Corriere della Sera 26.3.08
Le due civiltà. L'acculturamento dell'aristocrazia terriera. Non appoggiato da tutti
E Roma si divise sullo stile «alla greca»
di Eva Cantarella
La critica di Plinio: «Noi viaggiamo per strade e mari per vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi...»
Nel 167 a. C. Lucio Emilio Paolo, il conquistatore della Macedonia, «decise di visitare la Grecia — racconta Livio — per vedere quelle bellezze che erano state magnificate alle sue orecchie come superiori a quanto l'occhio umano potesse contemplare». I romani, ormai, avevano imparato ad apprezzare le opere d'arte greche, inizialmente ammirate come trofei di guerra. Al termine della seconda guerra punica, il generale Marco Claudio Marcello aveva fatto sfilare nelle strade della città, durante il trionfo, le opere d'arte trafugate nel 212 a.C. a Siracusa. In età precedente, scrive Strabone, i romani, «presi da cose più grandi e più necessarie, non avevano mai prestato attenzione alla bellezza». Ma poi le cose cambiarono. Tra il periodo tardo repubblicano e quello imperiale un numero crescente di opere greche giunse a Roma: nel 146 a.C., in un portico fatto costruire appositamente, vennero collocate le splendide statue di Lisippo raffiguranti Alessandro Magno e i suoi ufficiali morti nella battaglia di Granico. Altre opere vennero esposte in altri portici, nei templi, alle porte di questi, e con il tempo trovarono collocazione anche nelle abitazioni. Il collezionismo privato si diffuse al punto da preoccupare Cicerone: è ingiusto ed egoista, scrisse, segregare tante meraviglie, impedendone il godimento ai meno fortunati (evidentemente, in quel momento non pensava alla splendida collezione che conservava nella sua villa di Tuscolo). Roma non era più quella di un tempo, ma i romani non si accontentavano di quel che vedevano nella loro città: come Emilio Paolo, volevano visitare la Grecia, vedere l'Afrodite di Prassitele, Europa su Toro di Pitagora di Reggio, i dipinti del grande pittore Apelle. Secondo Plinio il Giovane il turismo culturale era diventata una moda per molti aspetti criticabile: «Noi viaggiamo per strade e mari per vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi... ». Ma la Grecia era diventata il luogo ideale e irrinunciabile della formazione culturale: da Cicerone a Cornelio Nipote, da Varrone a Lucullo, da Cesare a Virgilio, da Augusto a Orazio a Properzio, tutti gli intellettuali la visitavano. Ma non tutti i romani condividevano questo amore.
Dopo le guerre puniche, pur essendo divenuta una superpotenza mediterranea, Roma continuava a essere dominata da poche famiglie aristocratiche, la cui ricchezza era basata sulla proprietà terriera. Molti esponenti di questa nobiltà stentavano a staccarsi dall'orizzonte provinciale in cui erano nati i costumi dei loro antenati, educati alla guerra e temprati al sacrificio: l'arte, per questi nostalgici dei bei temi andati, era parte di una nuova cultura che rischiava di corrompere lo stile di vitache aveva fatto grande Roma. Il secondo secolo a.C. vide dunque un imponente scontro tra due opposte tendenze: da un lato i tradiziona-listi, il cui maggior esponente era Catone il Censore; dall'altro alcuni circoli della medesima nobiltà (celebre quello degli Scipioni), per i quali il confronto con le culture diverse, in particolare quella greca, era indispensabile perché Roma potesse svolgere il suo nuovo compito.
Evidentemente, la prima posizione era destinata alla sconfitta: l'influenza culturale greca, definita da Cicerone «un fiume impetuoso di civiltà e di dottrina» ebbe il sopravvento.
Graecia capta — scrisse Orazio — ferum victorem cepit: la Grecia conquistata conquistò il rude vincitore. I romani sapevano bene quanti fossero i loro debiti verso i greci.
Tutto era cambiato: le abitazioni, più ampie, aperte a giardini e paesaggi; i mobili, le suppellettili. Con lo stile abitativo erano cambiati lo stile di vita e i rapporti sociali: i nobili si scambiavano visite nelle loro ville sul golfo di Napoli o sulle colline attorno a Roma, offrivano banchetti luculliani, gareggiando in lusso. Il rinvio alla cultura greca era costante: a Pompei, sulle pareti della «Casa del Menandro» erano raffigurate le scene più celebri dell'Iliade; nella «Casa del Poeta Tragico» il sacrificio di Ifigenia era la copia di un quadro del celebre pittore greco Timante. Gli esempi potrebbero continuare, ovviamente. Ma, tutto ciò premesso, resta da dire che sarebbe sbagliato sia pensare ai romani, prima dell'incontro con i greci, come a un popolo assolutamente incolto, sia pensare alla cultura della Roma ellenizzata come a una cultura priva di ogni originalità. I debiti dall'esterno vengono sempre elaborati, sino a diventare, a volte, rielaborazioni creative. Per limitarci alla pittura: fu a Roma, e non in Grecia, che nacque il ritratto. La cultura romana, certamente conquistata dai greci, ci riconduce a una Grecia vista dai romani, vale a dire vista da una cultura diversa, certamente eclettica, ma comunque romana.
