberali et spontanea munificentia providere, et eorum intendimus continuatis augmentis commoda promovere, recte notemus immemores extitisse ac inerti scommo detentos; ut de tribu Romulea non esset vir de tot proceribus et turba Quiritum vel unus de tot Romani populi militibus, qui pro nobis exurgeret et verbum unicum loqueretur, quique nostre iniurie condoleret; cum nos Urbem antiquis triumphorum titulis insignitam, novis nostre victorie successibus honoremus, et ad reformandum Romanurn nomen, sicut in diebus antiquis, et exaltandum statum Romani imperii, continuis laboribus intendamui. Quapropter... .
Nam cum ad alterutrum teneamur, ed nos Romanum honorem et vos Romani defendere nomen nostrum, si ad hoc vos segnes et negligentes invenerimus, cum nullus timor nos coegerit ad beneficia Romanorum, sed gratia induxerit specialis, per ingratitudinem istam, licet prorsus inviti, cogemur ab universis et singulis exhibitam gratiam revocare.
Datum Tervisii, mensis aprilis die XX


Penati

Penati, dei domestici dei Romani, che tutelavano la conservazione della famiglia; le loro statue si trovavano nei penetrali, cioè nella sala di riunione della famiglia, in un armadio presso il focolare, detto Larario. Anche lo Stato, considerato come una gran famiglia, aveva i suoi Penati, che si custodivano nel tempio di Vesta.    

martedì 28 aprile 2020

ROMA URBS - L’ IMPERO SOTTO DIOCLEZIANO


ROMA URBS - L’ IMPERO SOTTO DIOCLEZIANO

La Roma antichissima, la Roma Quadrata della tradizione, fu fondata sul monte Palatino. La palude del Velabrum a N, la vallis Murcia a S accrescevano la forza difensiva degli scoscesi fianchi del monte, che dominava il passaggio del Tevere. La necropoli (cimitero) di questa città, scoperta nel Foro Romano noi primi anni di questo secolo, si stendeva ai piedi del Velia e del Fagutal. Tracce di abitati si trovarono anche sui colli a N e ad E del Palatino e può darsi che sul suolo di Roma siano sorti dapprima dei piccoli villaggi sparsi; ma la tradizione antica parla solo di un’unica città, della città di Roma, fondata sul monte Palatino.
La città si venne col tempo estendendo, dapprima sul colle Velila e poi su altri monti più ad oriente. Secondo alcuni studiosi, la città che occupava le due cime del Palatino (Germalus e Polatium), la Velia, il Caelius,
il Fagutal, l’Oppius o il Cispius, alle quali alture si aggiungeva la Subura nella bassura a NO del Fagutal, sarebbe stata la città del Septimontium. della quale avrebbe serbato ricordo la festa del Septimontium, che si celebrava l’11 dicembre, con sacrifici sui colli suddetti. Ma altri negano l’esistenza di una città del Septimontium.
Un passo molto importante per lo sviluppo della città è rappresentato dal prosciugamento della bassura del Velabro o dell’Argiletum mediante la Clocca massima, che la tradizione attribuisce, a ragione, ai Tarquini, i quali certo compirono i primi grandi lavori di prosciugamento dell’area urbana, ampliati poi e perfezionati in vari periodi dell’età repubblicana. Allora parte della bassura potè essere trasformata nella piazza più importante della città (Forum Romanum con l’attiguo Comitium) e il forte colle Capitolium, dai fianchi dirupati, potè divenire l’arx, la rocca, della città stessa. E nello stesso tempo furono racchiusi nella città anche il collis Quirinalis e il collis Viminalis, che formarono un nuovo e importante quartiere della città.
La città ci appare ora divisa in quattro re­gioni che si chiamavano: I Suburana, II Esquilina, III Collina, IV Palatina. Il Campidoglio non era compreso in una delle quattro regioni, forse perchè esso ora l’ars della città intera e vi dimorava il re. Questa città viene perciò detta dai moderni la città delle quattro regioni ed è la città dell’epoca regia, la quale aveva il suo limite sacro (Pomerium), cho si conservò fino ad epoca tarda. L’Aventino rimase escluso dal Pomerium fino all’epoca dell’imperatore Claudio. Questa città aveva un’estensione di circa 280 ettari, e una cinta di mura, della quale si conservano avanzi sul Palatino, sul Campidoglio e sul Quirinale; secondo la tradizione la cinta di mura fu costruita dal re Servio Tullio. Anzi il nome del re Servio rimase cosi legato alla grande cinta dell’età regia, che anche quando, dopo le vicende dei primi anni della repubblica e dell’incendio gallico, la cinta fu ricostruita con materiale diverso e allargata a comprendere l’Aventino e il terreno a N sino alla porta Collina, si disse sempre di Servio e quindi la comune denominazione di Città Serviana per designare la città dell’epoca repubblicana. A NE, dove, fra la porta Collina e l’Esquilina, il terreno non offriva protezione alcuna, la cinta, per circa 1350 m., risultava di fossa, muro e potente argine, donde il nome di agger. Dell’agger e delle mura dell’età repubblicana rimangono avanzi cospicui e il loro percorso è in genere ben noto.
Il centro della città era costituito dal Capitolium, sul quale sorgeva il grande tempio di Giovo Capitolino, costruito dai re Tarqunii e dedicato nel primo anno della repubblica, e dal Forum, con il Comitium, il più antico luogo di riunione delle assemblee popolari. Il Comitium e il Forum erano circondati da edifici d’ogni genere, alcuni dei quali erano fra i più antichi e venerandi di Roma, e molti monumenti sorgevano anche nel mezzo dell’area. Ricordiamo la Curia Hostilia per il Senato, sostituita poi dalla Curia Iulia di Cesare, restaurata e affidata nel 1871 al Senato dell’allora costituito Regno d’Italia, e le due più antiche basiliche sul Comizio; nel Foro la Regia, il tempio di Vesta e la casa delle Vestali, i Rostra, le basiliche Aemilia e Iulia e parecchi templi, fra i quali quelli dei Castori, di Saturno e del Divo Giulio (Cesare).
Divenuto perciò troppo angusto il Foro Romano, Cesare costruì nel 54 a. C., ad oriente del Campidoglio, un nuovo foro che prese il suo nome, Forum Iulium, con il tempio di Venere Genitrice protettrice dei Giulii. Accanto al Foro Giulio, Augusto fece erigere il Forum Augusti, con il magnifico tempio di Marte Ultore da lui votato durante la battaglia di Filippi. In apposite nicchie del muro di cinta furono collocato lo statue dei grandi Romani, da Enea a Cesare. NeI 75 d. C., Vespasiano, a ricordo della guerra giudaica, eresse il Forum Pacis intorno al tempio della Pace. Tra questo Foro e i due Fori Giulio e Augusto rimaneva una striscia di terreno percorsa da una strada, che metteva dalla Suburra al Foro Romano. Su questo terreno Domiziano iniziò, e Nerva completò nel 97, il Foro che fu detto Transitorium, appunto perchè rappresentava un passaggio tra i quartieri del Viminale e il Foro Romano. Tutti questi fori furono però superati per ampiezza e magnificenza dal foro, che l’architetto Apollodoro di Damasco costruì per l’imperatore Traiano (Forum Traiani o Ulpium). La vasta piazza era dominata dalla statua equestre dell’imperatore e sul lato prospiciente al monumentale arco d’ingresso si ergeva la grandiosa Basilica Ulpia, e, oltre la basilica, le due biblioteche, greca o latina, e, infine, il tempio di Traiano. Biblioteche, basilica e tempio limitavano uno spazio, una specie di cortile, in cui si elevava la famosa colonna coclide marmorea, intorno alla quale si svolgeva, come su un nastro, la rappresentazione delle guerre daciche di Traiano. Un alto muro separava il Foro Traiano dai cosiddetti Mercati Traianei, un vasto complesso di botteghe e magazzini costituenti, a quanto pare, un grande mercato. Attraverso le imponenti rovine dei Fori opportunamente messe in luce e magnificamente sistemate, corre oggi la grande arteria detta Via dei Fori Imperiali.
La cinta repubblicana divenne però presto insufficiente a contenere la crescente città, che si sviluppò specialmente nel Campo Marzio, ad ovest del Campidoglio e del Quirinale, ove ora stato costruito, già nel 221 a. C., il Circus Flaminius. Pompeo vi costruì un grande teatro (52 a. C.) e un vasto portico; Cesare l’altro teatro, clic Augusto dedicò poi a Marcello, o il grande edificio, che doveva servire per le votazioni dei comizi. Augusto restaurò molti templi pericolanti, edificò il tempio di Apollo presso la sua dimora sul Palatino e dette alla città un aspetto nuovo. Ma egli rivolse la sua attività edilizia specialmente al Campo Marzio, che divenne il centro della vita urbana. Ricordiamo la meravigliosa Ara Pacis Augustae, da poco ricomposta presso gli avanzi del mausoleo eretto da Augusto per la famiglia imperiale. Il ministro di Augusto M. Vipsanio Agrippa edificò nel Campo il Pantheon con le attigue vaste terme e l’annesso parco e lago artificiale (Stagnum Agrippae), il Porticus Argo­nautarum (così detto dalle pitture che lo decoravano) e il Porticus Vipsania. I successivi imperatori continuarono in questa opera di abbellimento del Campo Marzio.
Erano intanto venute di moda le grandi ville suburbane. Lucullo e Sallustio fecero sorgere gli Horti Luculliani e Sallustiani sul Pincio, che fu poi chiamato il Collis Hortorum; Cesare aveva creato gli Horti Caesaris nel Trastevere; Mecenate abbellì con giardini magnifici (Horti Maecenatis) una vasta zona dell’Esquilino).
Ad Augusto spetta la divisione della città in 14 regioni; 7 erano dentro le mura serviane, 6 fuori e I nel Trastevere. Alla sicurezza e alla lotta contro gli incendi provvedevano sette cohortes vigilum, una ogni due regioni.
Tiberio restaurò templi, edificò il grande palazzo imperiale sul Palatino (Domus Tiberiana) e costruì per le coorti pretorie, fuori delle mura,i Castra Praetoria, un campo permanente di metri 430 x 371, ricinto di mura e di torri.
Venne poi l’incendio falsamente definito neroniano (luglio 64 d. C.), dopo il quale la città fu in gran parte rinnovata. Nerone costruì l’immensa Domus Aurea, che occupava il Palatino e parte del Celio, dell’Oppio e delle Carine. Fra il Palatino e il Celio, i Flavi eressero il Colosseo; sulle Carine Tito costruì le sue terme. Domiziano restaurò molti edifici, eresse il nuovo palazzo imperiale sul Palatino (Domus Augustana) con l’Hippodromus, il grande Stadium nel Campo Marzio, del quale serba la pianta la Piazza Navona, il tempio di Iside (Iseum) e quello di Minerva. Traiano edificò le Thermae Traianae sull’Esquilino. Adriano legò il suo nome specialmente al grande Mausoleo oltre il Tevere, congiunto alla città dal Pons Aelius; sulla Velia, egli innalzò il grandioso doppio Templum Veneris ct Romae. Sotto i Severi si costruirono le immense Thermae Anioninianae, le Terme di Caracalla.
La minaccia delle invasioni barbariche indusse Aureliano a iniziare nel 272 una nuova cinta di mura, che ebbe uno sviluppo di quasi 19 chilometri con 16 porte; le torri erano quasi 400. Gli imperatori illirici lasciarono le imponenti Thermae Diocletianae, la colossale Basilica Constantini (di Massenzio), le Thermae Constantinianae sul Quirinale, le Thermae Helenae presso la Porta Prenestina e il palazzo del Sessorium. Il sacco di Roma per opera del re goto Alarico (410) segna l’inizio tragico della decadenza e della rovina di Roma antica.


