Alberto Magnani
La battaglia del Frigido (5-6 settembre 394)
Da Rid-Rivista Italiana Difesa, agosto 2001, pagina 94-97
La battaglia del Frigido (5-6 settembre 394)
Da Rid-Rivista Italiana Difesa, agosto 2001, pagina 94-97
La battaglia del Frigido appartiene a quel gruppo di avvenimenti che si prestano a divenire punto di riferimento per indicare il trapasso dal mondo antico alla Tarda Antichità o al Medioevo.
In due giorni, il 5 e il 6 settembre 394, l’imperatore cattolico Teodosio, alla testa dell’esercito romano-orientale, sconfisse le forze dell’Impero d’Occidente, guidate dall’imperatore pagano Flavio Eugenio e dal suo generale Arbogaste. Per l’ultima volta un esercito romano si batté sotto le insegne di Giove, e fu vinto: da allora si può dire che sia stata decretata la fine del paganesimo. L’importanza dello scontro dal punto di vista politico-religioso ne ha offuscato i notevoli aspetti di interesse sul piano militare. Le fonti antiche, in particolare Rufino e Paolo Orosio, interpretano la dinamica dei fatti secondo una visione provvidenzialistica: Dio volle la vittoria dei cristiani e li sottrasse alla disfatta scatenando una tormenta di bora contro i soldati pagani. Questa interpretazione non aiuta a capire le scelte tattiche di Teodosio, che apparirebbero del tutto assurde. Per una descrizione in cui riemergano le competenze militari del celebre imperatore, ci si deve rivolgere a Zosimo, fonte che, peraltro, gli è personalmente ostile. Chiunque si accinga a una ricostruzione dei fatti non può comunque esimersi da un sopralluogo sul teatro della battaglia per rendersi pienamente conto di come la conformazione del luogo faccia del Frigido uno dei più singolari scontri terrestri della storia romana.
I presupposti della battaglia
Dopo la disastrosa disfatta di Adrianopoli. nella quale i Romani furono sconfitti dai Goti e cadde lo stesso imperatore Valente (378), Graziano, che governava l’Occidente, rimase unico padrone dell’Impero.
Tuttavia nominò immediatamente un collega cui affidare l’Oriente e lo scelse nella persona del trentenne Teodosio. Questi raggiunse un accordo con i Goti, accettando la realtà di fatto di un loro insediamento sul territorio romano e ottenendo, in cambio, la disponibilità a fornirgli contingenti di truppe.
Teodosio ebbe modo di avvalersi dell’aiuto militare goto dapprima nella guerra contro l’usurpatore Magno Massimo, che si era impadronito dell’Occidente dopo la morte di Graziano (383), quindi contro gli autori della “rivoluzione pagana” del 392. La caratterizzazione ormai accentuatamente cattolica dell’impero aveva infatti provocato una vivace reazione in estesi settori del Senato di Roma, legati alle tradizioni pagane. I nostalgici raggiunsero un’intesa con un potente generale di origine franca, Arbogaste: nel maggio del 392 l’imperatore d’Occidente Valentiniano Il, fratello minore di Graziano, fu eliminato e sostituito da Flavio Eugenio, un intellettuale vicino ai circoli pagani. Arbogaste divenne l’uomo forte della situazione, lasciando ampia facoltà al Senato di adottare una politica anticattolica. Abortito un tentativo di trattativa, nell’estate del 394 Teodosio mosse da Costantinopoli verso l’italia alla testa delle proprie truppe. A loro volta, Eugenio e Arbogaste mobilitarono le forze disponibili e marciarono in direzione dell’Istria. Lo scontro avvenne a metà del tratto di strada militare che collegava Aquileia ad Emona (Lubiana), nell’attuale Slovenia.
Le forze in campo
L’esercito occidentale era comandato da Arbogaste in quanto Eugenio, ex funzionario di Stato ed ex insegnante nelle scuole di retorica, non aveva competenze militari e, di fronte alle truppe, svolgeva un ruolo puramente simbolico. A! contrario, Arbogaste era un ottimo generale: ufficiale agli ordini di Graziano, prima, poi dello stesso Teodosio, aveva avuto parte nella sconfitta di Magno Massimo e individuato con lucidità gli errori di quest’ultimo. Massimo, infatti, aveva sottovalutato l’importanza strategica dei Claustra Alpium Juliarum, il complesso difensivo creato a nord-est dell’Italia a partire dal III secolo. Lasciando sguarnite le fortificazioni di quel settore, aveva infatti agevolato l’ingresso in Italia dell’avversario, finendo con il trovarsi rinchiuso e assediato dentro le mura di Aquileia. Arbogaste badò bene ad assicurarsi il controllo dei Claustra, elaborando un piano per intrappolare Teodosio tra i valichi alpini.
