Veria Sacra
Un rito antichissimo, che trova anch’esso certamente la sua origine nella
preistoria dei popoli e nelle vicende delle migrazioni dei gruppi etnici
primevi è quello del Ver Sacrum. la primavera sacra in cui i nati di un certo
anno sciamavano via dalla loro terra di origine, alla ricerca di nuove sedi. La
cerimonia riguardava le singole comunità nei loro complesso, cioè la tribù o
l’intero popolo, così come le entità statali formatesi sempre più compiutamente
nel tempo. Essa doveva tendere a risolvere, in origine, soprattutto il problema
della sopravvivenza nel caso di un eccessivo popolamento di un territorio e
riguardare perciò il distacco di interi nuclei famigliari e degli elementi più
giovani dall’aggruppamento principale.
Il rito consisteva nel promettere agli dei di consacrare ad essi tutti i
nati della primavera che doveva venire, piante, animali ed uomini: i vegetali
sarebbero stati offerti ai numi stessi e così a loro sacrificati gli animali,
mentre i figli (in quanto votati alla divinità non appartenevano più alla
comunità) una volta raggiunta l’età matura dovevano partire per trasferirsi in
altre regioni, fondando una colonia fuori dei confini della patria. Il
sacrificio stesso iniziale delle piante e degli animali era propiziatorio all’impresa
e certo coincideva anche con la dote utile ai bisogni dei partenti. Certo la
speranza che la migrazione apriva ad una soddisfazione migliore dell’esistenza
ed ad una più conveniente soluzione economica, doveva far concorrere ad essa
oltre che iniziative similari anche fattori diversi, come gli avvicendamenti
politici ed economici all’interno della comunità o quelli che premevano
dall’esterno così come le esigenze di sfogo degli elementi più esuberanti,
l’attivismo militare e quello commerciale.
Non dobbiamo poi pensare che queste migrazioni di popoli avvenissero con
movimenti di massa grandiosi, riguardanti simultaneamente migliaia e migliaia
di individui (sul tipo cioè delle migrazioni di età barbarica): il loro numero
infatti non era tale neppure all’origine, ed essendo poi gli stessi ceppi
etnici divisi nelle miriadi dei piccoli popoli e singole tribù autonomi gli uni
dagli altri, questi movimenti andavano indipendenti tra di loro, anche se una
concomitanza di cause poteva riguardare insieme più comunità ed avvicinare gli
stessi problemi nel tempo e nello spazio. Il numero di emigranti doveva andare
quindi in genere da alcune decine per volta, a non certo più di poche
centinaia: se però il loro singolo numero non era alto, esso poteva diventare
determinante al popolamento di massa di territori anche assai vasti se le
singole migrazioni si sommavano in gran numero sulla stessa direzione in un
arco di tempo non amplissimo. Nè dobbiamo immaginare che queste migrazioni
partissero allo stato brado, alla ventura, ma certo conducevano un’impresa ben
ordinata, sia pure nei limiti delle possibilità del tempo, verso luoghi più o
meno sperimentati per le possibilità che avevano di accogliere la migrazione
stessa.
Il rito del Ver Sacrum deve essere
stato molto praticato nell’ultima età del bronzo: gli stessi Aborigeni, secondo
la tradizione, sarebbero giunti nel Lazio seguendo un’analoga migrazione,
dietro la via loro tracciata dal sacro picchio (Picus), il protettore della
stirpe.
Ma la cerimonia peraltro era ancora in pieno uso non solo nelle prime fasi
dell’età del ferro, ma ancora in piena età storica tra i popoli italici
dell’arco appenninico. Tutte le tradizioni di queste genti sono rimaste legate
al ricordo di questi movimenti, che sarebbero derivati dal primitivo ceppo
sabino: i Sanniti migranti dietro la guida del toro sacro a Marte, i Piceni
pure essi dietro la guida del picchio, gli Irpini dietro quella del lupo, e
così parimenti tutte le altre genti della stessa derivazione, di cui tacevano
parte quei Volsci e quegli Equi che travaglieranno tutta la storia laziale
della fine del vi e del v secolo a.C., essendo essi venuti ad occupare tutta la
parte meridionale del Lazio primitivo.
Per quanto riguarda propriamente il Lazio
nell’età del bronzo finale e nella prima età del ferro, si è visto come
la stabile occupazione agricola del territorio, le immense possibilità
economiche della,sua pianura e la loro precoce urbanizzazione dovettero portare
per tempo ad una precisa definizione delle zone occupate dai rispettivi populi
e ad un primo consolidamento della situazione politica e topografica: quella
che appunto riconosciamo all’epoca che è sintetizzata nella mitica età di Alba
Longa.
Le migrazioni, in questo contesto interno, dovettero pertanto essere
limitate allo spostamento di piccoli gruppi di sbandati odi avventurieri. così
come la tradizione ricorda appunto la brigata di Romolo e Remo in occasione
della cosiddetta fondazione di Roma, Il Ver Sacrum dovette pertanto perdere per
tempo nel Lazio il suo significato originario e rimanere solo nel suo valore
rituale, strettamente religioso, usato come voto estremamente solenne dalle
singole comunità nel caso di una gravissima calamità: così come la conosciamo
ancora riesumata ad esempio nel travaglio della seconda guerra Punica da Roma
stessa: “quod ver attulerit ex suillo ovill caprino bovillo grege, quacque
profana erunt, Iovi fieri (ciò che nascerà in primavera da scrofa, pecora,
capra e bove, se non già sacri, saranno di Giove) (Liv. XXII, 10,3).
Ma se il Ver Sacrum, come fenomeno migratorio, non dovette interessare
sostanzialmente i Latini all’interno delle loro comunità territoriali, certo
invece esso in età protostorica dovette molto riguardarli per la costante
pressione che esercitavano sulla pingue pianura laziale le mire e le
aspirazioni dei popoli dell’interno: i Sabini soprattutto, dei quali la tradizione stessa ricorda la
lenta ma costante penetrazione, ed in particolare la piena sabinizzazione di
tutto il territorio compreso tra il Tevere e l’Aniene. Esemplificativo di
questo genere di penetrazione può essere tutta la migrazione della gens di
Attus Clausus dalla Sabina ad entro i confini dello stato romano negli anni a
cavallo del vi e del v secolo.