L’IMPERO ROMANO RIORDINATO DA DIOCLEZIANO.
Dopo la grande crisi del III sec. d. C., l’impero fu riordinato su nuove basi da Diocleziano. Per assicurarsi contro tentativi di usurpazione, Diocleziano nel 286 d. C. associò all’impero il suo prode amico Massimiano, col titolo prima di Cesare, poi di Augusto. Diocleziano si procurava così un collaboratore nel governo dell’impero, troppo vasto e minacciato da troppi nemici sull’immensa frontiera, per poter essere vigilato e difeso da un solo imperatore. Diocleziano affidò a Massimiano le provincie occidentali, con residenza a Milano o ad Aquileia; Roma, col suo senato, non sembrava più un ambiente adatto al nuovi imperatori militari, ed era, inoltre, troppo lontana dalle frontiere settentrionali. Diocleziano risiedeva di solito a Nicomedia.
Qualche anno dopo, Diocleziano pensò di allargare il collegio imperiale da due a quattro membri e nel 293 Galerio e Costanzo furono da lui elevati alla dignità di Cesari e adottati l’uno da Diocleziano, l’altro da Massimiano. In tal modo Diocleziano pensò di assicurare una regolare successione agli Augusti, eliminando le lotte per la successione fatali all’impero, e accrebbe nello stesso tempo il numero dei suoi collaboratori al governo dell’impero. Diocleziano rimaneva però di fatto, e anche di diritto, il supremo reggitore dell’impero. A Galerio, che pose la sua residenza a Sirmium (nella Pannonia) furono affidate, come suo particolare governo, le provincie illiriche, dall’Inn e dal Danubio sino all’Adriatico e a Creta; Costanzo ebbe invece le Gallie e poi la Britannia (e secondo alcuni anche la Spagna, che altri attribuiscono invece a Massimiano), con residenza ad Augusta Treverorum (detta poi senz’altro Treveri) nella Gallia.
Inoltre Diocleziano si accinse a riformare l’organizzazione e l’amministrazione provinciale, e le sue riforme in questo campo furono continuate e compiute da Costantino.
Le antiche vaste provincie vennero gradatamente suddivise in provincie di minore estensione, che potevano essere governate meglio e non offrivano troppe forze ad eventuali gover­natori ribelli. Per esempio, nella Spagna la vastissima provincia Tarraconensis fu divisa in tre provincie: Carthaginiensis, Gallaecia e Tarraconensis, e più tardi anche le isole Baleari costituirono una provincia a sè. La Gallia fu divisa in quindici provincie (Viennensis, Narbonensis I e Narbonensis II, Alpes Maritimae, Aquitania I e Aquitania II, Novempopuli, Lugudunensis I e Lugudunensis II, Sequania, Alpes Graiae et Poeninae, Belgica I e Belgica II, Germania I e Germania II), che divennero poi diciassette in seguito a nuove suddivisioni.
L’Italia perdette la sua posizione privilegiata nell’impero e fu ad essa esteso il regime provinciale.
Agli inconvenienti di questo spezzettamento delle provincie si cercò di ovviare raggruppandole in complessi più vasti, le prefetture e le diocesi.
L’impero risultò così diviso in quattro prefetture (Italia, Gallie, Illirio, Oriente), a ciascuna delle quali sovrastava uno dei quattro prefetti del pretorio, che da comandanti della guardia imperiale erano divenuti i più alti funzionari civili dello stato dopo l’imperatore. Inoltre ai vicari dei prefetti venne affidata la sovrintendenza su gruppi di provincie, che furono detti diocesi, le quali risultarono in numero di dodici. Per esempio, le provincie galliche erano raggruppate in due diocesi, dette l’una Viennensis, con capitale Vienna e che comprendeva le prime sette delle provincie sopra elencate, e l’altra dioecesis Galliarum, con capitale Treveri, la quale comprendeva lo rimanenti otto provincie dell’elenco. Le provincie erano rette da presidi.


