giovedì 20 marzo 2008

ROMOLO e REMO Perché una civiltà si fonda sul mito

ANDREA CARANDINI

ROMOLO e REMO Perché una civiltà si fonda sul mito

VENERDÌ 23 NOVEMBRE 2007 DIARIO DI REPUBBLICA
Quando penso a miti come quello di Roma riconosco l’infinita potenza della finzione creduta vera e della verità riplasmata, che nulla hanno che fare con la contraffazione, trattandosi di manipolazioni che partono da una realtà per conferirle stabilità, assolutezza e capacità di coinvolgimento. Non è immaginabile il Cristianesimo fuori dalla credenza in un uomo anche dio, figlio di un padre divino e di una vergine. Per l’uomo secolarizzato e lo storico non è tanto importante che un seme sia stato trasferito, tramite uno spirito, dalla divinità nel seno di Maria, quanto che quella novella abbia trasformato una parte decisiva del mondo rifondandone i valori. Così anche Roma, una città-stato divenuta un impero, non è pensabile senza Romolo, semidivino e divinizzato in Quirino, figlio di Marte e della vergine Rea Silvia - principessa di Alba Longa - tanto che nel passaggio all’impero Augusto ha voluto assimilarsi al fondatore. Infatti ‘augusto’ significa l’inaugurato, il benedetto da Giove, come lo era stato il primo re della città. E come Romolo è figlio di Marte, così Augusto si fa passare per figlio di Apollo. E Augusto costruisce il suo palazzo davanti alla capanna di Romolo e probabilmente sopra al Lupercale, dove il fondatore era stato salvato dall’esposizione, nutrito da antenati in forma di animali - il picchio e la lupa - perché potesse fondare Roma. È come se per creare qualcosa di grande, duraturo e caro agli dei servisse un essere più che umano, un eroe. Un eroe è definito da una vita composta a patchwork di motivi mitici, come quelle di Teseo, pensando ad Atene, e di Romolo, pensando a Roma. I temi del repertorio eroico sono pochi ma conoscono infinite varianti, come gli schemi delle favole studiati da Propp. Ma il Propp dei miti classici deve ancora venire, anche se ha avuto un precursore in Angelo Brelich, uno dei nostri giganti dimenticati, perché accusato a suo tempo - un tempo stupido - di ‘irrazionalismo’. La leggenda di Remo e Romolo, che stiamo pubblicando e analizzando (Fondazione Valla, Mondadori 2006 e seguenti) è una stratigrafia plurisecolare, il cui livello più antico risale probabilmente alla seconda metà dell’VIII secolo a. C. o poco dopo. Si tratta di un insieme di motivi mitici e di imprese autentici, confermati da elementi esterni alla tradizione quali la storia delle religioni, la linguistica e l’archeologia. Gli annalisti, antiquari e poeti che hanno tramandato la leggenda sono vissuti tra il II secolo a. C. e Augusto, tardi rispetto alle origini che raccontano, ma i materiali di cui si avvalgono fanno parte della memoria culturale dei Romani, patrimonio di una aristocrazia che sprofonda nel tempo, che sovente non ha molto a che fare con l’epoca in cui quei letterati sono vissuti: più che creatori originali sono stati trasbordatori di ricordi codificati, salvo gli apporti tardi riconoscibili. Del nucleo autentico della leggenda fanno parte alcuni temi mitici - come la nascita e l’allattamento miracolosi, la fondazione della città dal nulla - che sono strutture mentali messe in opera da principio e che non hanno più smesso di operare, ma che non hanno riscontro nella realtà effettuale. Infatti aveva preceduto Roma il Septimontium(secondo gli antiquari) o il ‘centro protourbano’ (secondo gli archeologi) e il primo re della città non era stato allattato da una lupa, ma gli era riuscito di farlo credere, che è quanto importa. Al contrario il ruolo di Alba Longa nella leggenda è reale e deve precedere il cuore del VII secolo a. C., quando quella metropoli annalisticamente e archeologicamente scompare e ha inizio la fortuna di Lavinio. Anche le imprese di Romolo sono terrene, realistiche e trovano riscontro nei monumenti. Ad esempio, dal 775- 750 a. C. il Palatino - narrato come benedetto e protetto da un murus - appare circondato da mura, le cui porte sono state riproposte fino all’età di Nerone. Analogamente il Santuario principale del Foro, quello di Vesta - ospitante i culti regi e la dimora dei primi re - restituisce dal 750 a. C. circa attestazioni archeologiche clamorose (si veda il mio Roma. Il primo giorno, Laterza, 2007). Quindi è storicamente esistita una cittadella regia sul Palatino e un centro religioso e politico della città tra Foro e Campidoglio, che presuppongono un’autorità centrale potente: quella del rex-augur che nel corso di una vita ha creato la città, per cui si tratta della ‘fondazione’ di uno stato e non di una lenta ‘formazione’. Per capire le origini delle civiltà bisogna conoscere i miti del giorno d’oggi - come quello dell’eternità della civiltà borghese, descritto da Barthes - e liberarsi dall’assolutismo razionalistico. È questione di entrare nella selva del vero, del finto e del falso, ricordandoci che prima viene il vero e il finto mentre il falso si aggiunge dopo, quando la coscienza mitica collettiva si affievolisce e prevalgono le contraffazioni di gruppo. Pochi sono gli storici che hanno fatto una tale esperienza. Ho voluto invece sottopormi all’iniziazione di una comunità che vive ancora nell’oceano dei miti, quella di Kitawa in Melanesia, studiata da Giancarlo Scoditti (Bollati Boringhieri, 2003). Studiare Buddha - altra nascita miracolosa - e Romolo - anche lui riformatore di un politeismo più antico - serve a capire che nulla di duraturo e legante si può fondare se non interviene una logica altra rispetto a quella aristotelica, capace di piantare nella coscienza punti fermi in grado di eternizzare eventi fondamentali. Un unico mito divino i primi Romani non hanno potuto cancellare - la riforma romulea è consistita appunto nella ‘demitizzazione’ -, quello di Marte fecondatore di Rea Silvia, perché se Romolo non fosse stato figlio di un dio non avrebbe potuto istituire la città-stato e il suo ordinamento. La Rivoluzione francese è il nostro mito fondatore: Luigi XVI doveva morire per arrivare a una monarchia costituzionale; come Remo è morto per la stessa ragione. E anche i valori della rivoluzione sono stati eternizzati, e infatti perdurano oltre la classe sociale che li ha voluti. Roma è il luogo dove la memoria si è più conservata - è meglio conosciuta di Atene - per cui costituisce la palestra ideale per cimentarci nell’intendere opere e azioni umane, a partire da quelle sottratte all’usura del tempo, che si radicano nell’arcaismo tramontato e in quello ancora operante in noi. E mentre sopravvivono le lamentele degli studiosi ipercritici, che ripetono che nulla si può sapere della prima Roma, il sottosuolo restituisce flutti di nuove informazioni che risalgono all’età del Bronzo. Ricomporre distinguendo e raccordando questa immensa congerie è il compito di noi archeologi. Può esserci un mestiere più affascinante? Quando stanchi e frustrati dalla vita quotidiana ci soffermiamo sulla ‘mitistoria’, che è poi una storia integralmente intesa, è come se ci rigenerassimo, riprendendo la vita nella sua ampiezza, fatta di libertà ma anche di identità. Se i giovani accorrono all’Auditorium o al Colosseo per ascoltare ricerche storiche in diretta non è forse per arricchire vite banali che vorrebbero la grandezza?