sabato 29 marzo 2008

gli ebrei non vennero esiliati dai romani

Corriere della Sera 29.3.08
La tesi di Shlomo Sand: è solo parte dell'ideologia nazionalista e sionista. «La diaspora? Convertiti». Polemiche e dibattiti, il libro è tra i più venduti
«L'esilio degli ebrei, un mito». Uno storico scuote Israele
di Davide Frattini

È come il sesso: non se ne parla davanti ai bambini. Cari colleghi, voi lasciate che i piccoli imparino falsità: è ora di parlare di sesso

GERUSALEMME — I bambini israeliani la imparano a memoria: «Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno e nel ripristino della sua libertà politica». È la Dichiarazione d'indipendenza, insegnata nelle scuole da quando David Ben-Gurion la firmò il 14 maggio di sessant'anni fa. Parole che un professore dell'università di Tel Aviv ha deciso di smontare come «mitologia nazionalista». Il suo saggio è entrato in due settimane nella classifica dei cinque più venduti, al primo posto tra i più discussi e criticati. In 297 pagine, Shlomo Sand sostiene che gli ebrei non vennero esiliati dai romani dopo la distruzione del Secondo tempio: gli ebrei della Diaspora sarebbero i discendenti di popolazioni locali convertite. Racconta la storia della regina berbera Dahia al-Kahina, che scelse la religione ebraica per sé e la sua tribù nordafricana, combattè gli assalti dei musulmani e dal Maghreb emigrò in Spagna per dare origine alla comunità. Gli ashkenaziti dell'Europa orientale deriverebbero invece dai rifugiati del regno cazaro, che si erano convertiti nell'ottavo secolo. «Il paradigma dell'esilio — spiega — serviva per costruire la storia del vagabondaggio tra mari e continenti, fino all'idea sionista che permise un'inversione a U e il ritorno alla terra d'origine». «È uno dei libri più affascinanti e stimolanti pubblicati in questo Paese da molto tempo», commenta lo storico Tom Segev. L'università di Tel Aviv ha organizzato un dibattito pubblico per affrontare le tesi controverse del saggio, intitolato «Quando e come il popolo ebraico venne inventato». Sand si è difeso dagli attacchi, che sono arrivati da destra e da sinistra. I professori di formazione marxista lo hanno accusato di ignorare la storia economica degli ebrei, gli altri docenti lo hanno bollato come antisionista. Dina Porat, storica dell'Olocausto, gli ha detto di aver completamente trascurato la realtà politica dopo la Shoah. Tutti lo hanno criticato per essere uscito dal suo campo e per non aver consultato le fonti originali, visto che insegna e studia la Storia del Ventesimo secolo, in particolare quella francese. Lui ha chiuso trattando di «sesso»: «I genitori non ne parlano davanti ai bambini. Aspettano che vadano a dormire. Cari colleghi, voi sapete quanto me che non c'è stato nessun esilio, ma lo sussurrate solo tra di voi. Voi lasciate che i bambini imparino falsità. È ora di parlare apertamente di sesso».
Come altri «nuovi storici» israeliani, Sand vuole erodere «le fondamenta del progetto sionista». Sa che il suo libro mette in discussione «il diritto storico a questa terra, alla legittimità del nostro essere qua». Non è si è fermato al 1948 o alla fine dell'Ottocento, è andato indietro migliaia di anni. Tenta di dimostrare che il popolo ebraico non ha avuto un'origine comune ed è un mix di gruppi che in varie fasi hanno adottato l'ebraismo: «Quella che si è diffusa nel mondo — spiega — è la religione, non la gente». Così i discendenti del regno di Giuda sarebbero piuttosto i palestinesi. «Nessuna popolazione rimane pura durante un periodo tanto lungo — commenta al quotidiano Haaretz — ma i palestinesi hanno più possibilità di me di essere imparentati con l'antico popolo ebraico».
Definisce «perverso» il dibattito israeliano sulle radici: «È etnocentrico, biologico e genetico». L'obiettivo del suo saggio è politico. Sand sostiene uno Stato binazionale, da dividere con i palestinesi, e dice di trovare difficile vivere in un Paese «che si definisce ebraico». «Per me è un paradosso. Uno Stato deve rappresentare tutti i suoi cittadini. I miti che riguardano il futuro sono meglio delle mitologie introverse del passato. Bisognerebbe ridurre i giorni di commemorazione e aggiungere cerimonie dedicate a quello che verrà».

venerdì 28 marzo 2008

La Battaglia di Zama

Zama, l’ultima battaglia

Era l’inizio del 202: Scipione si dispose a raggiungere Annibale, al quale era stato affidato il comando dell’esercito punico, verso Zama, a sud ovest di Cartagine.
Prima di scendere in campo, Annibale chiese di incontrarsi con Scipione, ed il drammatico colloquio fra i due nemici avvenne infatti: i due eserciti erano fermi a 5 km di distanza l’uno dall’altro; i due capi accompagnati ognuno da una piccola scorta, avanzarono e poi da soli, con un interprete, scesero da cavallo e si trovarono di fronte. Nessuno seppe mai che cosa Annibale e Scipione si siano detti. Polibio ha scritto che, dopo la proditoria rottura dell’armistizio, le condizioni poste da Roma erano assai pil’i gravi di quelle ratificate dal Senato romano; e di qui il « nulla di fatto » con cui si concluse il colloquio~ La mattina dopo i due eserciti si dettero battaglia. Secondo Appiano, Annibale disponeva di 50.000 uomini, veterani delle campagne d’Italia, mercenari galli e liguri assoldati da Mago-ne, cartaginesi e libici appena mobilitati. La fanteria era ph’i numerosa di quella romana, ma la cavalleria, 2.000 numidi e uno squadrone cartaginese, era inferiore e disponeva però di 80 elefanti. Annibale tentò con successivi assalti di sfondare la formazione romana al centro dove erano stati concentrati i legionari: prima gli elefanti, poi i diversi corpi di truppe cominciando da quelli meno agguerriti, mentre la vecchia guardia sarebbe intervenuta solo alla fine, per dare il colpo di grazia.
Scipione sventò abilmente questo piano: si premun~ contro~ l’urto degli elefanti sostituendo all’abituale ordine dei repar~ ti disposti a scacchiera, una formazione in colonne, separate da larghi corridoi nei quali furono lasciati penetrare i pachi-~ dermi per colpirli al ventre. La cavalleria romana avrebbe pri-,~ ma attaccato quella cartaginese, per convergere poi ed abbat-,~ tersi sul centro.
La battaglia ebbe due fasi: la prima in cui le ondate d’assalto~ puniche si spezzarono contro il muro delle legioni; nella secon
da, la cavalleria romana vittoriosa assalf alle spalle la falange cartaginesc, massacrandola.
Il genio militare di Annibale non rifulse a Zama, ma anche Scipione non ebbe alcuna audace innovazione tattica. Annibale si ritirò con pochi cavalieri ad Hadrumetum, dove aveva vasti possedimenti terrieri, e di li andò a Cartagine. Pochi giorni dopo Cartagine mandò da Scipione i suoi plenipotenziari ad implorare la pace e furono dettate queste condizioni: Cartagine sarebbe rimasta libera e senza presidi romani, amica anzi e alleata di Roma, ma avrebbe consegnato la flotta meno 10 triremi. Non avrebbe dovuto fare guerre in Africa senza il consenso di Roma, e mai fuori dell’Africa. Doveva pagare duecento talenti cuboici d’argento all’anno per cmquant’anni.
Cartagine accettò queste condizioni e il Senato di Roma le ratificò.
Scipione ebbe a Roma gli onori del trionfo, di cui gli rimase a perpetuo ricordo il cognome trionfale di « Africano » che egli allora assunse.
da "Annibale e L'oriente contro l'occidente", pag- 92-93
Cremonese, Roma, 1974,

mercoledì 26 marzo 2008

E Roma si divise sullo stile «alla greca»


Corriere della Sera 26.3.08
Le due civiltà. L'acculturamento dell'aristocrazia terriera. Non appoggiato da tutti
E Roma si divise sullo stile «alla greca»
di Eva Cantarella

La critica di Plinio: «Noi viaggiamo per strade e mari per vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi...»

Nel 167 a. C. Lucio Emilio Paolo, il conquistatore della Macedonia, «decise di visitare la Grecia — racconta Livio — per vedere quelle bellezze che erano state magnificate alle sue orecchie come superiori a quanto l'occhio umano potesse contemplare». I romani, ormai, avevano imparato ad apprezzare le opere d'arte greche, inizialmente ammirate come trofei di guerra. Al termine della seconda guerra punica, il generale Marco Claudio Marcello aveva fatto sfilare nelle strade della città, durante il trionfo, le opere d'arte trafugate nel 212 a.C. a Siracusa. In età precedente, scrive Strabone, i romani, «presi da cose più grandi e più necessarie, non avevano mai prestato attenzione alla bellezza». Ma poi le cose cambiarono. Tra il periodo tardo repubblicano e quello imperiale un numero crescente di opere greche giunse a Roma: nel 146 a.C., in un portico fatto costruire appositamente, vennero collocate le splendide statue di Lisippo raffiguranti Alessandro Magno e i suoi ufficiali morti nella battaglia di Granico. Altre opere vennero esposte in altri portici, nei templi, alle porte di questi, e con il tempo trovarono collocazione anche nelle abitazioni. Il collezionismo privato si diffuse al punto da preoccupare Cicerone: è ingiusto ed egoista, scrisse, segregare tante meraviglie, impedendone il godimento ai meno fortunati (evidentemente, in quel momento non pensava alla splendida collezione che conservava nella sua villa di Tuscolo). Roma non era più quella di un tempo, ma i romani non si accontentavano di quel che vedevano nella loro città: come Emilio Paolo, volevano visitare la Grecia, vedere l'Afrodite di Prassitele, Europa su Toro di Pitagora di Reggio, i dipinti del grande pittore Apelle. Secondo Plinio il Giovane il turismo culturale era diventata una moda per molti aspetti criticabile: «Noi viaggiamo per strade e mari per vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi... ». Ma la Grecia era diventata il luogo ideale e irrinunciabile della formazione culturale: da Cicerone a Cornelio Nipote, da Varrone a Lucullo, da Cesare a Virgilio, da Augusto a Orazio a Properzio, tutti gli intellettuali la visitavano. Ma non tutti i romani condividevano questo amore.
Dopo le guerre puniche, pur essendo divenuta una superpotenza mediterranea, Roma continuava a essere dominata da poche famiglie aristocratiche, la cui ricchezza era basata sulla proprietà terriera. Molti esponenti di questa nobiltà stentavano a staccarsi dall'orizzonte provinciale in cui erano nati i costumi dei loro antenati, educati alla guerra e temprati al sacrificio: l'arte, per questi nostalgici dei bei temi andati, era parte di una nuova cultura che rischiava di corrompere lo stile di vitache aveva fatto grande Roma. Il secondo secolo a.C. vide dunque un imponente scontro tra due opposte tendenze: da un lato i tradiziona-listi, il cui maggior esponente era Catone il Censore; dall'altro alcuni circoli della medesima nobiltà (celebre quello degli Scipioni), per i quali il confronto con le culture diverse, in particolare quella greca, era indispensabile perché Roma potesse svolgere il suo nuovo compito.
Evidentemente, la prima posizione era destinata alla sconfitta: l'influenza culturale greca, definita da Cicerone «un fiume impetuoso di civiltà e di dottrina» ebbe il sopravvento.
Graecia capta — scrisse Orazio — ferum victorem cepit: la Grecia conquistata conquistò il rude vincitore. I romani sapevano bene quanti fossero i loro debiti verso i greci.
Tutto era cambiato: le abitazioni, più ampie, aperte a giardini e paesaggi; i mobili, le suppellettili. Con lo stile abitativo erano cambiati lo stile di vita e i rapporti sociali: i nobili si scambiavano visite nelle loro ville sul golfo di Napoli o sulle colline attorno a Roma, offrivano banchetti luculliani, gareggiando in lusso. Il rinvio alla cultura greca era costante: a Pompei, sulle pareti della «Casa del Menandro» erano raffigurate le scene più celebri dell'Iliade; nella «Casa del Poeta Tragico» il sacrificio di Ifigenia era la copia di un quadro del celebre pittore greco Timante. Gli esempi potrebbero continuare, ovviamente. Ma, tutto ciò premesso, resta da dire che sarebbe sbagliato sia pensare ai romani, prima dell'incontro con i greci, come a un popolo assolutamente incolto, sia pensare alla cultura della Roma ellenizzata come a una cultura priva di ogni originalità. I debiti dall'esterno vengono sempre elaborati, sino a diventare, a volte, rielaborazioni creative. Per limitarci alla pittura: fu a Roma, e non in Grecia, che nacque il ritratto. La cultura romana, certamente conquistata dai greci, ci riconduce a una Grecia vista dai romani, vale a dire vista da una cultura diversa, certamente eclettica, ma comunque romana.

