giovedì 20 marzo 2008

Contro il passato armati di piccone

Andrea Giardina, André Vauchez
Il mito di Roma
Da Carlo Magno a Mussolini
Laterza
Il Sole - 24 ore - domenica 5 novembre 2000
Contro il passato armati di piccone

Se – per caso o per follia – fosse stato costruito, con le sue colonne e travi di vetro, con i suoi muri alti e stretti intarsiati di oscure lapidi e tenebrosi rilievi, oggi attirerebbe a Roma altrettanti visitatori della vicina Domus Aurea di Nerone. Sarebbe dovuto sorgere ai margini dei Fori, infatti, il Danteum, lo stravagante omaggio al «massimo poeta degli italiani» che il direttore della milanese Accademia di Brera nel 1938 aveva proposto di edificare a Roma in vista dell’Esposizione del 1942. Progettato dal più geniale architetto razionalista italiano – Giuseppe Terragni – insieme al suo socio e amico Pietro Lingeri, l’edificio si proponeva di tradurre in un enigmatico labirinto di pietra la profezia imperiale di Dante inscenandone la complessa architettura del viaggio dal Purgatorio al Paradiso sino alla grande sala dedicata alla rinascita del nuovo Impero Romano: «L’Impero Universale e Romano – si leggeva infatti nella relazione consegnata a Mussolini il 10 novembre 1938 – quale fu intravisto e preconizzato da Dante è lo scopo ultimo e l’unico rimedio per salvare dal disordine e dalla corruzione l’umanità e la Chiesa».

Raffigurata da Sironi nelle squadrate fattezze del «Veltro», l’allegoria del Duce come regista della renovatio urbis ricondotta alla sua “naturale” vocazione di caput mundi, rappresentava il coup de théâtre di un percorso iniziatico dentro una macchina del tempo paradossalmente sospesa, tuttavia, nell’universo astratto e congelato di uno spazio senza coordinate reali, dove la politica trascolorava nell’estetica e la storia nel mito. A rendere ancor più significativa questa allucinata «camera della memoria» contribuiva inoltre la sua collocazione lungo via dell’Impero (l’attuale via dei Fori Imperiali); avendo proprio di fronte l’imponente rudere della Basilica di Massenzio, a due passi dalle perfetta ellisse del Colosseo, il Danteum sarebbe stata la prova della capacità dell’architettura italiana di misurarsi con il fantasma dell’antico, non già riproponendone fattezze e stilemi, ma reincarnandone spirito, audacia e grandiosità. Naufragato, al pari della Terza Roma dell’Eur, nei drammi della guerra, il Danteum fu forse l’espressione più determinata e allucinata di quella fascinazione classica che l’architettura, al pari della pittura, della scultura e della letteratura, per tutto il corso del famigerato ventennio espresse nel culto “moderno” dell’immagine di Roma e su cui il Regime aveva puntato con l’adozione di un’iconografia tanto complessa quanto d’effetto nella sua suggestione di massa. Dall’“invenzione” dei fasci littori alla “rivoluzione” del “passo romano”, dall’istituzione del Natale di Roma (1923) alle celebrazioni dei bimillenari virgiliano (1930), oraziano (1935) e augusteo (1937), dalle innovazioni della toponomastica all’impulso dato all’attività costruttiva e alla fondazione di nuove città (Mussolinia, Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, eccetera), il messaggio del «carattere epocale del regime intriso di romanità» si concretava così nella sistematica occupazione fascista del tempo e dello spazio. «Celebrando dopo duemila anni le grandi figure della cultura e della politica romane, il regime – scrive Andrea Giardina – valorizzava le simmetrie e le analogie tra il presente e il passato e conferiva un carattere di eternità alla propria opera».

Non si trattava quindi di un’operazione nostalgica ma di un preciso progetto di «estetizzazione» della politica lanciata all’«assalto della storia»: obiettivo finale era la creazione di un “ordine nuovo” e di un “uomo nuovo”, in parte legato al passato remoto delle sue origini romane, in parte originale creatura proiettata nel futuro. Per spiegare l’apparente contraddizione di una rivoluzione che si proponeva come revival, bisogna infatti ricordare con Emilio Gentile che «il mito per la cultura fascista non era una forma mentale confinabile nel mondo arcaico o in uno stadio primitivo della mentalità, ma era una forma strutturale del pensiero umano, quale si esprimeva soprattutto nelle creazioni artistiche e nei movimenti religiosi, ma in forma altrettanto rilevante nel mondo della politica». Il che aiuta a comprendere il consenso che artisti e architetti tributarono all’immagine del Duce come motore di una modernizzazione che poneva l’espressione artistica al centro di un programma di educazione estetica delle masse: «Il carattere non pedante e non erudito del rapporto tra il fascismo e la romanità», spiega Giardina, fu più volte ribadito sia da Mussolini che da Bottai e «il senso fascista della romanità prescindeva dai libri, perché era soprattutto azione e intuizione».

Fu certo questo carattere, per così dire, operativo che attrasse le frange più audaci della giovane architettura italiana e le mire dello stesso Le Corbusier ansioso di accreditarsi presso lo stesso Mussolini come possibile protagonista dell’attiva politica urbanistica del Regime. E se questa, secondo Giardina, si espresse nella «vocazione intimidatoria» del cosiddetto «piccone demolitore», non va dimenticato come le sue caratteristiche principali e financo la sua impostazione metodologico-disciplinare derivavano a loro volta dalla tradizione Sette-Ottocentesca dell’igienismo sociale quale si era espresso nelle utopie di Ledoux, ad esempio, o nella Parigi di Haussmann. L’averle bagnate nelle acque del Tevere fu allo stesso tempo un calcolo politico e un proponimento culturale. rispondendo all’esigenza del Regime di sottolineare l’originalità endogena della “via italiana” e a quella del razionalismo nostrano di rivendicare la classicità come caratterizzazione italiana della vocazione globalizzante del funzionalismo nordico.

Fulvio Irace