sabato 25 aprile 2020

La Devotio


La Devotio

Una delle cerimonie di origine certamente ancestrale e che conosciamo assai bene perché era ancora pienamente praticata in età repubblicana, era la devotio, un rito con il quale una persona si votava a priori alla morte, così da obbligare con il suo sacrificio i numina all’adempimento dell’impresa voluta. La cerimonia era usata specialmente in battaglia, allo scopo di conseguire la vittoria: il condottiero, o anche il semplice soldato che si offriva volontario come vittima, indossava l’abito proprio del sacrificante, il manto bianco di lana bordato di rosso (toga praetexta) e si poneva diritto in piedi sulla lancia, simbolo  questa della morte a cui si votava sé ed il nemico. Si copriva poi il capo con il mantello, come era d’uso per chi prega la divinità e con la mano destra si teneva il mento, significando con l’imposizione della mano ad un tempo sé come offerente e come vittima. La mano doveva anche essere avvolta nello stesso manto, perché essa poteva non essere in stato di purità rituale, e quindi nel caso non avrebbe potuto toccare l’oggetto del sacrificio. Il soldato allora pronunciava solennemente la formula magica di annientamento del nemico, atta a far carico sudi sé di tutte le colpe del proprio popolo e di tutti gli influssi maligni che potessero allignarvi e si scagliava poi tra le schiere avversarie rovesciando loro addosso, col proprio sangue, tutti i mali di cui era pregno, a loro danno e rovina.
Testimonia anche l’antichità del rito il fatto che se il sacrificio non riusciva ed il soldato sopravviveva illeso dalla mischia, come impuro non  poteva più essere riaccolto dai suoi, se non dopo rigorosi rituali di espiazione: ancora in epoca storica, se era un soldato semplice la sua effige doveva essere seppellita ad almeno sette piedi sotto terra (cioè due metri circa), al di sopra vi si faceva un sacrificio di purificazione ed il luogo, dichiarato sacer, veniva recinto o contradistinto da un cippo, perché alcuno non vi passasse sopra.
Un esempio famoso di devotio è quello che ci è stato tramandato dalla leggenda romulea del lacus Curtius nel Foro Romano, la voragine nella quale si sarebbe gettato a cavallo il condottiero sabino Mettius Curtius per ottenere la vittoria del suo popolo sui Romani (un’altra leggenda attribuiva invece il fatto al romano Marcus Curtius, che parimenti si sarebbe gettato nella voragine per la salvezza della patria).

venerdì 24 aprile 2020

Veria Sacra


Veria Sacra
Un rito antichissimo, che trova anch’esso certamente la sua origine nella preistoria dei popoli e nelle vicende delle migrazioni dei gruppi etnici primevi è quello del Ver Sacrum. la primavera sacra in cui i nati di un certo anno sciamavano via dalla loro terra di origine, alla ricerca di nuove sedi. La cerimonia riguardava le singole comunità nei loro complesso, cioè la tribù o l’intero popolo, così come le entità statali formatesi sempre più compiutamente nel tempo. Essa doveva tendere a risolvere, in origine, soprattutto il problema della sopravvivenza nel caso di un eccessivo popolamento di un territorio e riguardare perciò il distacco di interi nuclei famigliari e degli elementi più giovani dall’aggruppamento principale.
Il rito consisteva nel promettere agli dei di consacrare ad essi tutti i nati della primavera che doveva venire, piante, animali ed uomini: i vegetali sarebbero stati offerti ai numi stessi e così a loro sacrificati gli animali, mentre i figli (in quanto votati alla divinità non appartenevano più alla comunità) una volta raggiunta l’età matura dovevano partire per trasferirsi in altre regioni, fondando una colonia fuori dei confini della patria. Il sacrificio stesso iniziale delle piante e degli animali era propiziatorio all’impresa e certo coincideva anche con la dote utile ai bisogni dei partenti. Certo la speranza che la migrazione apriva ad una soddisfazione migliore dell’esistenza ed ad una più conveniente soluzione economica, doveva far concorrere ad essa oltre che iniziative similari anche fattori diversi, come gli avvicendamenti politici ed economici all’interno della comunità o quelli che premevano dall’esterno così come le esigenze di sfogo degli elementi più esuberanti, l’attivismo militare e quello commerciale.
Non dobbiamo poi pensare che queste migrazioni di popoli avvenissero con movimenti di massa grandiosi, riguardanti simultaneamente migliaia e migliaia di individui (sul tipo cioè delle migrazioni di età barbarica): il loro numero infatti non era tale neppure all’origine, ed essendo poi gli stessi ceppi etnici divisi nelle miriadi dei piccoli popoli e singole tribù autonomi gli uni dagli altri, questi movimenti andavano indipendenti tra di loro, anche se una concomitanza di cause poteva riguardare insieme più comunità ed avvicinare gli stessi problemi nel tempo e nello spazio. Il numero di emigranti doveva andare quindi in genere da alcune decine per volta, a non certo più di poche centinaia: se però il loro singolo numero non era alto, esso poteva diventare determinante al popolamento di massa di territori anche assai vasti se le singole migrazioni si sommavano in gran numero sulla stessa direzione in un arco di tempo non amplissimo. Nè dobbiamo immaginare che queste migrazioni partissero allo stato brado, alla ventura, ma certo conducevano un’impresa ben ordinata, sia pure nei limiti delle possibilità del tempo, verso luoghi più o meno sperimentati per le possibilità che avevano di accogliere la migrazione stessa.
Il rito del Ver Sacrum  deve essere stato molto praticato nell’ultima età del bronzo: gli stessi Aborigeni, secondo la tradizione, sarebbero giunti nel Lazio seguendo un’analoga migrazione, dietro la via loro tracciata dal sacro picchio (Picus), il protettore della stirpe.
Ma la cerimonia peraltro era ancora in pieno uso non solo nelle prime fasi dell’età del ferro, ma ancora in piena età storica tra i popoli italici dell’arco appenninico. Tutte le tradizioni di queste genti sono rimaste legate al ricordo di questi movimenti, che sarebbero derivati dal primitivo ceppo sabino: i Sanniti migranti dietro la guida del toro sacro a Marte, i Piceni pure essi dietro la guida del picchio, gli Irpini dietro quella del lupo, e così parimenti tutte le altre genti della stessa derivazione, di cui tacevano parte quei Volsci e quegli Equi che travaglieranno tutta la storia laziale della fine del vi e del v secolo a.C., essendo essi venuti ad occupare tutta la parte meridionale del Lazio primitivo.
Per quanto riguarda propriamente il Lazio  nell’età del bronzo finale e nella prima età del ferro, si è visto come la stabile occupazione agricola del territorio, le immense possibilità economiche della,sua pianura e la loro precoce urbanizzazione dovettero portare per tempo ad una precisa definizione delle zone occupate dai rispettivi populi e ad un primo consolidamento della situazione politica e topo­grafica: quella che appunto riconosciamo all’epoca che è sintetizzata nella mitica età di Alba Longa.
Le migrazioni, in questo contesto interno, dovettero pertanto essere limitate allo spostamento di piccoli gruppi di sbandati odi avventurieri. così come la tradizione ricorda appunto la brigata di Romolo e Remo in occasione della cosiddetta fondazione di Roma, Il Ver Sacrum dovette pertanto perdere per tempo nel Lazio il suo significato originario e rimanere solo nel suo valore rituale, strettamente religioso, usato come voto estremamente solenne dalle singole comunità nel caso di una gravissima calamità: così come la conosciamo ancora riesumata ad esempio nel travaglio della seconda guerra Punica da Roma stessa: “quod ver attulerit ex suillo ovill caprino bovillo grege, quacque profana erunt, Iovi fieri (ciò che nascerà in primavera da scrofa, pecora, capra e bove, se non già sacri, saranno di Giove) (Liv. XXII, 10,3).
Ma se il Ver Sacrum, come fenomeno migratorio, non dovette interessare sostanzialmente i Latini all’interno delle loro comunità territo­riali, certo invece esso in età protostorica dovette molto riguardarli per la costante pressione che esercitavano sulla pingue pianura laziale le mire e le aspirazioni dei popoli dell’interno: i Sabini soprattutto,  dei quali la tradizione stessa ricorda la lenta ma costante penetrazione, ed in particolare la piena sabinizzazione di tutto il territorio compreso tra il Tevere e l’Aniene. Esemplificativo di questo genere di penetrazione può essere tutta la migrazione della gens di Attus Clausus dalla Sabina ad entro i confini dello stato romano negli anni a cavallo del vi e del v secolo.