giovedì 20 marzo 2008

ROMOLO e REMO Perché una civiltà si fonda sul mito

ANDREA CARANDINI

ROMOLO e REMO Perché una civiltà si fonda sul mito

VENERDÌ 23 NOVEMBRE 2007 DIARIO DI REPUBBLICA
Quando penso a miti come quello di Roma riconosco l’infinita potenza della finzione creduta vera e della verità riplasmata, che nulla hanno che fare con la contraffazione, trattandosi di manipolazioni che partono da una realtà per conferirle stabilità, assolutezza e capacità di coinvolgimento. Non è immaginabile il Cristianesimo fuori dalla credenza in un uomo anche dio, figlio di un padre divino e di una vergine. Per l’uomo secolarizzato e lo storico non è tanto importante che un seme sia stato trasferito, tramite uno spirito, dalla divinità nel seno di Maria, quanto che quella novella abbia trasformato una parte decisiva del mondo rifondandone i valori. Così anche Roma, una città-stato divenuta un impero, non è pensabile senza Romolo, semidivino e divinizzato in Quirino, figlio di Marte e della vergine Rea Silvia - principessa di Alba Longa - tanto che nel passaggio all’impero Augusto ha voluto assimilarsi al fondatore. Infatti ‘augusto’ significa l’inaugurato, il benedetto da Giove, come lo era stato il primo re della città. E come Romolo è figlio di Marte, così Augusto si fa passare per figlio di Apollo. E Augusto costruisce il suo palazzo davanti alla capanna di Romolo e probabilmente sopra al Lupercale, dove il fondatore era stato salvato dall’esposizione, nutrito da antenati in forma di animali - il picchio e la lupa - perché potesse fondare Roma. È come se per creare qualcosa di grande, duraturo e caro agli dei servisse un essere più che umano, un eroe. Un eroe è definito da una vita composta a patchwork di motivi mitici, come quelle di Teseo, pensando ad Atene, e di Romolo, pensando a Roma. I temi del repertorio eroico sono pochi ma conoscono infinite varianti, come gli schemi delle favole studiati da Propp. Ma il Propp dei miti classici deve ancora venire, anche se ha avuto un precursore in Angelo Brelich, uno dei nostri giganti dimenticati, perché accusato a suo tempo - un tempo stupido - di ‘irrazionalismo’. La leggenda di Remo e Romolo, che stiamo pubblicando e analizzando (Fondazione Valla, Mondadori 2006 e seguenti) è una stratigrafia plurisecolare, il cui livello più antico risale probabilmente alla seconda metà dell’VIII secolo a. C. o poco dopo. Si tratta di un insieme di motivi mitici e di imprese autentici, confermati da elementi esterni alla tradizione quali la storia delle religioni, la linguistica e l’archeologia. Gli annalisti, antiquari e poeti che hanno tramandato la leggenda sono vissuti tra il II secolo a. C. e Augusto, tardi rispetto alle origini che raccontano, ma i materiali di cui si avvalgono fanno parte della memoria culturale dei Romani, patrimonio di una aristocrazia che sprofonda nel tempo, che sovente non ha molto a che fare con l’epoca in cui quei letterati sono vissuti: più che creatori originali sono stati trasbordatori di ricordi codificati, salvo gli apporti tardi riconoscibili. Del nucleo autentico della leggenda fanno parte alcuni temi mitici - come la nascita e l’allattamento miracolosi, la fondazione della città dal nulla - che sono strutture mentali messe in opera da principio e che non hanno più smesso di operare, ma che non hanno riscontro nella realtà effettuale. Infatti aveva preceduto Roma il Septimontium(secondo gli antiquari) o il ‘centro protourbano’ (secondo gli archeologi) e il primo re della città non era stato allattato da una lupa, ma gli era riuscito di farlo credere, che è quanto importa. Al contrario il ruolo di Alba Longa nella leggenda è reale e deve precedere il cuore del VII secolo a. C., quando quella metropoli annalisticamente e archeologicamente scompare e ha inizio la fortuna di Lavinio. Anche le imprese di Romolo sono terrene, realistiche e trovano riscontro nei monumenti. Ad esempio, dal 775- 750 a. C. il Palatino - narrato come benedetto e protetto da un murus - appare circondato da mura, le cui porte sono state riproposte fino all’età di Nerone. Analogamente il Santuario principale del Foro, quello di Vesta - ospitante i culti regi e la dimora dei primi re - restituisce dal 750 a. C. circa attestazioni archeologiche clamorose (si veda il mio Roma. Il primo giorno, Laterza, 2007). Quindi è storicamente esistita una cittadella regia sul Palatino e un centro religioso e politico della città tra Foro e Campidoglio, che presuppongono un’autorità centrale potente: quella del rex-augur che nel corso di una vita ha creato la città, per cui si tratta della ‘fondazione’ di uno stato e non di una lenta ‘formazione’. Per capire le origini delle civiltà bisogna conoscere i miti del giorno d’oggi - come quello dell’eternità della civiltà borghese, descritto da Barthes - e liberarsi dall’assolutismo razionalistico. È questione di entrare nella selva del vero, del finto e del falso, ricordandoci che prima viene il vero e il finto mentre il falso si aggiunge dopo, quando la coscienza mitica collettiva si affievolisce e prevalgono le contraffazioni di gruppo. Pochi sono gli storici che hanno fatto una tale esperienza. Ho voluto invece sottopormi all’iniziazione di una comunità che vive ancora nell’oceano dei miti, quella di Kitawa in Melanesia, studiata da Giancarlo Scoditti (Bollati Boringhieri, 2003). Studiare Buddha - altra nascita miracolosa - e Romolo - anche lui riformatore di un politeismo più antico - serve a capire che nulla di duraturo e legante si può fondare se non interviene una logica altra rispetto a quella aristotelica, capace di piantare nella coscienza punti fermi in grado di eternizzare eventi fondamentali. Un unico mito divino i primi Romani non hanno potuto cancellare - la riforma romulea è consistita appunto nella ‘demitizzazione’ -, quello di Marte fecondatore di Rea Silvia, perché se Romolo non fosse stato figlio di un dio non avrebbe potuto istituire la città-stato e il suo ordinamento. La Rivoluzione francese è il nostro mito fondatore: Luigi XVI doveva morire per arrivare a una monarchia costituzionale; come Remo è morto per la stessa ragione. E anche i valori della rivoluzione sono stati eternizzati, e infatti perdurano oltre la classe sociale che li ha voluti. Roma è il luogo dove la memoria si è più conservata - è meglio conosciuta di Atene - per cui costituisce la palestra ideale per cimentarci nell’intendere opere e azioni umane, a partire da quelle sottratte all’usura del tempo, che si radicano nell’arcaismo tramontato e in quello ancora operante in noi. E mentre sopravvivono le lamentele degli studiosi ipercritici, che ripetono che nulla si può sapere della prima Roma, il sottosuolo restituisce flutti di nuove informazioni che risalgono all’età del Bronzo. Ricomporre distinguendo e raccordando questa immensa congerie è il compito di noi archeologi. Può esserci un mestiere più affascinante? Quando stanchi e frustrati dalla vita quotidiana ci soffermiamo sulla ‘mitistoria’, che è poi una storia integralmente intesa, è come se ci rigenerassimo, riprendendo la vita nella sua ampiezza, fatta di libertà ma anche di identità. Se i giovani accorrono all’Auditorium o al Colosseo per ascoltare ricerche storiche in diretta non è forse per arricchire vite banali che vorrebbero la grandezza?

DALLA ROMA DEI PASTORI ALLA PATRIA DEL DIRITTO

ALDO SCHIAVONE

DALLA ROMA DEI PASTORI ALLA PATRIA DEL DIRITTO

VENERDÌ 23 NOVEMBRE 2007 DIARIO DI REPUBBLICA
Intorno alle origini di Roma si è svolta una delle più appassionanti discussioni storiografiche dell’intera cultura moderna, in cui si sono riflesse le idee e le tendenze di intere epoche, molto al di là della sola ricerca storica. È da oltre due secoli che ci tormentiamo su quanto accadde esattamente fra decimo e settimo secolo a. C. in quella piccola zona del Lazio non lontana dal mare, individuata da una breve catena di colli sovrastanti un’ansa del Tevere, in mezzo a boschi, paludi, capanne e piccoli campi coltivati, dove la presenza di una minuscola isola rendeva il fiume più facilmente attraversabile, trasformandolo in uno snodo di incontri, di empori, di santuari. Gli inizi di questo dibattito sono ormai lontani, ma non per questo meno importanti: già l’aspra polemica di Hegel con Niebhur, nei primi decenni dell’Ottocento, investiva in pieno l’arcaicità romana, e anticipava motivi e temi con i quali da allora in poi non abbiamo più smesso di misurarci. E sta di fatto che il Novecento, aperto nel segno di un radicale scetticismo di matrice positivista verso i racconti e le cronologie dalla tradizione antica, a cominciare da quello stesso su Romolo, giudicati come un accumulo di implausibili leggende, e che aveva giustificato una critica delle fonti - di Cicerone, di Livio, di Dionisio, di Plutarco - irrimediabilmente incredula nei confronti di qualunque immagine da loro proposta della nascita di Roma, si è concluso invece nella generale ammissione che quelle narrazioni non ci restituiscono sconclusionate messe in scena, ma sequenze di vicende e di figure da considerare con molta attenzione, se non proprio con tranquilla fiducia. Un capovolgimento che ha implicato un’autentica rivoluzione metodologica, e un cambiamento nell’idea stessa di cosi significhi scrivere storia. Al centro di questo mutamento di paradigma è stata senza dubbio la nuova archeologia stratigrafica, e, accanto, le nuove ricerche di storia linguistica, religiosa, giuridica, audacemente sospese fra terra, parole e riti, che si sono sforzate di decifrare ogni più piccola traccia, ogni frammento di pietra o di lessico, in una tensione dove la tecnica di scavo e l’analisi indiziaria aspiravano a farsi, da sole, metafora completa del mestiere di storico, proiettate verso epoche sempre più remote, quasi ai confini del tempo profondo. Roma è la città del Mediterraneo antico che ha conservato nell’età più matura il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. E non a caso. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria; aveva bisogno di un adeguato retroterra mitico e storico per dare profondità di campo alla propria attuale grandezza. Ma nel contesto culturale della prima Roma, nella sua archeologia mentale potremmo dire, al posto di quella imponente fantasia mitologica e cosmogonica da cui poi sarebbe nato, in Grecia e nella Ionia, il primo autentico sapere speculativo dell’Occidente, ci troviamo invece di fronte a qualcosa di assai diverso. A una trasfigurazione della realtà in cui l’invenzione teologica e l’immaginazione animistica erano totalmente dominate dall’ideazione e dalla messa in scena di una invasiva cascata di rituali, che, appena formulati, acquistavano un’oggettività alienata e irrevocabile, secondo una proiezione propria a molte culture, anche mediterranee: schiacciavano le menti stesse che li avevano elaborati. Il loro rispetto risultava però ampiamente remunerativo: era un’osservanza che dava fiducia ed equilibrio a una comunità circondata di pericoli e di nemici - Latini, Sabini, Etruschi - insieme minacciata e aperta, un crocevia precariamente multietnico, fragile e a rischio; una città nei cui abitanti si agitava un cupo fondo di terrori e di visioni notturne (ancora nelle XII Tavole le pene si inasprivano, se i crimini erano commessi di notte), alimentato non meno da ricordi di violenze, incantesimi, sangue, che da un presente obiettivamente incerto e difficile. Questa specie di sbilanciamento ritualistico si avvicinava molto a una vera sindrome prescrittiva, del tutto assente nella Grecia arcaica. La realtà veniva sminuzzata con un’analiticità quasi febbrile - secoli dopo ancora ben chiara a Varrone - nel tentativo di proteggere ogni minima funzione della vita quotidiana di quei contadini quasi perennemente in armi, attraverso l’invenzione di un dio a essa preposta, e di un rituale in grado di chetarne la sempre imminente ira. Su questa base si sarebbe poi formata tutta una trama di abitudini cerimoniali, a metà strada fra il divino e l’umano, in cui consiste il primo ‘ius’ - misterioso monosillabo, senza eguali in qualunque altra lingua antica, il cui significato più remoto non corrisponde se non per vaga e retrospettiva assimilazione a ciò che noi (e gli stessi Romani più tardi) avremmo inteso con ‘diritto’: la mano che prende e che dà, il bastone che afferma il potere o il passo indietro che lo cede; la parola che pronuncia il giuramento (ius iurandum, ‘la formula da formulare’), o crea l’obbligo verso il proprio eguale. Sul versante della religione, questa complessa armatura formulaica, dissociata sin dall’inizio dalla percezione di qualunque interiorità, avrebbe finito ben presto con il fossilizzarsi, trasformandosi in un corpo morto e freddo, staccato da qualunque forma di sensibilità popolare. Ma la presenza della stessa impronta avrebbe avuto un esito del tutto diverso nelle vicende del ius, come del resto l’avrebbe avuta, in un diverso contesto, nella religione dell’antico Israele, dove possiamo ritrovare una sindrome prescrittiva non lontana da quella romana. In questo senso, le due vicende sono in certo modo speculari. Nel caso di Israele, la forza evolutiva si sarebbe sviluppata tutta dal lato di una religiosità attraversata dalla morale, e una cultura giuridica autonoma non sarebbe mai nata, soffocata dall’invasività della teologia monoteista (il ‘non avrai altro Dio’ di cui parla Jan Assmann), a Roma invece lo sviluppo si sarebbe concentrato per intero dalla parte di un disciplinamento sociale sempre più laico (e che ora possiamo definire propriamente ‘giuridico’) - l’autentico logos della romanità - fino a determinare, nel primo secolo a. C., la svolta della nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma questa straordinaria invenzione, con tutta la potenza del suo formalismo concettuale - un carattere indelebile della nostra civiltà - porta scritto per mille segni sulla propria fronte i tratti della sua genesi più remota.