Le due civiltà. L'acculturamento dell'aristocrazia terriera. Non appoggiato da tutti
E Roma si divise sullo stile «alla greca»
di Eva Cantarella
La critica di Plinio: «Noi viaggiamo per strade e mari per vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi...»
Nel 167 a. C. Lucio Emilio Paolo, il conquistatore della Macedonia, «decise di visitare la Grecia — racconta Livio — per vedere quelle bellezze che erano state magnificate alle sue orecchie come superiori a quanto l'occhio umano potesse contemplare». I romani, ormai, avevano imparato ad apprezzare le opere d'arte greche, inizialmente ammirate come trofei di guerra. Al termine della seconda guerra punica, il generale Marco Claudio Marcello aveva fatto sfilare nelle strade della città, durante il trionfo, le opere d'arte trafugate nel 212 a.C. a Siracusa. In età precedente, scrive Strabone, i romani, «presi da cose più grandi e più necessarie, non avevano mai prestato attenzione alla bellezza». Ma poi le cose cambiarono. Tra il periodo tardo repubblicano e quello imperiale un numero crescente di opere greche giunse a Roma: nel 146 a.C., in un portico fatto costruire appositamente, vennero collocate le splendide statue di Lisippo raffiguranti Alessandro Magno e i suoi ufficiali morti nella battaglia di Granico. Altre opere vennero esposte in altri portici, nei templi, alle porte di questi, e con il tempo trovarono collocazione anche nelle abitazioni. Il collezionismo privato si diffuse al punto da preoccupare Cicerone: è ingiusto ed egoista, scrisse, segregare tante meraviglie, impedendone il godimento ai meno fortunati (evidentemente, in quel momento non pensava alla splendida collezione che conservava nella sua villa di Tuscolo). Roma non era più quella di un tempo, ma i romani non si accontentavano di quel che vedevano nella loro città: come Emilio Paolo, volevano visitare la Grecia, vedere l'Afrodite di Prassitele, Europa su Toro di Pitagora di Reggio, i dipinti del grande pittore Apelle. Secondo Plinio il Giovane il turismo culturale era diventata una moda per molti aspetti criticabile: «Noi viaggiamo per strade e mari per vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi... ». Ma la Grecia era diventata il luogo ideale e irrinunciabile della formazione culturale: da Cicerone a Cornelio Nipote, da Varrone a Lucullo, da Cesare a Virgilio, da Augusto a Orazio a Properzio, tutti gli intellettuali la visitavano. Ma non tutti i romani condividevano questo amore.
Dopo le guerre puniche, pur essendo divenuta una superpotenza mediterranea, Roma continuava a essere dominata da poche famiglie aristocratiche, la cui ricchezza era basata sulla proprietà terriera. Molti esponenti di questa nobiltà stentavano a staccarsi dall'orizzonte provinciale in cui erano nati i costumi dei loro antenati, educati alla guerra e temprati al sacrificio: l'arte, per questi nostalgici dei bei temi andati, era parte di una nuova cultura che rischiava di corrompere lo stile di vitache aveva fatto grande Roma. Il secondo secolo a.C. vide dunque un imponente scontro tra due opposte tendenze: da un lato i tradiziona-listi, il cui maggior esponente era Catone il Censore; dall'altro alcuni circoli della medesima nobiltà (celebre quello degli Scipioni), per i quali il confronto con le culture diverse, in particolare quella greca, era indispensabile perché Roma potesse svolgere il suo nuovo compito.
Evidentemente, la prima posizione era destinata alla sconfitta: l'influenza culturale greca, definita da Cicerone «un fiume impetuoso di civiltà e di dottrina» ebbe il sopravvento.
Graecia capta — scrisse Orazio — ferum victorem cepit: la Grecia conquistata conquistò il rude vincitore. I romani sapevano bene quanti fossero i loro debiti verso i greci.
Tutto era cambiato: le abitazioni, più ampie, aperte a giardini e paesaggi; i mobili, le suppellettili. Con lo stile abitativo erano cambiati lo stile di vita e i rapporti sociali: i nobili si scambiavano visite nelle loro ville sul golfo di Napoli o sulle colline attorno a Roma, offrivano banchetti luculliani, gareggiando in lusso. Il rinvio alla cultura greca era costante: a Pompei, sulle pareti della «Casa del Menandro» erano raffigurate le scene più celebri dell'Iliade; nella «Casa del Poeta Tragico» il sacrificio di Ifigenia era la copia di un quadro del celebre pittore greco Timante. Gli esempi potrebbero continuare, ovviamente. Ma, tutto ciò premesso, resta da dire che sarebbe sbagliato sia pensare ai romani, prima dell'incontro con i greci, come a un popolo assolutamente incolto, sia pensare alla cultura della Roma ellenizzata come a una cultura priva di ogni originalità. I debiti dall'esterno vengono sempre elaborati, sino a diventare, a volte, rielaborazioni creative. Per limitarci alla pittura: fu a Roma, e non in Grecia, che nacque il ritratto. La cultura romana, certamente conquistata dai greci, ci riconduce a una Grecia vista dai romani, vale a dire vista da una cultura diversa, certamente eclettica, ma comunque romana.