giovedì 23 aprile 2020

Legio X Gemina


LEGIO X GEMINA
  
Legione di origine pre-augustea; composta da due legioni.
Una delle legioni convocate da Ceriale per combattere contro il ribelle Civilis, proveniva dalla Spagna dove era di stanza.
Si stabilì a Noviomagus (Nijmegen) in una nuova fortezza per poter vigilare sui Batavi.
Dopo la sfortunata spedizione di Traiano in Parthia, la X Gemma si stabili a Vindobona (Vienna) sul Danubio in un riassestamento delle legioni lungo questo fiume: XIV Gemina a Carnutum, la XXX Ulpia a Brigetio, la II Adiutrix ad Aquincum, mentre le legioni della Moesia Inferior rimasero al loro posto.

Si sono trovati dei bronzi di Nerone con contromarca X con sopra una barretta. Si ritiene che questi assi o sesterzi siano stati contromarcati in una delle provincie del Danubio superiore, probabilmente la Pannonia. Forse trovarono impiego a Carnuntum, sede provvisoria della Legione X Gemma e provenivano esclusivamente dalla zecca di Lugdunum.
In un gruppo di queste monete il volto dell’imperatore viene risparmiato, quasi a sottolineare lealtà verso la dinastia giulio-claudia anche dopo la morte di Nerone nel periodo delle guerre civili 68-70; altre monete hanno invece contromarche che sfigurano il viso, forse apposta. Per lo più queste ultime riportano il nome di Galba.

mercoledì 22 aprile 2020

Legio X Fretensis


LEGIO X FRETENSIS
  
Il nome fretensis origina probabilmente da Fretum Siculum, lo stretto di Messina dove la legione combatté contro Sesto Pompeo.
Nel 66 dC. partecipò alla presa di Akko e di altri centri nel nord della Palestina e nel 70 la legione, che si era mossa da Gerico, era ancora impegnata a fortificare il proprio accampa­mento sul monte degli Ulivi, quando fu attaccata con tale violenza da subire una sconfitta quasi totale (poco prima di Pasqua). Solo l’intervento personale di Tito riuscì a far mantenere la sua posizione ed a respingere l’attacco.
L’esercito di Tito all’assedio di Gerusalemme era formato da quattro legioni, Oltre alle tre di suo padre (V Macedonica, X Fretensis e XV Apollinaris) egli aveva portato anche la XII Fulminata che era già stata in Siria sotto Cestio Gallo e aveva iniziato la guerra in modo alquanto sfortunato.
Al comando della V stava Sesto Vettuleno Ceriale, della X Fretensis A. Larcio Lepido Sulpiciano, della XV M. Tizzio Frugi; il comandante della XII non è noto.
Nel 73 la XF completò l’opera annientando gli zeloti ribelli di Massada.
Giuseppe Flavio afferma che all’assedio di Gerusalemme le macchine della X Fretensis lan­ciavano pietre che pesavano un talento (circa 55 libbre) alla distanza di 440 yarde o più.
Dopo la guerra di bar Kochba (132-135) si fermò definitivamente ad Aelia Capitolina alias Gerusalemme mentre il nord della Palestina veniva controllato dalla VI Ferrata.
Adriano, dopo la vittoria sui Giudei, fece porre a scopo intimidatorio sopra la porta occidentale di Gerusalemme uno stemma con un gigantesco cinghiale che sarà senz’altro stato scambiato per una scrofa dagli ebrei! In verità, uno dei simboli della legione X era appunto il cinghiale ed un altro la nave.
A Gerusalemme è stato trovato un sigillo di coccio con la scritta LXF e un cinghiale.
“ …  Marco Aurelio chiamò parti della X Fretensis da Gerusalemme e della III Augusta dall’Africa sul Danubio contro i Quadi e i Marcomanni...” Tacito, Annali, 11, 57:    si incontrarono a Cyrrhus, nei quartieri d’inverno della decima legione,,,” (Cyrrhus, Cyrrestica, a nord di Antiochia ad Orontem).

Nella prima metà del IV secolo la X fu spostata da Gerusalemme ad Aila (Eilath), diventando l’unica legione della nuova Palestina Salutaris.