Vivere con i miti. L’iconografia dei sarcofagi romani

A partire dal Medioevo i sarcofagi romani hanno affascinato la posterità soprattutto per il contentuto mitologico dei loro rilievi. Le classi dominanti hanno trasformato le arche di marmo in sontuose sepolture, così da potersi in qualche modo ammantare dell’aura dell’antica Roma. Gli artisti del Rinascimento hanno impiegato i rilievi come repertorio per una gestualità dal grande impatto emotivo. L’indagine sul loro significato portata avanti dagli antiquari e dai ricercatori rappresenta poi un capitolo a sé, di grande interesse. Se i simbolisti con tendenze misticheggianti hanno interpretato queste immagini come testimonianze di una profonda fede nell’aldilà da parte degli antichi, i positivisti, al contrario, vi hanno scorto soprattutto un riflesso di capolavori perduti della grecità e materiali per lo studio della mitografia. Oggi sono gli specialisti a occuparsi di questo multiforme universo iconografico. Lo scopo di questo volume è quello di far conoscere i rilievi dei sarcofagi a un pubblico più ampio, mostrando soprattutto quale fosse il ruolo centrale dell’iconografia mitica nell’esistenza dei contemporanei, quale messaggio quelle immagini comunicassero a chi visitava le sepolture, quale rappresentazione di sé, quale concezione della felicità e del piacere. Del resto le riproduzioni, realizzate in parte espressamente per questo volume, esaltando l’alta qualità artistica di questi rilievi, inducono a riflettere sul senso della rappresentazione e invitano al godimento dell’opera d’arte. Il testo offre, accanto a un’introduzione sistematica al significato delle immagini, un’analisi di alcuni sarcofagi, con una lettura dettagliata dei rispettivi miti e della loro iconografia.
— Bollati Boringhieri Editore - Vivere con i miti. L’iconografia dei sarcofagi romani -Zanker Paul; Ewald Björn C.

MOSTRE: A FIRENZE I GIOCHI DELL’ANTICHITA’ GRECA E ROMANA

Firenze, 1 feb. - (Adnkronos) - Un viaggio attraverso la rappresentazione della vita dei bambini e dei loro giochi nell’Antichita’, in particolare Greci e Romani. Questo propone la mostra “Ludus in fabula. Giochi e immagini nell’Antichita’”, organizzata dal Museo Archeologico Nazionale di Firenze con la collaborazione dell’Istituto degli Innocenti, e visitabile da domenica 3 febbraio al Museo Archeologico di Firenze, dove restera’ aperta fino al prossimo giugno. Il percorso guidera’ lo spettatore tra reperti rari, poesie, testi antichi dedicati ai giochi e colleghera’ idealmente e materialmente il Museo all’ Istituto degli Innocenti dove, all’ingresso, sara’ infatti esposto un piccolo Herakles in bronzo di epoca romana ritratto mentre compie la sua prima impresa da bambino prodigioso: strangolare i serpenti mandati a ucciderlo in culla. I reperti in mostra - una novantina circa - arrivano, per la maggior parte, dalle ricche Collezioni Medicee del Museo Archeologico e a questi si aggiungono altri provenienti dal Museo Archeologico di Chiusi e dal Cantiere delle Navi Antiche di Pisa. Tanti ed emozionanti i temi della mostra: dalle statuette dedicate da giovani madri alle divinita’ per chiedere assistenza nel delicato momento del parto, agli ex voto per ringraziare del bimbo nato sano, ai “sonagli” in terracotta per i neonati, fino ai giocattoli che accompagnavano i bambini nel difficile passaggio all’età adulta
— Adnkronos - Ign - MOSTRE: A FIRENZE I GIOCHI DELL’ANTICHITA’ GRECA E ROMANA

Contro il passato armati di piccone

Andrea Giardina, André Vauchez
Il mito di Roma
Da Carlo Magno a Mussolini
Laterza
Il Sole - 24 ore - domenica 5 novembre 2000
Contro il passato armati di piccone

Se – per caso o per follia – fosse stato costruito, con le sue colonne e travi di vetro, con i suoi muri alti e stretti intarsiati di oscure lapidi e tenebrosi rilievi, oggi attirerebbe a Roma altrettanti visitatori della vicina Domus Aurea di Nerone. Sarebbe dovuto sorgere ai margini dei Fori, infatti, il Danteum, lo stravagante omaggio al «massimo poeta degli italiani» che il direttore della milanese Accademia di Brera nel 1938 aveva proposto di edificare a Roma in vista dell’Esposizione del 1942. Progettato dal più geniale architetto razionalista italiano – Giuseppe Terragni – insieme al suo socio e amico Pietro Lingeri, l’edificio si proponeva di tradurre in un enigmatico labirinto di pietra la profezia imperiale di Dante inscenandone la complessa architettura del viaggio dal Purgatorio al Paradiso sino alla grande sala dedicata alla rinascita del nuovo Impero Romano: «L’Impero Universale e Romano – si leggeva infatti nella relazione consegnata a Mussolini il 10 novembre 1938 – quale fu intravisto e preconizzato da Dante è lo scopo ultimo e l’unico rimedio per salvare dal disordine e dalla corruzione l’umanità e la Chiesa».

Raffigurata da Sironi nelle squadrate fattezze del «Veltro», l’allegoria del Duce come regista della renovatio urbis ricondotta alla sua “naturale” vocazione di caput mundi, rappresentava il coup de théâtre di un percorso iniziatico dentro una macchina del tempo paradossalmente sospesa, tuttavia, nell’universo astratto e congelato di uno spazio senza coordinate reali, dove la politica trascolorava nell’estetica e la storia nel mito. A rendere ancor più significativa questa allucinata «camera della memoria» contribuiva inoltre la sua collocazione lungo via dell’Impero (l’attuale via dei Fori Imperiali); avendo proprio di fronte l’imponente rudere della Basilica di Massenzio, a due passi dalle perfetta ellisse del Colosseo, il Danteum sarebbe stata la prova della capacità dell’architettura italiana di misurarsi con il fantasma dell’antico, non già riproponendone fattezze e stilemi, ma reincarnandone spirito, audacia e grandiosità. Naufragato, al pari della Terza Roma dell’Eur, nei drammi della guerra, il Danteum fu forse l’espressione più determinata e allucinata di quella fascinazione classica che l’architettura, al pari della pittura, della scultura e della letteratura, per tutto il corso del famigerato ventennio espresse nel culto “moderno” dell’immagine di Roma e su cui il Regime aveva puntato con l’adozione di un’iconografia tanto complessa quanto d’effetto nella sua suggestione di massa. Dall’“invenzione” dei fasci littori alla “rivoluzione” del “passo romano”, dall’istituzione del Natale di Roma (1923) alle celebrazioni dei bimillenari virgiliano (1930), oraziano (1935) e augusteo (1937), dalle innovazioni della toponomastica all’impulso dato all’attività costruttiva e alla fondazione di nuove città (Mussolinia, Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, eccetera), il messaggio del «carattere epocale del regime intriso di romanità» si concretava così nella sistematica occupazione fascista del tempo e dello spazio. «Celebrando dopo duemila anni le grandi figure della cultura e della politica romane, il regime – scrive Andrea Giardina – valorizzava le simmetrie e le analogie tra il presente e il passato e conferiva un carattere di eternità alla propria opera».

Non si trattava quindi di un’operazione nostalgica ma di un preciso progetto di «estetizzazione» della politica lanciata all’«assalto della storia»: obiettivo finale era la creazione di un “ordine nuovo” e di un “uomo nuovo”, in parte legato al passato remoto delle sue origini romane, in parte originale creatura proiettata nel futuro. Per spiegare l’apparente contraddizione di una rivoluzione che si proponeva come revival, bisogna infatti ricordare con Emilio Gentile che «il mito per la cultura fascista non era una forma mentale confinabile nel mondo arcaico o in uno stadio primitivo della mentalità, ma era una forma strutturale del pensiero umano, quale si esprimeva soprattutto nelle creazioni artistiche e nei movimenti religiosi, ma in forma altrettanto rilevante nel mondo della politica». Il che aiuta a comprendere il consenso che artisti e architetti tributarono all’immagine del Duce come motore di una modernizzazione che poneva l’espressione artistica al centro di un programma di educazione estetica delle masse: «Il carattere non pedante e non erudito del rapporto tra il fascismo e la romanità», spiega Giardina, fu più volte ribadito sia da Mussolini che da Bottai e «il senso fascista della romanità prescindeva dai libri, perché era soprattutto azione e intuizione».

Fu certo questo carattere, per così dire, operativo che attrasse le frange più audaci della giovane architettura italiana e le mire dello stesso Le Corbusier ansioso di accreditarsi presso lo stesso Mussolini come possibile protagonista dell’attiva politica urbanistica del Regime. E se questa, secondo Giardina, si espresse nella «vocazione intimidatoria» del cosiddetto «piccone demolitore», non va dimenticato come le sue caratteristiche principali e financo la sua impostazione metodologico-disciplinare derivavano a loro volta dalla tradizione Sette-Ottocentesca dell’igienismo sociale quale si era espresso nelle utopie di Ledoux, ad esempio, o nella Parigi di Haussmann. L’averle bagnate nelle acque del Tevere fu allo stesso tempo un calcolo politico e un proponimento culturale. rispondendo all’esigenza del Regime di sottolineare l’originalità endogena della “via italiana” e a quella del razionalismo nostrano di rivendicare la classicità come caratterizzazione italiana della vocazione globalizzante del funzionalismo nordico.

Fulvio Irace

venerdì 14 marzo 2008

La battaglia del Frigido (5-6 settembre 394)

Alberto Magnani
La battaglia del Frigido (5-6 settembre 394)

Da Rid-Rivista Italiana Difesa, agosto 2001, pagina 94-97

La battaglia del Frigido appartiene a quel gruppo di avvenimenti che si prestano a divenire punto di riferimento per indicare il trapasso dal mondo antico alla Tarda Antichità o al Medioevo.

In due giorni, il 5 e il 6 settembre 394, l’imperatore cattolico Teodosio, alla testa dell’esercito romano-orientale, sconfisse le forze dell’Impero d’Occidente, guidate dall’imperatore pagano Flavio Eugenio e dal suo generale Arbogaste. Per l’ultima volta un esercito romano si batté sotto le insegne di Giove, e fu vinto: da allora si può dire che sia stata decretata la fine del paganesimo. L’importanza dello scontro dal punto di vista politico-religioso ne ha offuscato i notevoli aspetti di interesse sul piano militare. Le fonti antiche, in particolare Rufino e Paolo Orosio, interpretano la dinamica dei fatti secondo una visione provvidenzialistica: Dio volle la vittoria dei cristiani e li sottrasse alla disfatta scatenando una tormenta di bora contro i soldati pagani. Questa interpretazione non aiuta a capire le scelte tattiche di Teodosio, che apparirebbero del tutto assurde. Per una descrizione in cui riemergano le competenze militari del celebre imperatore, ci si deve rivolgere a Zosimo, fonte che, peraltro, gli è personalmente ostile. Chiunque si accinga a una ricostruzione dei fatti non può comunque esimersi da un sopralluogo sul teatro della battaglia per rendersi pienamente conto di come la conformazione del luogo faccia del Frigido uno dei più singolari scontri terrestri della storia romana.

I presupposti della battaglia

Dopo la disastrosa disfatta di Adrianopoli. nella quale i Romani furono sconfitti dai Goti e cadde lo stesso imperatore Valente (378), Graziano, che governava l’Occidente, rimase unico padrone dell’Impero.
Tuttavia nominò immediatamente un collega cui affidare l’Oriente e lo scelse nella persona del trentenne Teodosio. Questi raggiunse un accordo con i Goti, accettando la realtà di fatto di un loro insediamento sul territorio romano e ottenendo, in cambio, la disponibilità a fornirgli contingenti di truppe.
Teodosio ebbe modo di avvalersi dell’aiuto militare goto dapprima nella guerra contro l’usurpatore Magno Massimo, che si era impadronito dell’Occidente dopo la morte di Graziano (383), quindi contro gli autori della “rivoluzione pagana” del 392. La caratterizzazione ormai accentuatamente cattolica dell’impero aveva infatti provocato una vivace reazione in estesi settori del Senato di Roma, legati alle tradizioni pagane. I nostalgici raggiunsero un’intesa con un potente generale di origine franca, Arbogaste: nel maggio del 392 l’imperatore d’Occidente Valentiniano Il, fratello minore di Graziano, fu eliminato e sostituito da Flavio Eugenio, un intellettuale vicino ai circoli pagani. Arbogaste divenne l’uomo forte della situazione, lasciando ampia facoltà al Senato di adottare una politica anticattolica. Abortito un tentativo di trattativa, nell’estate del 394 Teodosio mosse da Costantinopoli verso l’italia alla testa delle proprie truppe. A loro volta, Eugenio e Arbogaste mobilitarono le forze disponibili e marciarono in direzione dell’Istria. Lo scontro avvenne a metà del tratto di strada militare che collegava Aquileia ad Emona (Lubiana), nell’attuale Slovenia.

Le forze in campo

L’esercito occidentale era comandato da Arbogaste in quanto Eugenio, ex funzionario di Stato ed ex insegnante nelle scuole di retorica, non aveva competenze militari e, di fronte alle truppe, svolgeva un ruolo puramente simbolico. A! contrario, Arbogaste era un ottimo generale: ufficiale agli ordini di Graziano, prima, poi dello stesso Teodosio, aveva avuto parte nella sconfitta di Magno Massimo e individuato con lucidità gli errori di quest’ultimo. Massimo, infatti, aveva sottovalutato l’importanza strategica dei Claustra Alpium Juliarum, il complesso difensivo creato a nord-est dell’Italia a partire dal III secolo. Lasciando sguarnite le fortificazioni di quel settore, aveva infatti agevolato l’ingresso in Italia dell’avversario, finendo con il trovarsi rinchiuso e assediato dentro le mura di Aquileia. Arbogaste badò bene ad assicurarsi il controllo dei Claustra, elaborando un piano per intrappolare Teodosio tra i valichi alpini.
Da parte sua, Teodosio era un comandante altrettanto esperto, pur non essendo al meglio delle proprie facoltà: non godeva, infatti, di ottima salute ed era moralmente provato dalla scomparsa della giovanissima moglie, Galla, morta di parto insieme al bambino che portava in grembo all’inizio del 394. il lutto aveva provocato un rinvio della spedizione, regalando tempo prezioso ad Arbogaste. Ciascuno dei due eserciti poteva schierare diverse migliaia di uomini. Teodosio aveva ricevuto dai Goti un contingente che, secondo alcune fonti, comprendeva ventimila uomini, posti agli ordini di Gainas. Questi svolgeva funzioni di ufficiale di collegamento tra Io Stato Maggiore romano e il contingente goto, che conservava il proprio capo nazionale: probabilmente Alarico, futuro avversario dei Romani. Marciavano con i Goti reparti di Alani, che costituivano un corpo specializzato di arcieri a cavallo, agli ordini di un ufficiale di nome Saul, e le truppe regolari romane. L’Imperatore aveva nominato Timasio capo del proprio Stato Maggiore, in cui figuravano Bacurio - uno dei pochi ufficiali scampati al disastro di Adrianopoli - e Stilicone, destinato a svolgere un ruolo politico-militare determinante negli anni successivi. Da parte sua Arbogaste aveva arruolato soldati soprattutto in Gallia, ottenendo truppe dagli alleati Franchi. Si trattava, dunque, di eserciti tipici del tardo Impero Romano, caratterizzati da un ruolo significativo degli ausiliari barbari e dall’impiego tattico della fanteria leggera. Legionari romani e guerrieri barbari, del resto, tendevano sempre più ad assomigliarsi: dopo la riforma militare di Costantino, le corazze andavano scomparendo e il cuoio prendeva il posto delle piastre metalliche, I barbari, da parte loro, adottavano spade ed elmi di foggia o fabbncazione romana.

La dinamica dello scontro

Ai primi di settembre deI 394, l’esercito di Teodosio giunse in prossimità dei Claustra Alpium Juliarum. Il tratto di strada che si preparò a forzare si trovava a sud di Emona e si articolava sulle due piazzaforti di Nauportus (attuale Vrhnika) e Castra ad fluvium Frigidum (Ajdovscina): per raggiungere la seconda e quindi puntare sulla pianura friulana attraverso la Valle del Vipacco, era necessario oltrepassare un valico presidiato dalla fortezza di Castrum ad Pirum (Hrusica), posta a circa ottocento metri di altitudine. Teodosio la raggiunse - pare -senza incontrare difficoltà: ma ciò corrispondeva al piano di Arbogaste che, intanto, aveva occupato Castra ad Frigidum e sbarra- Castra to la Valle del Vipacco. Teodosio, a quel punto, era imbottigliato a Castrum ad Pirum, in una situazione critica. Come srive Paolo Orosio: “bloccato sulle vette delle Alpi, non poteva ricevere rifornimenti né rimanere a lungo sulle sue posizioni”. Per proseguire, avrebbe dovuto condurrre un atttacc contro avversario saldamente attestao settecento metri più in basso, lanciando i propri uomini alla disperata giù per i fianchi della montagna. L’alternativa, era ripiegare, ma Arbogaste aveva inviato un proprio ufficiale, Ambizione, a tagliare la ritirata, occupando la strada alle spalle di Teodosio.
Frenetiche riunioni dello Stato Maggiore dovettero svolgersi tra le mura di Castrum ad Pirum. Infine Teodosio decise di giocare il tutto per tutto. All’alba deI 5 settembre l’esercito riprese la marcia, avanzando per una quindicina di chilometri, e si portò a
un’altitudine di circa seicento metri, presso una postazione fortificata situata poco oltre l’attuale paese di Col. Proseguendo lungo la strada militare, l’esercito di Teodosio avrebbe dovuto condurre un attacco diretto su Castra ad Frigidum, calando per un pendio scosceso in uno spazio ristretto: gli uomini di Arbogaste avrebbero potuto respingerlo con facilità, appoggiandosi alla linea difensiva imperniata sulla città e sul torrente che la lambiva. Inoltre, macchine da lancio erano certamente in dotazione alla guarnigione di Castra, e pronte a essere usate contro gli attaccanti.
Per questi motivi, è più credibile che Teodosio preferisse deviare dalla strada e tentare la di-
scesa in valle attraverso l’ampia conca che si apriva alla sua sinistra, digradando sino a Castrum Minor (Vipacco). Lo stesso Arbogaste doveva aver tenuto in conto tale eventualità, predisponendo difese anche in quel settore. In ogni caso, dunque, si trattava di un attacco praticamente suicida, come i fatti dimostrarono. Attacco la cui forza d’urto principale fu rappresentata dai ventimila ausiliari goti.
Nel pomeriggio del 5 settembre i Goti iniziarono a scendere superando il dislivello di circa cinquecento metri, marciando in linea di colonna lungo i fianchi delle montagne: non potevano dispiegare le proprie forze, né manovrare, né giovarsi dell’appoggio tattico della cavalleria. Via via che giungevano a valle, le truppe di Arbogaste erano pronte a caricarli e abbatterli con tutta comodità. Le fonti parlano di diecimila caduti nel contingente goto: il 50% della forza. Verso sera Teodosio ordinò di sospendere le operazioni.
L’esercito di Arbogaste, contemplando il massacro di Goti, credette di aver vinto la battaglia. Eugenio alimentò gli incauti entusiasmi distribuendo onoreficenze: si festeggiò ci fu allegria e si perse la concentrazione, Era quanto, verosimilmente, si aspettava Teodosio, che aveva riservato per l’indomani un secondo attacco, quello vero, affidato soprattutto alle truppe regolari romane. La scelta di sacrificare i Goti, forse, non era stata casuale: dopo Adrianopoli i Romani subivano la loro alleanza e ridimensionarne la forza non poteva che giovare all’impero. Lo stesso Orosio non ha nulla da eccepire in merito: “averli persi fu un gran bene e una vittoria il fatto che fossero vinti”.
Inoltre Teodosio aveva segnato un altro punto a proprio favore ottenendo la defezione di Arbizione, l’ufficiale che avrebbe dovuto sbarrargli la ritirata. Arbizione doveva assalire Teodosio alle spalle: manovra che, dopo il disastroso esito del pomeriggio di battaglia, nelle speranze di Arbogaste sarebbe stata decisiva. Invece l’ufficiale mise le proprie forze a disposizione di Teodosio, “indotto a soggezione dalla presenza dell’imperatore”, scrive Orosio. O forse convinto dopo trattative intercorse nella notte. All’alba del 6settembre Teodosio scatenò il secondo attacco. Lo guidò Bacurio, l’ufficiale forse più motivato, dato che, sedici anni prima, aveva avuto una parte di responsabilità nel disastro di Adrianopoli: era giunta per lui l’occasione di riscattarsi, I legionari iniziarono la discesa coperti dalle tenebre e assalirono le linee avversarie di sorpresa. Bacurio, scrive Rufino “si aprì un varco tra le schiere dense e serrate dei nemici. Sfondò le loro linee e avanzò tra caterve di morti, in mezzo a migliaia di soldati che cadevano uno dopo l’altro, sino all’usurpatore”.
La prosa altisonante di Rufino esprime l’asprezza del secondo giorno di battaglia. Malgrado l’effetto sorpresa, le truppe di Arbogaste erano ancora in grado di organizzare una difesa e tentare di recuperare il vantaggio, grazie alla posizione favorevole. Fu in questa fase che si inserì la bora. Nella valle del Vipacco la bora può soffiare in qualunque stagione dell’anno, raggiungendo velocità di 80-100 chilometri orari e anche oltre. Era stata la presenza di questo vento a indurre i Romani ad abbandonare una precedente linea di comunicazione lungo la valle e a costruire la strada che s’inerpicava sino a Castrum ad Pirum per giungere a Castra.
La direzione della bora - vento da nord-est -faceva sì che soffiasse alle spalle dei soldati di Teodosio e frontalmente a quelli di Arbogaste. Gli effetti delle raffiche di vento sono così descritti da Orosio: “I dardi scagliati per mano dei nostri ricevevano una spinta per aria superiore alle forze umane e non cadevano quasi mai se non infliggendo colpi più profondi. Inoltre quel turbine di vento, strappando gli scudi, sferzavai volti e i petti dei nemici”. Il vento, per di più, scompaginava le formazioni di Arbogaste e rigettava indietro le loro frecce.
Non è possibile determinare in che misura la bora abbia condizionato il risultato della battaglia. La tattica di Teodosio, basata sul secondo attacco a sorpresa, aveva forse già riequilibrato l’iniziale inferiorità. Non trascurabile era poi stato i! peso della diserzione di Arbizione. Con queste premesse, la bora trasformò la sconfitta dell’esercito pagano in disfatta totale. Eugenio, catturato, “fu condotto con le mani legate dietro la schiena ai piedi di Teodosio. E questa fu la fine, della sua vita e della battaglia”, conclude Rufino.
Eugenio venne decapitato. La testa dell’ultimo imperatore pagano, infissa su una lancia, fu portata in trionfo e mostrata alle truppe. Ogni resistenza cessò e la città di Castra aprì le porte al vincitore. Arbogaste riuscì a fuggire ma i soldati di Teodosio lo braccarono due giorni in mezzo ai monti: infine, vistosi perduto, si uccise. Teodosio, ormai, era padrone di tutto l’Impero Romano.