Si è detto che nel 73 la LXF annientò i ribelli zeloti di Massada capitanati da Eleazar. Da calcoli più precisi si deduce che la caduta di questa roccaforte non poté avvenire prima della primavera del 74.
Alcune notizie sui comandanti della X che poi erano anche governatori di Giudea.
Sex. Vettulenus Cerialis comandava la legio V Macedonica all’assedio di Gerusalemme. Dopo la partenza di Tito, rimase capo delle forze di occupazione, cioè della X e dei reparti ad essa associati e poi li trasmise a Lucilio Basso, Questi prese le fortezze di Herodium e Macheronte. Morì governatore.
L. Flavius Silva fra il 73/74 e l’81; il conquistatore di Massada.
Si conoscono i nomi di numerosi altri governatori della provincia di Giudea e comandanti della XF successivi a Silva: Cn. Pompeius Longinus 86; Sex. Hermetidius Campanus 93; Atticus 99/100 (?) o 102/103 (?); Quadratus Bassus c.  102/103-104/105; C. Pompeius Falco c. 105-107; e poi ancora altri fino al celebre Lusius Quietus, il mauro, prefetto del pretorio di Traiano che fu governatore di Giudea dopo aver soffocato la rivolta giudaica in Mesopotamia alla fine del regno di Traiano. Egli fu poi deposto da Adriano e subito dopo giustiziato. Al tempo della seconda rivolta ebraica di Bar Kochba era governatore Q. Tineius Rufus.

martedì 21 aprile 2020

La vendetta cristiana su Roma


La vendetta cristiana su Roma.

Forse non c’è nulla che stanchi tanto, quanto lo spettacolo di un continuo vincitore, per duecento anni si era visto Roma assoggettate a sé un popolo dopo l’altro, il circolo era compiuto, tutto l’avvenire sembrava alla fine, tutte le cose erano organizzate per una eterna condizione. Sì, se l’impero edificava, edificava con l’intenzione dell’« aere perennius »; e noi, noi che conosciamo soltanto la « malinconia delle rovine », possiamo a stento comprendere quella malinconia, di tutt’altra specie, delle costruzioni eterne, dalla quale si doveva cercare di salvarsi come si poteva: per esempio, con la frivolezza di Orazio. Altri cercavano differenti mezzi di conforto contro la stanchezza confinante con la disperazione, contro la coscienza mortifera che ormai tutti i movimenti del pensiero e del cuore fossero senza speranza, che in ogni luogo si fosse piantato il grande ragno, che esso avrebbe implacabilmente bevuto tutto il sangue, dovunque ancora scaturisse. Questo odio vecchio di secoli, senza parole, nutrito dagli stanchi spettatori verso Roma, almeno per tutto il tempo in cui durò il suo dominio, si sgravò, alla fine, nel cristianesimo, coinvolgendo in un solo sentimento Roma, il « mondo » e il « peccato »; ci si vendicò di Roma, ritenendo prossima l’improvvisa fine del mondo; ci si vendicò di Roma, ponendo di nuovo dinanzi a sé un avvenire - Roma aveva saputo trasformare tutto nella sua preistoria e nel suo presente e un avvenire, in confronto al quale Roma non appariva più come il fatto più importante; ci si vendicava di essa, sognando il giudizio ultimo, e l’ebreo crocifisso, come simbolo di salvezza, costituiva l’estrema irrisione verso gli splendidi pretori romani della provincia; infatti essi ora apparivano come i simboli della sventura e del « mondo » maturo per la fine.

Friedrich Nietzsche

Da “Aurora”


Romolo

Romolo  
Fu il mitico fondatore della città di Roma. Nelle leggende più arcaiche è  chiamato Rhomos, nome che subito si dualizzò in Romolo e in Remo.  
Quindi all’inizio si credette in un solo bimbo allattato da una lupa, come  testimoniano anche le sculture più antiche.  Solo dal III secolo a. C. si introdusse a Roma la credenza di due gemelli. Si dubita che il nome della Città Eterna derivi da quello di Romolo, che semmai significa “quello di Roma’~ si è infatti più propensi a pensare che il nome della città fosse originariamente il nome del Tevere.  
La leggenda più diffusa narra che all’incirca trecento anni dopo l’insediamento dei Troiani nel Lazio, morì il re di Alba Longa, Proca. ll regno passò  così nelle mani del figlio maggiore Numitore, che fu ben presto scacciato  per opera del fratello Amulio e confinato in campagna. Amulio, per assicurarsi da ogni vendetta, uccise il figlio maschio di Numitore e costrinse la  figlia femmina, Rea Silvia, a diventare sacerdotessa di Vesta perché non  potesse sposarsi e generare figli che lo avrebbero detronizzato. Ma la sorte  non lo favorì: infatti un giorno, mentre Rea Silvia si recava nel bosco per  prendere l’acqua, incontrò un lupo, che la costrinse a fuggire in una grotta  poco distante. In tale grotta incontrò Marte, che si unì a lei.  
Rea Silvia partorì i due famosi gemelli, Romolo e Remo, attirando su di sé  l’ira di Amulio, che, dopo averla fatta seppellire viva, mise i due neonati in  una cesta lasciata in balia delle acque del Tevere.  
Una lupa, scesa al fiume per abbeverarsi, vide la cesta arenata all’ombra di  un fico e portò i due piccoli nella sua caverna, dove li alla ttò insieme con  i suoi lupacchiotti. 
Il fico sotto cui furono trovati i bambini fu poi trapiantato in mezzo al Foro,  ai piedi del Palatino: si credeva fosse protetto della dea Rumina e quindi fu  chiamato Ruminale.
Romolo e Remo furono poi trovati nella grotta da alcuni pastori, che li  affidarono a Faustolo, mandriano al servizio di re Amulio. Faustolo e la  moglie Acca Larenzia li crebbero come propri figli.  
Da giovinetti, seguivano il presunto padre nel lavoro. Si distinsero ben presto per bellezza e intelligenza, divenendo i capibanda dei figli degli altri  pastori.  
Un giorno litigarono con i pastori di Numitore che, per vendicarsi, tesero  un agguato a Remo e lo consegnarono ad Amulio. Questo lo diede a Numitore perché decidesse la punizione, ma Faustolo, che aveva intuito i veri  natali dei due trovatelli avvertì il suo signore, il quale ringraziò gli Dei per  aver ritrovato i suoi nipoti creduti morti e fece venire presso di lui anche  Romolo. 
Conosciuta la loro storia, i gemelli si precipitarono con la loro banda su  Alba Longa, la distrussero, uccisero Amulio e rimisero il vecchio nonno sul       trono. Numitore regalò loro la terra vicina al Tevere, sovrastata dai sette    colli, affinché costruissero una loro città.  
  