Conseguenze della battaglia

Come s’è detto, il principale significato della battaglia del Frigido fu l’aver rappresentato la fine ufficiale del paganesimo classico. La riunificazione delle due parti dell’Impero Romano, Oriente e Occidente, durò ben poco, in quanto Teodosio morì soltanto quattro mesi più tardi, a Milano, il 17 gennaio 395. L’impero venne nuovamente diviso, come già era stato predisposto, tra i suoi due figli Onorio e Arcadio. In Occidente Teodosio mantenne il sistema di governo realizzato nel breve periodo di Eugenio e Arbogaste: affiancò alla figura dell’Imperatore quella di un dittatore militare, nella persona di Flavio Stilicone. Da quel momento, tutti gli Imperatori d’Occidente persero le effettive prerogative militari a favore di un generale, spesso di origine barbara, che finì per diventare arbitro dell’impero. Solo Maggioriano (cfr. RID 4/98) tentò, invano, di superare il dualismo: il suo fallimento accelerò il tramonto del potere imperiale in Occidente. La conseguenza più negativa riguardò il rapporto con i Goti. Dopo il pesante tributo di sangue offerto in occasione della battaglia, i Goti alzarono il prezzo della loro alleanza con i Romani. Non incontrando soddisfazione, trovarono in Alarico un capo disposto a guidarli alla rivolta: la loro “protesta armata”, come è stata definita, fiaccò l’esercito romano per quindici anni e culminò nel sacco di Roma del 410. In seguito un accordo fu raggiunto, ma l’Impero d’Occidente uscì gravemente indebolito dalla prova.

lunedì 10 marzo 2008

Torna a risplendere la Casa di Augusto

ROMA - Torna a risplendere la Casa di Augusto
SILVIA LAMBERTUCCI
LUNEDÌ, 10 MARZO 2008 IL TIRRENO

Dopo 20 anni di restauri riapre al pubblico la dimora dell’imperatore

Da oggi tutti in fila (niente prenotazioni) per poter ammirare i bellissimi affreschi sul Palatino

ROMA. Colori straordinari e splendenti, dal preziosissimo cinabro agli ocra dorati delle terre. E poi figure fantastiche, decorazioni raffinatissime, alla moda di Alessandria. Ormai ci siamo. Dopo l’inaugurazione a inviti, organizzata per domani, aprono finalmente al pubblico, oggi, le sale mai viste della Casa di Augusto al Palatino. Per gli appassionati di arte un appuntamento da non perdere, anche se - vista l’impossibilità di prenotare - ci sarà da avere pazienza e prepararsi a un pò di fila. Ma tant’è. Scoperta tra gli anni ’60 e ’70 da Gianfilippo Carettoni, oggetto di scavi e poi minuziosi lavori di restauro, che tra un’interruzione e l’altra sono durati decenni, eccola, straordinaria nella sua ’domesticita’, la casa dove viveva Augusto prima di diventare imperatore.
In tutto sono quattro ambienti (sebbene la domus fosse naturalmente più grande), tre al piano di sotto, dove si è ricostruito un ingresso con una grande rampa, una sala da pranzo (oecus) e un cubicolo, uno al piano di sopra, accessibile attraverso un terrazzo, il cosiddetto studiolo, perchè gli studiosi ritengono ospitasse lo studio privato di Augusto.
L’epoca, ricostruiscono, deve essere quella tardo repubblicana, intorno al 36 a. C., quando Augusto non era ancora imperatore. Anni più tardi, proprio per costruirsi una dimora più ricca, fu lui a far seppellire questa casa, che forse proprio per questo si è conservata. Chi si aspetta una dimora principesca potrebbe rimanere deluso: le stanze di questa dimora (Augusto teneva molto a dare un’immagine di sobrietà) sono abbastanza piccole, collegate tra loro e prive di finestre. Prendevano luce solo dalla porta, con un affaccio allora su un grande giardino (oggi però sono chiuse da un muro d’epoca neroniana). Anche gli arredi, raccontano gli storici, erano modesti. Le decorazioni dei muri, in compenso, erano di grande qualità: affreschi ritenuti oggi «tra gli esempi più belli, insieme con quelli di Palazzo Massimo e della casa di Livia, del cosiddetto secondo stile». Pitture raffinate, probabilmente eseguite da un Maestro greco, anche se in qualche modo domestiche, che nel tempo erano cadute in terra, ridotte in frammenti anche piccolissimi. E che sono state ricostruite, in almeno dieci anni di lavoro (il tempo passato è molto di più, ma gli interventi si fermavano spesso per carenza di finanziamenti) e certosina pazienza dagli esperti della sovrintendenza, che si sono succeduti. «Il puzzle più affascinante dell’epoca contemporanea», secondo il ministro dei beni Culturali Franesco Rutelli. «Qui ci troviamo nel luogo in cui Augusto ha deciso di vivere. Un luogo di una simbolicità gigantesca - ha commentato ieri durante una visita - perchè ha voluto stare a due passi dalla capanna di Romolo e Remo e sopra il Lupercale».
Per i restauri sono stati spesi in tutto 1 milione e 540 mila euro a cui si aggiungono altri 250mila euro per la casa di Livia, che si trova a poche centinaia di metri di distanza e che - dopo la chiusura alla fine degli anni ’90 - sarà anch’essa riaperta al pubblico si prevede entro il 2008. In realtà proprio lo splendido studiolo, seppure non ancora restaurato, era stato già aperto al pubblico per un breve periodo nel 1985. Ma fu solo una parentesi. La vera apertura sarà oggi, con il pubblico che dovrà essere accompagnato a gruppi di 5 da personale specializzato della soprintendenza. Si pagherà anche un biglietto di 11 euro, che servirà però per entrare, oltre che in tutta la zona dei Fori (sino ad oggi libera), anche al Colosseo (dove in questi giorni c’è anche la mostra dedicata ai Trionfi) e al Palatino. Resterà invece chiusa ancora per qualche mese, l’ala nord della casa di Augusto, quella con le celeberrime sale delle maschere e dei pini, già aperte anni fa al pubblico. Qui i lavori sono ancora in corso, la riapertura sarà possibile alla fine del 2008, forse all’inizio del 2009. Per il momento c’è da godersi queste sale mai viste della Domus. Per la quale arriveranno anche i soldi di Maratonarte (3 milioni di euro da dividere nei sette siti per i quali è stata lanciata l’iniziativa) e i 300mila euro dell’americano World Monuments Found, che andranno a finanziare restauri pittorici.

Benvenuti nella casa di Augusto

l’Unità 10.3.08
Benvenuti nella casa di Augusto
di Stefano Miliani

APRE al pubbico la dimora al Palatino dove Ottaviano visse prima di diventare imperatore. Due stanze affrescate con decori raffinati e sfolgoranti che sarà possibile visitare da oggi. Ingresso limitato e scaglionato per non rovinarle...

Un bel rosso fuoco steso sulla parete accende lo sguardo. L’ocra richiama il colore della terra. Poi del cinabro. Una colonna dipinta sorregge una sorta di vaso dagli strani fiori. Scorci architettonici richiamano astuzie prospettiche che 1400 anni dopo riemergeranno in pittori del primo Rinascimento come, azzardando, Masaccio. Tra le fasce di colore si intrufolano irridenti grifoni - mostri alati - a dimensioni ridotte. Alcune figure di donna sembrano conversare su un fondo azzurrognolo mentre altre sono probabilmente cadute in pezzi da un’altra finestra pittorica.
In questa stanza tanto piccola quanto sfolgorante, in questo studiolo dalle pareti affrescate con evidente gusto per la vita, si raccoglieva in meditazione o per elaborare strategie politiche Caio Giulio Cesare Ottaviano, classe 63 a.C., che divenuto primo imperatore col titolo di Augusto nel 27 a. C. resse Roma e i suoi vasti territori siglando il passaggio definitivo dall’età repubblicana a imperiale fino alla sua morte nel 14. d.C. Questo studiolo sovrasta due locali al piano inferiore: un ingresso con soffitto a cassettoni dai variopinti motivi geometrici - dai rombi rossi oppure incastonato di quadrati con fiori al centro - in cui molto si è perso e una sorta di triclinium con altre pareti affrescate e qualche figura evanescente. Sopra e sotto, brani di quelle grottesche (motivi bizzarri o floreali) che rifiorianno in molte decorazioni del ’500.
Siamo in un luogo speciale: la Casa intitolata ad Augusto al Palatino a Roma. Quasi in prossimità dell’affaccio delle rovine sul Circo Massimo, tra muri sopravvissuti ai secoli e un percorso di rampe e saliscendi che a noi viziati dalle immagini del ’900 ricorderà certi percorsi di Escher, con un panorama di tetti ed edifici che conduce al di là del Tevere, la casa augustea non è più un luogo per restauratori o pochi studiosi: da oggi apre al pubblico, dopo la giornata inaugurale di ieri, giornata peraltro complicata e affollata perché, anche se a inviti, c’era tanta gente, si sono formate code e molti hanno levato le tende rammaricati o arrabbiati perché la meta richiedeva un’attesa di un’ora-un’ora e mezzo. C’è stato un ingorgo umano e per molti non è stato divertente.
Questo perché l’ingresso alla dimora augustea è scaglionato e limitato a cinque persone a volta accompagnate da personale che dopo pochi minuti invita a uscire e lasciare il posto a chi viene dopo: innanzi tutto per ragioni di sicurezza, poi ricordiamo che il nostro respiro può danneggiare le pitture parietali che non tollereranno più di tanto l’impatto umano.
La dimora viene datata dagli archeologi al 36 a. C., quando Ottaviano non era ancora imperatore (per diventarlo eliminanò in un modo o nell’altro tutti gli avversari e soprattutto i fedeli all’assassinato Giulio Cesare), e quindi non aveva ancora meritato l’appellativo di Augusto. Sempre gli archeologi attribuiscono le decorazioni sulle pareti a un pittore greco, e se oggi può stupire per la sua bellezza, questa dimora venne in realtà coperta e sepolta dallo stesso Augusto quando volle costruire poco lontano una Domus ben più vasta sempre nell’area del Palatino e quindi consona al titolo imperiale. E com’è accaduto a siti archeologici romani fuori mano - ad esempio Leptis Magna in Libia - l’essere sepolta ha salvato questa piccola casa a due piani da eventuali devastazioni. La scoprì infatti, tra gli anni ’60 e ’70, Gianfilippo Carettoni e naturalmente non versava in ottime condizioni: brandelli di rosso, ocra, azzurrino, giallo, verde pallido coprivano il terreno. A rimetterli insieme con pazienza, e arginando un possibile senso di disperazione, scavalcando i tempi morti e le attese per i finanziamenti, hanno provveduto i restauratori della soprintendenza archeologica statale. Per questi restauri i conti parlano di un milione 540 mila euro spesi cui vanno aggiunti altri 250 mila per la vicina Casa di Livia che dovrebbe riaprire al pubblico quest’anno, mentre nella sala delle maschere e dei pini, nell’ala nord della casa augustea, in restauro, dovrebbe riaprire all’inizio del 2009.
Visto che siamo arrivati all’argomento quattrini, bisogna dire che fino a ieri si poteva entrare gratis nella zona dei Fori imperiali. Da oggi scatta un biglietto di 11 euro che include l’intera area tra cui il Colosseo e il Palatino. La Casa augustea è accompagnata da un volume Electa e per un quadro più completo di questo genere pittorico sappiate che la mostra di affreschi da Pompei Rosso pompeiano a Palazzo Massimo è stata prorogata al 1° giugno.

domenica 9 marzo 2008

Il Foro riapre altri quattro gioielli Dal tempio di Romolo a S. Maria Antiqua, dopo trent´anni di chiusura

ROMA -
Il Foro riapre altri quattro gioielli Dal tempio di Romolo a S. Maria Antiqua, dopo trent´anni di chiusura
CARLO ALBERTO BUCCI
DOMENICA, 09 MARZO 2008, LA REPUBBLICA - Roma

Da domani torna il ticket sulla via Sacra. Visitabili anche la Casa delle Vestali e la Domus di Augusto

Visite guidate a 4,5 euro a persona più gli 11 euro per Colosseo, mostra e Palatino

Riapre il magnifico tempio di Romolo, dalle colonne di porfido che incorniciano un portone in bronzo dell´antica Roma chiuso da una vita. E dirimpetto, sull´altro lato della via Sacra, si schiude la Casa delle Vestali, la dimora delle sacerdotesse vergini fino a oggi visitabile solo da lontano e solo in parte. Mentre preclusi completamente al pubblico erano da alcuni anni i templi sorti nel Foro dell´Urbe cristianizzata: Santa Maria Antiqua - con la sua celebre parete palinsesto, testo sacro della pittura altomedievale - e l´attiguo Oratorio dei Quaranta Martiri, con l´affresco absidale dell´ottavo secolo che racconta le gesta e la strage dei soldati condannati a morire nelle acque gelate di un lago in Armenia.
Sono questi i quattro gioielli che si potranno ammirare da domani, perché finiti di restaurare o con i cantieri in dirittura d´arrivo, all´interno di visite guidate organizzate dalla Soprintendenza archeologica di Roma (tutte le mattine dalle 10 alle 10.30; informazioni e prenotazione al numero 06 39967700). Il tour, guidato dai ciceroni dello Stato al prezzo di 4,50 euro a persona, è il piatto deciso sul filo di lana che arricchisce il nuovo menù del Palatino: l´apertura della restaurata domus di Augusto che sarà inaugurata stamattina dal ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli (e ieri, sul Times di Londra, il vicepremier ha annunciato l´evento ringraziando il World Monument Fund per l´aiuto portato ai restauri).
Gli affreschi della casa del primo imperatore sono offerti (solo a cinque persone alla volta, a spasso nei quattro ambienti affrescati) nel giorno del ritorno al biglietto per l´ingresso al Foro romano. Il prezzo rimane fissato agli 11 euro di prima e il pacchetto comprende l´accesso al Colosseo (e alla mostra sui "Trionfi romani") e agli imperiali resti del Palatino. Con il ritorno della biglietteria su via dei Fori imperiali per l´area attraversata dalla via Sacra (a ingresso libero negli ultimi dieci anni), sarà possibile visitare anche i quattro capolavori che la caratterizzano: opere che, con i cicli di dipinti contenuti nelle due chiese, offrono un´affascinante panoramica sulla pittura romana nel passaggio dal paganesimo al Nuovo Testamento, dalle prospettive colorate dai pittori di Augusto sui muri della sua reggia sul colle al Cristo messo in croce dal frescante orientale chiamato in Santa Maria Antiqua da papa Zaccaria (741-782).
E per il tempio circolare sulla via Sacra - per alcuni fatto costruire da Massenzio per l´amato e divinizzato figlio Romolo morto nel 309 d. C.; ma, secondo la tradizione, costruito sulle vestigia del tempio dedicato a Giove Statore da Romolo, "quello vero", il primo re di Roma - la riapertura è un vero evento. Sono almeno trent´anni che i visitatori non alzavano gli occhi verso la bella cupola romana che lo sormonta.