Tra i due fratelli nacquero dei dissidi quando si trattò di stabilire il punto in    cui avrebbero dovuto fondare la città; sicché lasciarono che fossero gli Dei    a decidere. Romolo salì sul Palatino e vide dodici avvoltoi, Remo salì sull’Aventino e ne vide solo sei. Spettò dunque a Romolo tracciare i solchi    delimitanti la città e costruirvi intorno un muricciolo provvisorio.   
Per schernire il fratello, Remo saltò d’un balzo il muro e, in un impeto    d’ira, fu ucciso da Romolo. Pentito dal suo gesto, Romolo pianse a lungo    il fratello e gli diede sepoltura sull ‘Aventino.   
Per popolare la città Romolo diede asilo a chiunque volesse diventarne    cittadino. Roma fu ben presto piena zeppa di liberi cittadini.    Il vero problema era la mancanza di donne: ma fu ben presto risolto con    l’astuzia. Romolo indisse a Roma una grande festa a cui parteciparono molte città vicine; a un dato segnale i Romani si gettarono nella folla e fecero    prigioniere tutte le donne giovani. Ciò provocò una violenta reazione dei    Sabini, che mossero guerra contro Roma. Insicuro del proprio contingente    militare, Romolo aspettò i nemici non in campo scoperto, ma dietro le    mura della città. Fu però tradito da Tarpeia che, durante la notte, aprì una    porta della cittadella, assicurando ai Sabini la cima occidentale del Campidoglio. Al mattino iniziò la battaglia, che sarebbe finita in un massacro se le    donne non si fossero gettate nella mischia implorando la pace. Dopo una    lunga riflessione si giunse a un accordo tra Romolo e Tito Tazio, re dei    Sabini, che decisero di fondere i due popoli.    
Dopo la morte del re sabino, Romolo governò da solo e diede un notevole    impulso al progresso civile di Roma.    
Dopo trentatrè o forse trentasette anni di regno, mentre il re stava passando    in rassegna le sue truppe nel Campo Marzio, scoppiò un forte temporale,    seguito da un ‘eclissi solare, al termine della quale tutti si accorsero che Romolo era sparito.    
Nacque così la leggenda che fosse stato portato tra gli immortali dal padre    Marte e che continuasse a proteggere la sua città nelle vesti divine di Quirino.    
Grazie ad Era anche la sua sposa Ersilia divenne immortale.    

La leggenda di Romolo e Remo

Tito Livio
Ab Urbe condita libri
La leggenda di Romolo e Remo

Ma si doveva, come penso, alla volontà del fato l’origine di una tanto gloriosa città e l’inizio dell’impero più grande dopo la potenza degli dèi. La Vestale violentata diede alla luce due gemelli, e dichiarò Marte il padre della prole illegittima, sia perché convinta di questo, sia perché un dio appariva meno disonorevole autore della colpa. Ma né gli dèi né gli uomini salvano lei o almeno i figli dalla crudeltà del re; la sacerdotessa viene imprigionata e Amulio ordina che i piccoli siano abbandonati nella corrente del Tevere.
Per un caso voluto dagli dèi il Tevere, straripato sulle sponde in calmi stagni, non poteva in alcun punto essere raggiunto sino al corso della corrente normale, e tuttavia dava ai portatori la speranza che i piccoli potessero essere sommersi dall’acqua per quanto poca. Così, come se avessero ottemperato all’ordine del re, espongono i bambini nel più vicino stagno. 
[…]
Dura ancora la tradizione che, dopo che l’acqua poco profonda lasciò in secco il galleggiante canestro, nel quale erano stati abbandonati i bambini, una lupa assetata diresse il passo dai monti circostanti al vagìto dei bambini. Essa offrì le sue mammelle ai piccoli, dopo averle abbassate, tanto amorevolmente che un guardiano del bestiame del re – dicono che si chiamasse Faustolo – la trovò mentre leccava i piccoli; essi furono portati alla sua dimora e consegnati alla moglie Larenzia perché li allevasse.

Pale

Pale, divinità dei pastori della più antica religione romana; in età storica non si conobbe che il nome, tenuto vivo dalla celebrazione delle feste Palilie al 21 aprile, da prima ad ottenere la protezione di Pale su le gregge e in onore della terra fecondata e del sole fecondante; più tardi a ricordo della fondazione di Roma e in onore di Roma divinizzata.  

lunedì 20 aprile 2020

Orazi

Orazi

Secondo la leggenda, resa celebre dalla tragedia di Corneille (Horace), per porre fi­ne alla guerra fra Alba e Roma, dove regnava Tullio Ostilio,
vennero scelti tre combattenti per parte, perché sì affrontas­sero: dal risultato ditale sfida sarebbe dipesa la sorte delle due città, I tre Orazi rappresen­tavano Roma, i tre Curiazi, Al­ba. Noto lo svolgimento del combattimento: due Orazi ven­nero uccisi sin dall’inizio ma l’ultimo, unendo l’astuzia alla forza, riuscì a eliminare uno alla volta i tre Curiazi, Quest’affron­to con le armi ebbe come conseguenza un dramma familiare: la sorella di Orazio, fidanzata ad uno dei Curiazi, rimproverò al fratello l’”omicidio”. Orazio, non potendo sopportare l’affronto, l’ uccise. Condannato a morte dal re, fece appello al popolo il quale, sensibile alla sua gloria e alle conseguenze politiche della sua vittoria, lo assolse. Dal punto di vista giuri­dico, è il primo esempio di pro­vocatio ad populum, che sa­rebbe stata una delle basi del diritto civile romano. Probabile che si tratti, del resto, di un’an­ticipazione.
La leggenda traspone la caduta e la distruzione di Alba da parte di alcune popolazioni della lega albana che trovavano troppo pesante l’egemonia della città: fra queste popolazioni giocaro­no un ruolo preponderante gli abitanti del Germalo, del Celio e della Velia, che facevano par­te della lega del Settimonzio. Roma dunque contribuì alla ca­duta di Alba, ma non fu sola a decidere. La dissoluzione della Lega albana è in rapporto con la formazione della lega septimontium.

La leggenda degli Orazi prese questa forma senz’altro perché la tribù Horatia, nome di una gens patrizia, comprendeva sul proprio territorio il sito di Alba stessa.

domenica 19 aprile 2020

ora – hora


ora – hora

L’ora romana non era a ventiquattresima pale della giornata di ventiquattro ore bensì la dodicesima parte del giorno o la dodicesima parte della notte: vi erano infatti dodi­ci ore diurne e dodici notturne, in modo che l’ora non era un’u­nità fissa, ma variabile, in fun­zione dell’alba e del tramonto; l’ora diurna era uguale a quella notturna soltanto agli equinozi. Del resto, ai Romani non interessa­va in genere sapere l’ora esatta, benché possedessero orologi ; preferi­vano designare i vari momenti della giornata con termini più o meno precisi: mane (il mattino), ante meridiem (prima di mezzo­giorno, che corrispondeva alla settima ora), post meridiem (po­meriggio) e via dicendo. Le not­ti, negli accampamenti, erano divise in quattro veglie di tre ore”.

sabato 18 aprile 2020

Omen

Omen

Termine che significa forse, etimologicamente, «di­chiarazione di verità». 
L’omen, era un presagio e più precisa­mente una parola annunciatrice.

venerdì 17 aprile 2020

Inscriptiones latinae selectae di Hermann Dessau

Table of Contents

vol. I. Monumenta historica liberae rei publicae. Tituli imperatorum domusque imperatoriae. Tituli regum et principum nationum exterarum. Tutuli virorum et mulierum ordinis senatorii. Tituli virorum dignitatis equestris. Tituli procuratorum et ministrorum domus Augustæ condicionis libertinae et servilis. Tituli apparitorum et servorum publicorum. Tituli nonnulli ius civitatis illustrantes. Tiutli militares. Tituli virorum nonnullorum in litteris clarorum.
vol. II. pars 1. Tituli sacri et sacerdotum. Tituli pertinentes ad judos. Tituli operum locorumque publicorum, termini, tituli nonnulli aedificorum privatorum. Tituli municipales. pars 2. Tituli collegiorum. Tiuli ministrorum vitae privatae, opificum, artificum. Tituli sepulcrales. Tituli instrumenti domestici. Analecta varia. Appendix titulorum graecorum.
vol. III. pars I-II. Indices.

giovedì 16 aprile 2020

Oscines

Oscines, a Roma gli uccelli (corvo, cornacchia, civetta, picchio, gallo) dalla cui voce si traevano gli auspici.  

Oculista - ocularii, medici ab oculis

Oculista - ocularii, medici ab oculis

Pare che gli oculisti fos­sero numerosi e competenti, come dimostrano gli interventi che praticavano, tra cui la cata­ratta e l’esoftalmo. Come medi­cine usavano colliri a base di sostanze vegetali (mirra, zaffe­rano) o minerali, in forma liqui­da o più spesso solida (baston­cini, tavolette). Possedevano timbri (signa oculariorum) che permettevano loro d’indicare sui prodotti il loro nome, quello del collirio e le istruzioni per l’u­so, come questa ‘etichetta”:
collyrium C. Tittii amimetum ad suppurationes (collirio di C. Tu­tius inimitabile contro le suppu­razioni). I Romani ignoravano l’uso delle lenti correttive, ma qualche tentativo fu probabil­mente compiuto, se è in tal sen­so che dobbiamo interpretare l’abitudine di Nerone, che era miope, di servirsi di uno smeral­do concavo per osservare i combattimenti dell’anfiteatro . Ma non abbiamo nessuna cer­tezza in proposito.

mercoledì 15 aprile 2020

Coquus

Coquus

Il cuoco a Roma in origine prestava servizi nelle occasioni solenni; poi entrò a far parte del personale stabile delle case signorili, a capo dei servi fornacarii e focarii che badavano al focolare, opsonatores che facevano la spesa, culinarii che lo aiutavano in cucina. Se vi erano più cuochi il capo era detto con parola greca archimagirus.

martedì 14 aprile 2020

October Equus


October Equus

(Cavallo d’otto­bre). 

Sacrificio, d’un rito molto antico, che aveva luogo il 15 ottobre al Campo Marzio, durante le cerimonie di chiusura della stagione di guerra organizzate dai salii . Si svolgeva una cor­sa di carri tirati da due cavalli e poi si sacrificava il cavallo di destra del carro vittorioso, al quale era stata prima passata intorno al collo una collana di pane. La testa e la coda della vittima venivano portate in fret­ta alla regia, dimora del pontefi­ce massimo, sul foro, in mo­do da poterne spargere sul fo­colare il sangue che le vestali avrebbero conservato per i Pa­rilia, feste di pastori del mese d’aprile. Il sacrificio corrispondeva a riti agrari e guerrieri in­sieme.

lunedì 13 aprile 2020

damnatio memoriae - condanna della memoria


damnatio memoriae - condanna della memoria

Pena inflitta a chiunque venisse riconosciuto colpevole di lesa maestà nei confronti del popolo romano (crimen majestatis) e che consisteva nel vietare ai discendenti di portare il nome  del condannato e nel distruggere le sue immagini . In epoca imperiale il senato  poteva votare una damnatio memoriae postuma contro l’imperatore defunto. In seguito al voto le statue dell’imperatore condannato venivano distrutte, il suo nome sui monumenti cancellato e, teoricamente, gli atti da lui firmati erano nulli con effetto retroattivo. Caligola, Nerone, Domiziano, furono oggetto d’una damnatio memoriae. Alcuni, come Caracalla e Commodo, furono poi riabilitati. Il contrario della damnatio era l’apoteosi (consecratio), con la quale il senato divinizzava l’imperatore.

domenica 12 aprile 2020

curie - curiae

curie - curiae

Ripartizione delle tre tribù  primitive (Ramni, Tizi, Luceri), in numero di 30.
Questa cifra non aumentò. Secondo la tradizione, ogni curia avrebbe fornito, in epoca monarchica, cento fanti (centuri), dieci cavalieri (decuria) e dieci ‘padri’ al senato . Esse formarono la struttura della prima assemblea, i comizi curiati, Non si sa esattamente quando vi furono ammessi i plebei. Ogni curia aveva un culto proprio, del quale il sacerdote era il curione.

sabato 11 aprile 2020

imperium


imperium

(da impero, mobilizzare, comandare).
Questo termine esprime la potenza concessa al «capo» dagli dei. Tale nozione, forse d’origine etrusca acquisì carattere giuridico ed entrò nella definizione di alcune magistrature. I Romani furono indotti ad opporla ad un altro potere, d’essenza completamenie diversa, la potestas (da possum, potere).
La polestas era infatti una no­zione amministrativa ed indicava il potere di cui godeva un magistrato. Comprendeva: il diritto di trarre gli auspici, quello di promulgare le ordinanze, quello di infliggere le ammende, quello di convocare il popolo entro le mura della città per trasmettergli una comunicazione o per farlo deliberare e votare.
Le magistrature con potestas erano l’edilità, la questura, il tribunato e la censura.
L’imperium esprimeva invece la totalità dei poteri (civili, militari, giudiziari, religiosi) posseduti dal re e che, in età repubblicana, furono ripartiti tra consoli e prelori. Ma venne conservata l’efficacia divina.
Chi era rivestito dell’imperium aveva un potere sugli individui stessi (potere giudiziario a Roma, imperium domi, e potere militare al di fuori, imperium militiae). Esso si scomponeva cosi: diritto di trarre gli auspici a Roma e fuori, diritto di arruolare e comandare gli eserciti, diritto di giudicare civilmente e penalmente, diritto di coercizione, diritto di convocare e presiedere il senato, diritto di convocare e di far votare il popolo fuori Roma, nei comizi centuriati.
Possedevano l’imperium i consoli, i pretori ed eventualmente il dittatore. I littori e i fasci erano i segni visibili dell’imperium. Tuttavia i poteri dei magistrati che possedevano l’imperium furono limitati dal diritto di appello al popolo (provocatio ad populum), e dal diritto d’intercessione dei tribuni della plebe che, come l’imperium, pare fosse d’essenza religiosa. La creazione di promagistrature (proconsolato, propretura) comportò la creazione di nuove funzioni con imperium; ma, com’ era normale, fu prorogato solo l’imperium militiae.
In epoca imperiale l’imperatore rivestì un imperium superiore a quello dei magistrati (imperium maius), che non era limitato nel tempo nè nello spazio, ed era indipendente dalle magistrature cui era un tempo collegato. Gli veniva attribuito all’inizio del suo regno con la lex de imperio (legge curiata).



venerdì 10 aprile 2020

Mausolée romain d'Akbou / ( Ausium - Algérie Antique ) en danger de di...