Raymond Bloch, LE ORIGINI DI ROMA

Raymond Bloch
LE ORIGINI DI ROMA
Newton Compton, 1978
La tradizione latina relativa alla prima colonizzazione dei sette colli ed alla nascita di Roma si basa quasi esclusivamente su una trasmissione mitica, ed orale, e la storia critica fin dai suoi albori vi si è esercitata cori severità. Le origini di Roma di Raymond Bloch ha inteso segnare un netto capovolgimento delle posizioni tradizionali ed è già considerata — pur nella sua preziosa concisione — un’opera fondamentale per le nuove ricerche. L’autore dedica i suoi sforzi all’analisi accurata di quanta parte della realtà storica i dati leggendari possono ricoprire, esaminando innanzi tutto il quesito della legittimità delle rivendicazioni avanzate dalla mitologia comparata.
Se ne ricava, col sostegno di elementi informativi provenienti da campi di indagine complementari, quali l’etnologia o l’archeologia (che in questi ultimi decenni ha fornito allo storicO le più preziose notizie), un quadro della colonizzazione dell’Italia primitiva, delle autentiche origini di Roma sotto la monarchia etrusca e della storia della città nei primi tempi della Repubblica.

Scene di Circo

Bassorilievo con raffigurazione di scene di circo

i Salii

i Salii in atto di battere pelli tese, mosaico romano

sabato 8 marzo 2008

Quelle passeggiate «illustri» tra le rovine dei Cesari

Corriere della Sera 8.3.08
Ricordi Da Goethe a Clinton: tutti ammaliati dal Foro
Quelle passeggiate «illustri» tra le rovine dei Cesari

Questo è Trilussa, nel sonetto La Terza Roma: «Infatti, sur più bello d'un lavoro,/ te ritrovi l'Impero giù in cantina/ con una strada che va dritta ar Foro». Per dire che, a Roma, la relazione con i millenni precedenti è di carattere assai confidenziale. Fu così che il mito dei Fori, delle rovine romane, venne creato soprattutto da europei che non avevano in casa pietre tanto antiche. Shakespeare ambienta naturalmente al Foro l'orazione funebre di Antonio per Giulio Cesare, con tutta probabilità senza esserci mai stato. Qualcosa vide invece, quasi due secoli più tardi, Johann Wolfgang Goethe, erede dei viaggiatori che fin dal '600 scendevano in Italia da Francia, Inghilterra e Germania. Subito Goethe coglie che a Roma «si trovano vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l'una e l'altro, la nostra immaginazione » ( Viaggio in Italia, 1786).
Una sera passeggia sul Palatino, «tra le rovine del palazzo dei Cesari» e scrive: «Nulla di tutto ciò si può rendere a parole! In verità, lassù non si sa cosa sia piccolezza». Quando Goethe lascia Roma, a modo di saluto sale sul Campidoglio, quindi scende sull'altro versante, «e davanti ai miei occhi interamente oscuro e gettando grandi ombre apparve l'arco di Settimio Severo; nella solitudine della Via Sacra, i monumenti così noti, sembravano quella sera strani e spaventosi. Ma quando mi avvicinai al Colosseo e a traverso le grate potei gettare uno sguardo nell'interno, fui preso da una specie di tremito e affrettai il ritorno. Ogni oggetto faceva un'impressione speciale, ma sublime e comprensibile nello stesso tempo». Esaltato l'animo di Goethe, più malinconico e riflessivo quello di Byron, qualche decennio più avanti, che nel Manfred racconta il «circo del Colosseo, mirabile reliquia del romano poter» e nota come «dei Cesari, la vile edera usurpa il seggio dell'allòr ».
Nel pieno dell'Ottocento archi e colonne diventano calamita per gli artisti sull'altra sponda dell'Atlantico. Ecco la poesia Il Colosseo: «Noi non siamo impotenti, noi pallide pietre: non ogni potere è spento, non ogni nostra gloria, non tutta la magia dell'alta rinomanza, non tutta la meraviglia che ne circonda, non tutti i misteri che giacciono in noi...». Firmata Edgar Allan Poe, maestro di misteri.
Altri americani verranno poi. Bill Clinton sui Fori con Hillary. Lei: cappello nero con nastro rosa, ma tacchi alti che la fanno sbandare sui basoli (1994). George W. Bush, in camicia, mano nella mano di Laura. Commenta: «Questo posto incute soggezione» (2001). Ma c'è anche, tenero, Russell Crowe, a Roma per promuovere A beautiful mind, che fa tardi, anzi tardissimo, a una conferenza stampa: è fuggito per scoprire in solitudine il Foro, lui, che tutto il mondo ormai chiama "il gladiatore". C'erano stati il turista americano Locuzzo, al quale Totò, sedicente guida, aveva venduto un finto sesterzio romano ( Guardie e ladri, 1951). E Gregory Peck aveva raccolto su una panchina con vista sull'arco di Settimio Severo la principessina Anna, deliziosamente Audrey Hepburn (Vacanze romane, 1953).
Ennio Flaiano, nel 1972 su L'Espresso, immagina il diario di un turista americano: «Abbiamo visitato The Roman Forum, dove fu ucciso Julius Caesar. L'erba tra i ruderi era molto alta e a un certo momento ho visto un piccolo serpente che mi guardava. Ho chiesto a un guardiano perché non tagliano l'erba e non catturano i serpenti, ma lui ha risposto che la Sovrintendenza(?) non era interessata un katzo all'erba e ai serpenti e che del resto le "Belle arti erano in agitazione"».

Quelle passeggiate «illustri» tra le rovine dei Cesari

Corriere della Sera 8.3.08
Ricordi Da Goethe a Clinton: tutti ammaliati dal Foro
Quelle passeggiate «illustri» tra le rovine dei Cesari

Questo è Trilussa, nel sonetto La Terza Roma: «Infatti, sur più bello d'un lavoro,/ te ritrovi l'Impero giù in cantina/ con una strada che va dritta ar Foro». Per dire che, a Roma, la relazione con i millenni precedenti è di carattere assai confidenziale. Fu così che il mito dei Fori, delle rovine romane, venne creato soprattutto da europei che non avevano in casa pietre tanto antiche. Shakespeare ambienta naturalmente al Foro l'orazione funebre di Antonio per Giulio Cesare, con tutta probabilità senza esserci mai stato. Qualcosa vide invece, quasi due secoli più tardi, Johann Wolfgang Goethe, erede dei viaggiatori che fin dal '600 scendevano in Italia da Francia, Inghilterra e Germania. Subito Goethe coglie che a Roma «si trovano vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l'una e l'altro, la nostra immaginazione » ( Viaggio in Italia, 1786).
Una sera passeggia sul Palatino, «tra le rovine del palazzo dei Cesari» e scrive: «Nulla di tutto ciò si può rendere a parole! In verità, lassù non si sa cosa sia piccolezza». Quando Goethe lascia Roma, a modo di saluto sale sul Campidoglio, quindi scende sull'altro versante, «e davanti ai miei occhi interamente oscuro e gettando grandi ombre apparve l'arco di Settimio Severo; nella solitudine della Via Sacra, i monumenti così noti, sembravano quella sera strani e spaventosi. Ma quando mi avvicinai al Colosseo e a traverso le grate potei gettare uno sguardo nell'interno, fui preso da una specie di tremito e affrettai il ritorno. Ogni oggetto faceva un'impressione speciale, ma sublime e comprensibile nello stesso tempo». Esaltato l'animo di Goethe, più malinconico e riflessivo quello di Byron, qualche decennio più avanti, che nel Manfred racconta il «circo del Colosseo, mirabile reliquia del romano poter» e nota come «dei Cesari, la vile edera usurpa il seggio dell'allòr ».
Nel pieno dell'Ottocento archi e colonne diventano calamita per gli artisti sull'altra sponda dell'Atlantico. Ecco la poesia Il Colosseo: «Noi non siamo impotenti, noi pallide pietre: non ogni potere è spento, non ogni nostra gloria, non tutta la magia dell'alta rinomanza, non tutta la meraviglia che ne circonda, non tutti i misteri che giacciono in noi...». Firmata Edgar Allan Poe, maestro di misteri.
Altri americani verranno poi. Bill Clinton sui Fori con Hillary. Lei: cappello nero con nastro rosa, ma tacchi alti che la fanno sbandare sui basoli (1994). George W. Bush, in camicia, mano nella mano di Laura. Commenta: «Questo posto incute soggezione» (2001). Ma c'è anche, tenero, Russell Crowe, a Roma per promuovere A beautiful mind, che fa tardi, anzi tardissimo, a una conferenza stampa: è fuggito per scoprire in solitudine il Foro, lui, che tutto il mondo ormai chiama "il gladiatore". C'erano stati il turista americano Locuzzo, al quale Totò, sedicente guida, aveva venduto un finto sesterzio romano ( Guardie e ladri, 1951). E Gregory Peck aveva raccolto su una panchina con vista sull'arco di Settimio Severo la principessina Anna, deliziosamente Audrey Hepburn (Vacanze romane, 1953).
Ennio Flaiano, nel 1972 su L'Espresso, immagina il diario di un turista americano: «Abbiamo visitato The Roman Forum, dove fu ucciso Julius Caesar. L'erba tra i ruderi era molto alta e a un certo momento ho visto un piccolo serpente che mi guardava. Ho chiesto a un guardiano perché non tagliano l'erba e non catturano i serpenti, ma lui ha risposto che la Sovrintendenza(?) non era interessata un katzo all'erba e ai serpenti e che del resto le "Belle arti erano in agitazione"».

E così Augusto «arruolò» gli intellettuali

Corriere della Sera 8.3.08
Alleanze, tattiche e strategie culturali per conquistare l'eredità politica e il potere
E così Augusto «arruolò» gli intellettuali
di Luciano Canfora

Nel «partito» di Cesare, nei luogotenenti che con Cesare avevano combattuto in Gallia e poi nella guerra civile contro Pompeo e il Senato, Ottaviano ha avuto i suoi avversari più tenaci. Li ha giocati gli uni contro gli altri, con alleanze tattiche durevoli fintanto che giovavano al suo unico fondamentale disegno: impadronirsi completamente dell'eredità politica e della successione di Cesare. In Antonio, fidato collaboratore e compagno d'arme di Cesare, ha avuto l'avversario più tenace e non ha avuto pace finché non l'ha annichilito completamente. «Dopo l'ultima sconfitta — narra Svetonio nella Vita di Augusto — Antonio fece un ultimo tentativo di pace, ma Augusto lo costrinse ad uccidersi e ne rimirò poi il cadavere». Solo con la scomparsa, anche fisica, di Antonio (31 a.C.), Augusto poté considerare di avere saldamente in mano l'intera eredità di Cesare e l'intero potere carismatico sull'esercito e sulla compagine statale. Erano passati tredici anni dalla morte di Cesare (44 a.C.): tredici lunghi anni di inesorabile, programmata, sapiente conquista del potere.
Diversamente da Cesare, che affrontava la polemica aperta anche con gli avversari sconfitti, Ottaviano, ormai divenuto Augusto, preferì irreggimentare, conquistandone ad uno ad uno i protagonisti, la vita intellettuale. Creò un'arte volta a glorificare la sua azione politica, le sue parole d'ordine. E soprattutto prevenne e zittì ogni voce che intendesse eventualmente esprimersi in modo dissonante. Gli scrittori cominciarono ad autocensurarsi: Virgilio, il maggiore, cancellò un intero pezzo delle Georgiche e lo sostituì con un'insulsa tirata sulle api. Poeti d'amore, come l'elegiaco Properzio, si misero a scrivere odi «romane», in cui si parlava del «principe», nei modi graditi alla sua propaganda; giovani promettenti e di bassa estrazione sociale come Orazio furono catturati e portati a scrivere odi di esaltazione del vincitore di Azio.
Naturalmente c'era anche chi riteneva di potersi non piegare. Un vecchio amico di Antonio, il generale Asinio Pollione, ritiratosi a vita privata già prima di Azio, decise di scrivere un'opera di storia che prendeva le mosse dal «primo triumvirato», cioè dagli esordi, trent'anni prima, di Caio Giulio Cesare: ma Orazio scrisse apposta un'ode per spiegargli che si trattava di un'iniziativa pericolosa. E ci fu anche chi decise di non scrivere più nulla, pur di non accodarsi al coro. Proprio perché promotore e artefice di un così forte controllo sulla cultura — per la prima volta nella storia di Roma — Augusto sapeva anche concedersi la civetteria della liberalità: come quando scoprì un nipote che leggeva di nascosto un libro di Cicerone, gli tolse dalla manica della tunica il libro, non rimproverò il fanciullo, ma disse pensosamente che l'autore in questione — della cui morte era stato a suo tempo corre

Nell'abitazione di Ottaviano restituita al suo splendore

Corriere della Sera 8.3.08
A casa dell'Imperatore
Nell'abitazione di Ottaviano restituita al suo splendore il mito dei Trionfi Romani e il fascino del Rosso Pompeiano
di Paolo Conti

Il pendio del Palatino accompagna lo sguardo fino alla cupola di San Pietro, che nella prospettiva del panorama viene preceduta dalla doppia vela del Tempio maggiore israelitico, lì a un passo sul lungotevere. L'erba profuma d'amaro, è il carattere rude dell'antico agro romano. Lì sotto c'è lo stretto varco del Lupercale. Qui una porta a vetri si apre sullo scrigno delle meraviglie: la Casa di Augusto, costruita quando il trono era lontano e si trattava dell'abitazione di Ottaviano, figlio adottivo ed erede di Giulio Cesare. Si comincia dalla rampa e bisogna liberare le scarpe dal fango prima di affrontare la visita.
Il timbro cromatico più forte è il Rosso Pompeiano, vivissimo e ignaro dei secoli passati. E poi uccellini, vasi, festoni vegetali, un tripudio di aeree colonnette. Sulla volta, stucchi candidi e pitture dove compare l'azzurro cobalto, il viola. Roma assorbe e rielabora tutto: sono già le «grottesche» care al Rinascimento. Le radici sono qui, nella terra del Palatino. E il tempo non ha alterato il loro splendore.
Poi ecco lo Studiolo, un miracolo di gusto egizio-alessandrino. Accanto ancora, la Stanza delle Maschere (la spettacolare vivacità di una scena teatrale ellenistica), il Locale delle Prospettive (indimenticabili i vasi di vetro pieni di frutta), la Stanza dei Festoni di Pino (con i leggerissimi finti porticati).
Una meraviglia che torna a disposizione dei visitatori, anche se la Casa di Augusto non tollererà più di cinque persone a turno (niente visite guidate, occorrerà mettersi pazientemente in fila e civilmente attendere). La restituzione della Casa di Augusto alle visite è il pezzo più pregiato della riorganizzazione dell'Area archeologica centrale di Roma che ruota su due perni. Cioè il mito del Trionfo Romano. E il carattere opulento del Rosso Pompeiano, che ha segnato il gusto pittorico di un'intera civiltà affascinando per secoli i posteri e diventando un inevitabile riferimento.
I Trionfi Romani è il titolo della mostra organizzata al Colosseo dal 5 marzo al 14 settembre dalla Soprintendenza speciale per i beni archeologici romani: i simboli e l'inconfondibile identità di un rito fondamentale per Roma.
Rosso Pompeiano è la fortunata rassegna allestita nella sede di palazzo Massimo del Museo nazionale romano, prorogata all'1 giugno, un completo panorama della decorazione pittorica nelle collezioni archeologiche di Napoli e di Pompei. Quello stesso Rosso che caratterizza la straordinaria Casa di Augusto.
Il Trionfo Romano ci riconduce alla Via Sacra, al tratto compreso tra l'Arco di Costantino e quelli successivi, di Tito e di Settimio Severo. Qui approdiamo all'operazione legata all'Area archeologica centrale di Roma. Dal 10 marzo l'ingresso ai Fori romani non sarà più gratuito. Nasce il biglietto unico per Colosseo-Palatino-Foro Romano. La Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma da tempo segnalava problemi di conservazione e di vigilanza. Spiega il soprintendente Angelo Bottini: «Con l'apertura gratuita la Via Sacra si era trasformata in uno spazio pubblico dov'era impossibile controllare ingressi ed uscite. Per ovvi motivi di sicurezza, siamo stati costretti a chiudere tutte le aree a destra e a sinistra della Via Sacra e di Piazza del Foro. Per non dire dei segnali di usura e degrado. Diciamo che la gratuità ha provocato una drastica riduzione della visibilità del complesso». Fino alla decisione di tornare al pagamento, affidando all'Electa la biglietteria, distribuendo con diversi criteri il personale. Così si potrà ammirare di nuovo, nei prossimi tempi, il Tempio di Romolo, l'Oratorio dei Quaranta Martiri, la Casa delle Vestali, Santa Maria Antiqua. L'area verrà presto spiegata da esaurienti didascalie, che adesso mancano.
Ancora Bottini: «Potremmo aprire ancora e di più ma purtroppo ci mancano i numeri, abbiamo grossi problemi di personale: parliamo di tesori che vanno vigilati a vista. Ma qui il problema diventa più politico che tecnico».
Intanto una mano arriva da Maratonarte, la raccolta di fondi per i restauri organizzata dalla Rai col ministero per i beni e le attività culturali che ha assicurato 400 mila euro per sostenere i lavori di ripristino e consolidamento della Casa di Augusto. Il solo World Monuments Fund ne ha stanziati 300 mila. Un incentivo all'ottimismo per il nostro retaggio culturale, così ricco di beni e tanto povero di risorse.

giovedì 6 marzo 2008

Le lezioni su Roma antica sono le più scaricate dal web. II ciclo dell'Auditorium conquista un pubblico sempre più vasto

Le lezioni su Roma antica sono le più scaricate dal web. II ciclo dell'Auditorium conquista un pubblico sempre più vasto
SIMONA ANTONUCCI
Il Messaggero, 11 dicembre 2006

Alla storia il primato su Internet Sull’iPod Roma antica batte comici e dj
Le lezioni di storia sulla città eterna il file più scaricato dai ragazzi. E ieri code per la visita in Campidoglio


Non si tratta di campanilismo vecchio stile. Certo il senso di appartenenza alla città di Roma è importante, l'orgoglio... ci mancherebbe. Ma in questo caso il pubblico dal vivo e sul web sta dimostrando un vero amore per la cultura». Lo storico Andrea Giardina commenta «con stupore e profonda felicità» l'ingresso trionfale della storia nell'iPod. L'archeologo Andrea Carandini in squadra con i gemelli Romolo e Remo ha battuto il comico Crozza.
A mettere al tappeto una delle trasmissioni di punta di Radio DeeJay ci ha pensato Luciano Canfora, professore di Filologia classica, alla testa dell'esercito di Qttaviano. Andrea Giardina, che è sceso nell'arena in coppia con Nerone, ha letteralmente "incendiato" la classifica, piazzandosi sopra i popolarissimi programmi "II ruggito del coniglio" e "Le invasioni barbariche".
Non è uno scherzo radiofonico alla Orson Welles e i dati che riportiamo non sono cronache marziane. E' tutto vero. Il ciclo di lezioni di storia dedicate alla Capitale che si tiene la domenica mattina all'Auditorium di Roma (appuntamento cult cui partecipano migliaia di persone, mettendosi in fila dall'alba), si può scaricare sull'iPod. E fin qui,
siamo nell'ordine della buone notizie. Si entra nel podcast di iTunes e gratis le conferenze di questo prezioso festival dedicato ai giorni in cui Roma è entrata in corto circuito con la storia del mondo, finiscono nelle cuffiette che tutti i ragazzi (e non solo) si portano in giro, in motorino, a letto, in classe.
Ma non basta. Dalla storia passiamo alla fantascienza: le conferenze sono prime in classifica. Prime. Davanti a comici e personaggi popolari di radio e tv. Un evento che ha lasciato senza parole i protagonisti, i professori, e lo stesso creatore, l'editore Giuseppe Laterza. La vittoria su internet è arrivata nello stesso giorno in cui migliaia di romani si sono messi in fila davanti al Palazzo Senatorio per una visita guidata in Campidoglio un po' speciale: il Cicerone, che ha accolto i turisti da tutta Italia, era Veltroni. Roma sembra fare i suoi conti con la Storia dimostrando un entusiasmo che ha spinto Sindaco e organizzatori ad annunciare una nuova serie di conferenze per la prossima stagione, ma soprattutto un ciclo di serate estive dedicate ai luoghi che hanno fatto la storia della nostra città. Sotto le stelle al Colosseo quasi come Duemila anni fa. «Un amore per la storia — continua Giardina — che ha alla sua origine un evento, un ciclo di lezioni particolari, in una città speciale. E gli eventi scatenano altri eventi. Certo questo boom su internet non ce lo aspettavamo. Anche perché i ragazzi in sala non erano tantissimi. Ma questo ci serva da lezione. Dobbiamo pensare a modificare il nostro linguaggio per raggiungere più giovani possibile. E se è su internet che dobbiamo dialogare, studieremo come andargli incontro».

Antica come Roma l'invettiva dell'amante tradito. Alle Olearie la mostra con i ritrovamenti archeologici degli ultimi anni nella capitale

Antica come Roma l'invettiva dell'amante tradito. Alle Olearie la mostra con i ritrovamenti archeologici degli ultimi anni nella capitale
Adele Cambria
L’Unità, Roma 2 dicembre 2006

SEMMAI qualcuno ancora dubitasse che sotto la città di Roma è ancora in parte sepolto il più grande museo archeologico se non del mondo almeno d'Occidente, la mostra curata dal Soprintendente archeologo di Roma, Angelo Bottini, e che si intitola «Memorie dal sottosuolo - Ritrovamenti archeologici 1980/2006» - aperta al pubblico da oggi fino al 9 aprile 2007 (presso le "Olearie Papali", Piazza della Repubblica 12)- conferma, offrendo ai visitatori un 'aperitivo’ di appena mille reperti, la verità dell'intuizione di di J.W. Goethe. Quando, rievocando l'appassionato viaggio in Italia compiuto nel biennio nel 1786/88 - il libro che ne seguì, pubblicato oltre quarant'anni più tardi, sarebbe diventato la Bibbia del viaggiatore colto -scriveva: «A considerare un'esistenza che risale a duemila anni e più, trasfigurata dalla vicenda dei tempi in modo così vario e talora così radicale, mentre è pur sempre quello stesso suolo, quegli stessi colli, spesso perfino le stesse colonne e le stesse mura. .. si finisce col diventare contemporanei dei grandi disegni del destino». Parlava di Roma, della città del suo tempo, non ancora sistematicamente esplorata nel sottosuolo: ma le cui splendide rovine - come gli acquedotti -affioravano anche a distanza di chilometri dal Colosseo o dal Palatino, nella campagna romana o ai Castelli. Ed ora, appena si incomincia a scendere nelle "Olearie Papali" - le cantine per la raccolta dell'olio che il Pontefice Clemente XIII, manomettendo, non senza spregiudicatezza, alcuni vasti ambienti delle Terme di Diocleziano, istituì per soddisfare i bisogni alimentari della popolazione - si è quasi sopraffatti dall'evidenza di una mappa niente affatto circoscritta al c.d. centro storico attuale: che anzi si dirama per alcune miglia - da Pietralata alla Salaria alla Tiburtina a Settebagni ecc.ecc- segnalando gli infiniti luoghi in cui sono riemersi, negli ultimi 25 anni, gli oggetti dell'esposizione: le olle d'uso quotidiano,(datate VII sec.a.C. ma provviste di civilissimi mestolini individuali), le gemme colorate ed istoriate, e poi statue, fontane, lastre funerarie, se vasche d'alabastro, sarcofagi con la rappresentazione della reciproca fedeltà coniugale "oltre la morte". . ..Ma anche, a contrasto, la lastra di bronzo che reca la maledizione scagliata dall'amante tradito contro la sua donna: «Voi, cani tricipiti di Orco, di quella Cecilia Prima sbranate il fegato, i polmoni, il cuore con le vene, le viscere, le membra, il suo midollo, lacerate gli occhi di quella Cecilia Prima...»
Insomma, a Roma, come nel suo hinterland - e non a caso Andrea Carandini ha sempre sostenuto che la città è stata, fin dalle origine, Urbe - basta scavare, che qualcosa di sbalorditivo salta fuori. Non credete a chi, sempre meno spesso, fortunatamente, sostiene come i "cocci" delle nostre successive e stratificate civilizzazioni, potremmo rivenderceli agli americani senza danno...(Ci fu una proposta in questa direzione ai tempi del Governo Craxi).
Cito velocemente tre delle meraviglie che ho visto.(L'ottimo catalogo, curato da Maria Antonietta Tomei, aiuta a decifrarle tutte compiutamente). Dal Palatino, due capolavori: la Tyche d'Antiochia, un prezioso gruppo marmoreo composto della Dea Fortuna, che "assoggetta" il riccioluto fiume Oronte, dal cui corpo adolescente sgorgava, in età severiana, il getto d'acqua di una fonte: e la bionda tigre d'alabastro orientale, che pur priva della testa e delle zampe, suggerisce lo slancio felino dell'animale. Infine la vasca d'alabastro "cotognino" in cui ci si immergeva probabilmente celebrando i rituali fu-nebri(necropoli di Osteria del Curaro).
Visitando le "Memorie del sottosuolo" ieri mattina in forma privata, in compagnia di alcuni rappresentanti del EDP(Partito Democratico Europeo), il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Francesco Rutelli, ha sottolineato come i reperti in mostra siano «esempi di quella archeologia preventiva che è ormai uno degli strumenti più efficaci per garantire la tutela di un territorio ricchissimo di storia, senza precluderne Io sviluppo». Un esempio: i cantieri archeologici della metropolitana.