Norico

Norico. 
Regione montuosa situata fra il Danubio, la Rezia, l’Italia, la Pannonia (oggi Stiria, Carinzia, Carniola). 
Fu abitata da popolazioni celtiche,   i Taurisci, riunite in un regno con capitale Noreia, sottomesso dai   Romani nel 16 a. c. 

giovedì 9 aprile 2020

nundine - nundinae

nundine 

(nundinae, da novem, nove, e dies, giorno). Le nundinae cadevano ogni nove giorni. In quei giorni si teneva il mercato ed i lavori quotidiani ordinari cessavano mentre avevano luogo alcune feste religiose.
Un intervallo di tre nundine si chiamava trinundinum: questo lasso di tempo era importante nel diritto pubblico e privato dell’epoca repubblicana. Era il termine legale che doveva trascorrere in un certo numero di casi precisi: fra la convocazione di un’assemblea e il voto; ira il deposito di un progetto di legge e la sua messa ai voti, e così via.

mercoledì 8 aprile 2020

Nume

Nume

Nozione religiosa di difficile definizione, che occupa un posto importante nella concezione romana del sacro. — numen poteva essere la volontà, la potenza agente, l’efficacia di un essere, di una cosa odi una divinità. L’universo tutto intero era considerato come una rete di dinamismi sacri, di numina, tanto che, ad ogni istante della vita, era necessario propiziarsi l’uno o l’altro. Ragione per cui, già appena nato, il Romano doveva badare a non offendere Cunina, protettrice della sua culla (cunae), Statulinus che lo avrebbe aiutato a tenersi in piedi (stare), e così via. Alcuni oggetti, certe piante rivelavano una presenza sacra, che era bene venerare: la foresta (Silvanus), la fonte (Fons), il limite di un campo (Terminus). In epoca imperiale si rendeva un culto al numen di Augusto, che dominava l‘umanità media. Quanto alle divinità personalizzate, venivano adorate tenendo conto dei differenti aspetti della loro potenza, che si manifestava in modo particolare secondo i casi: Juno Lucina, Moneta, Regina; Jupiter Capitolinus, Lapis, Fulgur; Venus Genitrix, Victrix.
In questi esempi si venerava un potere preciso della divinità, ma non era impossibile che questa
si fosse approppriata di nurnina che, originariamente, non di­pendevano da lei.
Si parlava anche, in generale, del nume di una divinità, senza designare questa o quella efficacia, ma la potenza globale che emanava normalmente da essa: numen Junonis, Jovis, Veneris. Da cui il senso di «divinità» che acquistò la parola in epoca imperiale. Ma anche in questo caso numen manteneva, rispetto a deus o dea (dio, dea), un’eco più sacra.

martedì 7 aprile 2020

Norma - Norba

Norma - Norba. 
Villaggio del Lazio, su un  colle dominante la  pianura Pontina,  poco lontano dalle  rovine dell’antica Norba, che sottomessa da Roma assai presto, la tradizione dice  nel 492, divenne  colonia latina.

lunedì 6 aprile 2020

dizionario da Viali a Volupia

Viali
Divinità minori del mito latino,
Alle quali era affidata la custodia delle strade più battute.

Vica Pota
divinità sabina che aveva qualche  affinità con la dea romana Vittoria, e vorrebbe dire     — come spiega Cicerone nel suo trattato “Intorno alle leggi — “quella che vince e conquista”
Divenne poi epiteto della dea Vittoria.

Virgilie
Epiteto spesso attribuito alle Atlantidi, le sette - secondo alcuni, quindici - figlie Atlante e di Climene.

Virginale
divinità che i Romani erano usi d’invocare quando si scioglieva ad una nuova sposa la cintura veriginale.

Viridiaca
Divinità latina, tutelare della pacifica convivenza fra i coniugi. Si invocava anche con l’appellativo di Viriplaca.

Virtus
Divinità del seguito di Marte, non la virtù nel significato attuale, bensì il valore in guerra, e fu quindi assimilata a Bellona. A Virtus e Honos era dedicato un tempio s Roma fuori della Porta Capena.

Vitula
divinità romana,   dispensatrice di allegrezza  e d’energia vitale.

Volturno
Dio romano che  presiedeva il corso del Tevere in particolare e dei fiumi in genere. Sarebbe stato il padre della ninfa Giuturna. 

 VOLUNNO e VOLUNNA
divinità minori, invocate durante le nozze.

VOLUPIA, o VOLUTTA’ 
figlia di Amore e Psiche, secondo una leggenda diffusa dal poeta africano Apuleio, vissuto  nel primo secolo dell’era cristiana.

domenica 5 aprile 2020

coorte

coorte

Fino al 1 sec. a. C. era l'unità tattica della fanteria degli alleati italici dei Romani. Nell'esercito romano la ccorte compare dopo riforma di Mario, che la sostituisce al manipolo, antica unità tattica ormai troppo debole; ogni coorte, che aveva da 300 ai 600 uomini, era composta da un manipolo di astati, uno di principi e uno di triarii e aveva sue proprie insegne; la legione era formata da 10 coorti. In epoca imperiale si parla di varie specie di coorti; quelle pretorie della guardia imperiale e le urbane, della guarnigione di Roma; quelle dei vigili o guardie del fuoco e di polizia; quelle delle legioni e quelle ausiliarie. Le ausiliarie erano reclutate fra i provinciali e gli alleati stranieri ed erano distinte da un nome, derivato dal popolo da cui erano state tratte, e da un numero.

sabato 4 aprile 2020

Voltumna

VOLTUMNA

principale divinità degli Etruschi venerata a Volsinii (Bolsena). Il suo culto fu introdotto a Roma da Tito Tazio, ma fu ufficialmente riconosciuto soltanto nel 264 a. C., allorchè i Romani distrussero Volsinii.  
A Roma assunse il nome di Vertunno, ma non sappiamo quali attributi e quale essenza avesse presso gli Etruschi. 

venerdì 3 aprile 2020

Noreia

Noreia.
Città celtica,   capitale dei Taurisci    nel Norico,  nelle cui vicinanze    nel 113 a. C. i Cimbri    sconfissero il console   romano Cn. Papirio Carbone.

giovedì 2 aprile 2020

Vittoria - Victoria

VITTORIA - VICTORIA 

A Roma la Vittoria fu vivamente venerata, dapprima come una manifestazione particolare di Giove, poi di Giunone e infine come divinità a sè stante; come tale finì per identificarsi con la greca Nike, della quale assunse anche la raffigurazione. Sia detto per inciso che la  figura di giovane alata della Vittoria influì sull’iconografia degli angeli cristiani.   

Alla Vittoria fu eretto  un tempio sul Palatino nel 294 a. C. In epoca imperiale, ogni imperatore si attribuì una Vittoria personale  (Victoria Augusti) che fu  uno degli elementi essenziali per la divinizzazione della  figura stessa dell’imperatore. La Vittoria finì per identificarsi col Sole (Sol Invictus).    

mercoledì 1 aprile 2020

Fascino - fàscinus e fàscinum

Fascino - fàscinus e fàscinum

Significa incantamento, malocchio e corrisponde al bàscanon greco: indica anche l'oggetto che preserva dal malocchio. Vi era in Roma un dio Fascino che difendeva dalle malie e il suo culto spettava alle Vestali.