Parla l'archeologo Carandini: «La Lupa e antica ce lo dice Livio»

Parla l'archeologo Carandini: «La Lupa e antica ce lo dice Livio»
Adele Cambria
23-NOV-2006 L’Unità

LA FACCIA ARGUTA e un po' allarmata della bronzea Lupa Capitolina, sulla copertina dell'ultimo libro curato da Andrea Carandini -«La leggenda di Roma», Volume I, sottotitolo «Dalla nascita dei gemelli alla fondazione della città» (Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori Editori) - non sembra granché contenta di questo suo brusco ringiovanimento; Adriano La Regina, infatti, ha autorevolmente spostato la sua data di nascita dal sesto o quinto secolo avanti Cristo all'età medioevale: «Essa si inserisce coerentemente - ha scritto su «La Repubblica» del 17 novembre 2006 -nella classe della grande scultura bronzea di epoca medioevale». Le motivazioni del convincimento espresso dal noto archeologo provengono dalle indagini sulla tecnica di fusione della scultura, condotte dalla storica dell'arte Anna Maria Carruba, cui nel 1997 fu affidato il restauro del simbolo più divulgato della città di Roma. La tecnica di fusione del bronzo a cera persa, ed in un solo getto, infatti, si sarebbe perfezionata soltanto in età medioevale. E tuttavia, come lo studioso stesso non trascura di precisare, quando nel 2000 fu presentato il restauro dell'opera, la relativa pubblicazione curata dai Musei Capitolini continuava a datarla al 480-470 avanti Cristo, e ad attribuirne la fattura ad una officina di Vejo. (Si parla qui soltanto della Lupa intesa come raffigurazione dell'animale che avrebbe salvato Romolo e Remo dalla morte per fame: invece i due gemelli sono opera rinascimentale, attribuita ad Antonio Pollaiolo). Chiedo lumi ad Andrea Carandini: che, forte di oltre due decenni di scavi condotti sul Palatino, (e di un approccio anche storico-letterario, alla ricerca archeologica), continua a perseguire la tesi della attendibilità del mito della fondazione di Roma. «Possibile - gli chiedo - che la Lupa Capitolina sia così giovane?». «Sono molto curioso - mi risponde pacatamente - ed aspetto di poter leggere quanto la restauratrice ha accertato sulle tecniche di fusione del bronzo: non mi risulta che le sue indagini siano state ancora pubblicate. Posso obiettare, forse, che non ci sono i numeri per foimulare una statistica di supporto al convincimento che gli scultori dell'antichità non conoscessero la tecnica della fusione riscontrata nella Lupa: sono così poche le sculture in bronzo arrivate fino a noi...». E il Professore mi rimanda ai suoi scritti: che documentano, anche attraverso i passi-degli storici antichi - da Fabio Pittore, a Livio, a Plinto il Vecchio, a Plutarco - e splendidamente con i versi dei poeti, tra i quali Virgilio ed Ovidio - come il mito/leggenda della Lupa abbia avuto, nel corso dei secoli precristiani, molteplici materializzazioni artistiche ed affabulazioni letterarie diffuse nell'area del Mediterraneo, oltre che a Roma.
«Una Lupa ancora più antica... dalle gonfie mammelle... già esisteva ai tempi della Repubblica, in qualche luogo di Roma, forse sul Campidoglio: è la Lupa Capitolina». Così argomenta Andrea Carandini, a pagina 65 del suo libro «Remo e Romolo». Mentre, tra le fonti raccolte ne «La leggenda di Roma», cita un poetico Livio: «Una lupa assetata deviò il suo cammino... al suono del pianto infantile... abbassò le mammelle e le porse ai neonati in modo così mite che il custode del gregge del re la trovò che leccava con la lingua i due pargoli...».
«Io mi auguro - mi dice ancora l'archeologo, docente di Archeologia Classica a La Sapienza - che un bronzo sicuramente medioevale venga posto a confronto con la Lupa Capitolina. E' vero che essa stessa è un unicum nella produzione bronzea dell'antichità, ma lo è anche rispetto alla grande scultura bronzea medioevale. Per cui riconfermo la mia curiosità e resto in attesa...».

Come ti confeziono una lezione di storia

Come ti confeziono una lezione di storia
di Marco Innocente Furina
19-NOV-2006 L’Unità

Erano circa quattro mila i romani rimasti fuori dell'Auditorium qualche domenica fa. In molti hanno fatto la fila sotto la pioggia sin dall'alba, ma non ce l'hanno fatta a entrare. Non sono stati tra i 1.200 fortunati che sono riusciti ad aggiudicarsi un posto nella sala Sinopoli. Delusi, se ne sono andati tra le proteste. A scatenare tanto entusiasmo non è stata l'esibizione di un divo del rock ma una lezione di storia: quella tenuta dall'archeologo Andrea Carandini sulla Fondazione di Roma. E non si è trattato di un caso, di un episodio isolato. Le stesse scene si sono ripetute per l'appuntamento successivo, quando lo storico Luciano Canfora ha parlato a una folla attenta e silenziosa di Ottaviano e la prima marcia su Roma. Né sembra che i successivi appuntamenti di Lezioni di Storia - il ciclo di conferenze organizzate da Laterza sulle giornate cruciali della storia mondiale svoltesi nella capitale - siano destinati a minor successo.
Un successo che ha dello straordinario se si pensa alla quantità di gente richiamata, e alla complessità dei temi trattati. «Mi era già capitato - assicura Canfora - di confrontarmi con una vasto pubblico su temi di un certo peso. Ricordo che a Milano, al teatro dal Verme, all'interno di una manifestazione simile organizzata da Utet, lessi alcun brani tratti dell'epistolario ciceroniano, anche lì con grande partecipazione di pubblico. Ma erano al massimo qualche centinaio di persone, la folla dell’Auditorium è, un'assoluta novità».

La folla appunto. Iniziative culturali fortunate non sono mai mancate ma questa volta sono stati i numeri - da concerto rock - a stupire. «È l'élite del ceto medio, la punta avanzata di una nuova, e più ampia, borghesia», spiega con passione Carandini: «All'interno di quella vasta classe che è il ceto medio si è differenziata un élite attenta alla cultura e ai suoi problemi. Non si tratta di una distinzione di reddito ma di interessi. Ma la cosa a mio avviso straordinaria è che per la prima volta nella storia del nostro paese queste persone colte, e anche agiate, rappresentano una vasta fascia di popolazione. La borghesia, quella vera, ricca di cultura oltre che di beni, è sempre esistita ma storicamente ha rappresentato un fatto minoritario. La fila davanti all'Auditorium è secondo me un segno visibile di un forte allargamento di questa categoria sociale». Un buon segno quello del consolidamento, anche culturale, della classe media, dato che una delle critiche più di sovente rivolte alla società italiana è l'evanescenza del suo ceto dirigente. «Un segno fantastico - rilancia l'illustre archeologo -. Bisogna assecondare questo movimento. Ormai è chiaro che d sono persone che chiedono cultura, che però non trovano da nessuna parte. Non di certo in televisione, ma neppure all'Università, che è un luogo ancora poco aperto alla società. Ecco perché bisogna avviare la trasformazione delle università, come pure delle soprintendenze e dei musei, in luoghi capaci di parlare al pubblico. E invece non esiste neanche un museo della città, un luogo che racconti la nascita e lo sviluppo di Roma, e ai Fori, per fare un esempio, non c'è nemmeno una didascalia. I monumenti, le rovine in particolare, vanno spiegati per esser fruibili. Sono molte le persone potenzialmente interessate a questi argomenti,, basta metterle in condizione di capire. È questa la ragione profonda del successo di una manifestazione intelligente e accattivante come Lezioni di Storia».

Un'analisi, quella di Carandini, che però non è totalmente condivisa da Luciano Canfora: «Io farei attenzione all'uso di categorie tradizionali come ceto medio. L'altro giorno davanti all'Università - racconta l'ordinario in filologia latina e greca all'Università di Bari - mi ha fermato un operaio edile e mi ha detto: tu sei Canfora, vai sempre a parlare in tv di storia contemporanea. Anche i muratori si occupano di storia? No, alle classificazioni tradizionali non credo molto. Mi sembra piuttosto che si sia in presenza di un moderno e trasversale proletariato intellettuale. Studenti universitari, professori di liceo, tutta gente che pensa, che legge, che discute ma con pochissime possibilità economiche. Le classi tradizionali, magari con più disponibilità economica, dimostrano invece un certo conservatorismo».

Chi sono allora veramente quelle migliaia di cittadini che hanno deciso di passare le loro domenica ad ascoltare una lezione di storia romana?

«Non parlerei di ceti - afferma Andrea Giardina, docente di storia romana all'Istituto italiano di scienze umane e prossimo protagonista della manifestazione - ma piuttosto di una categoria trasversale di persone che si sentono diverse, quasi una comunità. Gente che coltiva una passione, un interesse, che si ritiene e si colloca "dalla parte del libro". Di certo, per uno come me che ha cominciato a occuparsi di storia romana quando le cose antiche interessavano solo pochi specialisti, è una grande soddisfazione».

Un successo che per il professor Giardina si motiva anche con dei dati caratteristici della città: «Sono oramai 30 anni che si è fermata l’immigrazione interna verso Roma. C'è tutta una generazione di nuovi romani in cerca della proprie radici, di un rapporto più intimo con la città. E poi non dobbiamo dimenticare che negli ultimi anni la capitale ha goduto di una politica culturale che non ha paragoni nel resto d'Italia e questo ha innegabilmente creato un contesto adatto a questo tipo di iniziative».

Impegnarsi in una seria politica culturale alla lunga paga. Un'affermazione che sembrerebbe in contrasto con certe classifiche che relegano l'Italia sempre agli ultimi posti in Europa per spese in cultura e numero di libri letti, «il quadro - dice Alessandro Laterza, consigliere delegato della casa editrice barese - è più frastagliato. È vero che in Italia abbiamo una vastissima fascia di popolazione che non legge nemmeno un libro in un anno ma è altresì vero che esiste una solida élite colta, calcoliamo intorno a tre milioni di persone, che legge e legge parecchio. li chiamiamo lettori forti e sono coloro che leggono 12 o più libri l'anno. Un dato che pone il nostro paese, contrariamente a quanto si pensa, al vertice delle graduatorie mondiali, n riscontro positivo ottenuto dalla nostra iniziativa all'Auditorium è evidentemente il segno di una tendenza all'accrescimento di questo segmento di lettori».

In Italia dunque esisterebbe ormai una classe ampia e numerosa, sensibile con la testa, e con il portafogli, ai temi della cultura. Persone che non hanno tempo di frequentare l'università o i musei (anche perché questi ultimi sono troppo spesso istituzioni polverose e assolutamente incapaci di comunicare e rendersi attraenti nei confronti di un pubblico vasto), e,come ha scritto Michele Serra su Repubblica, in fuga dalla tv.

«Non si vede perché - accusa Alessandro Laterza - per seguire una trasmissione che parli di storia bisogna rifugiarsi sul satellite o in orari da film pornografico. Sì, a mio avviso quella coda davanti all'Auditorium era formata anche da persone stufe di un modello televisivo consumato».

Riportare la storia in televisione dunque?
«Perché no - continua l'editore barese - la storia è racconto, narrazione, un genere che si adatta bene alla televisione».

Un suggerimento questo che pare già essere stato accolto dai vertici di viale Mazzini. È notizia di qualche giorno fa che dal prossimo settembre la seconda serata di Raiuno si aprirà alla storia. L'idea è una trasmissione gestita da un uomo di cultura capace di fare audience. Si parla di Benigni o proprio di Carandini o Canfora. E dalla fine di novembre, sempre in seconda serata, Raidue trasmetterà una volta alla settimana La storia siamo noi di Giovanni Minoli. L'età dei grandi fratelli e di isolotti indiscreti volge al termine?
Forse no, ma che anche sua maestà televisione si sia accorta che l'informazione colta non è roba da appestati è segno che qualcosa sta davvero cambiando.