Da parte sua, Teodosio era un comandante altrettanto esperto, pur non essendo al meglio delle proprie facoltà: non godeva, infatti, di ottima salute ed era moralmente provato dalla scomparsa della giovanissima moglie, Galla, morta di parto insieme al bambino che portava in grembo all’inizio del 394. il lutto aveva provocato un rinvio della spedizione, regalando tempo prezioso ad Arbogaste. Ciascuno dei due eserciti poteva schierare diverse migliaia di uomini. Teodosio aveva ricevuto dai Goti un contingente che, secondo alcune fonti, comprendeva ventimila uomini, posti agli ordini di Gainas. Questi svolgeva funzioni di ufficiale di collegamento tra Io Stato Maggiore romano e il contingente goto, che conservava il proprio capo nazionale: probabilmente Alarico, futuro avversario dei Romani. Marciavano con i Goti reparti di Alani, che costituivano un corpo specializzato di arcieri a cavallo, agli ordini di un ufficiale di nome Saul, e le truppe regolari romane. L’Imperatore aveva nominato Timasio capo del proprio Stato Maggiore, in cui figuravano Bacurio - uno dei pochi ufficiali scampati al disastro di Adrianopoli - e Stilicone, destinato a svolgere un ruolo politico-militare determinante negli anni successivi. Da parte sua Arbogaste aveva arruolato soldati soprattutto in Gallia, ottenendo truppe dagli alleati Franchi. Si trattava, dunque, di eserciti tipici del tardo Impero Romano, caratterizzati da un ruolo significativo degli ausiliari barbari e dall’impiego tattico della fanteria leggera. Legionari romani e guerrieri barbari, del resto, tendevano sempre più ad assomigliarsi: dopo la riforma militare di Costantino, le corazze andavano scomparendo e il cuoio prendeva il posto delle piastre metalliche, I barbari, da parte loro, adottavano spade ed elmi di foggia o fabbncazione romana.
La dinamica dello scontro
Ai primi di settembre deI 394, l’esercito di Teodosio giunse in prossimità dei Claustra Alpium Juliarum. Il tratto di strada che si preparò a forzare si trovava a sud di Emona e si articolava sulle due piazzaforti di Nauportus (attuale Vrhnika) e Castra ad fluvium Frigidum (Ajdovscina): per raggiungere la seconda e quindi puntare sulla pianura friulana attraverso la Valle del Vipacco, era necessario oltrepassare un valico presidiato dalla fortezza di Castrum ad Pirum (Hrusica), posta a circa ottocento metri di altitudine. Teodosio la raggiunse - pare -senza incontrare difficoltà: ma ciò corrispondeva al piano di Arbogaste che, intanto, aveva occupato Castra ad Frigidum e sbarra- Castra to la Valle del Vipacco. Teodosio, a quel punto, era imbottigliato a Castrum ad Pirum, in una situazione critica. Come srive Paolo Orosio: “bloccato sulle vette delle Alpi, non poteva ricevere rifornimenti né rimanere a lungo sulle sue posizioni”. Per proseguire, avrebbe dovuto condurrre un atttacc contro avversario saldamente attestao settecento metri più in basso, lanciando i propri uomini alla disperata giù per i fianchi della montagna. L’alternativa, era ripiegare, ma Arbogaste aveva inviato un proprio ufficiale, Ambizione, a tagliare la ritirata, occupando la strada alle spalle di Teodosio.
Frenetiche riunioni dello Stato Maggiore dovettero svolgersi tra le mura di Castrum ad Pirum. Infine Teodosio decise di giocare il tutto per tutto. All’alba deI 5 settembre l’esercito riprese la marcia, avanzando per una quindicina di chilometri, e si portò a
un’altitudine di circa seicento metri, presso una postazione fortificata situata poco oltre l’attuale paese di Col. Proseguendo lungo la strada militare, l’esercito di Teodosio avrebbe dovuto condurre un attacco diretto su Castra ad Frigidum, calando per un pendio scosceso in uno spazio ristretto: gli uomini di Arbogaste avrebbero potuto respingerlo con facilità, appoggiandosi alla linea difensiva imperniata sulla città e sul torrente che la lambiva. Inoltre, macchine da lancio erano certamente in dotazione alla guarnigione di Castra, e pronte a essere usate contro gli attaccanti.
Per questi motivi, è più credibile che Teodosio preferisse deviare dalla strada e tentare la di-
scesa in valle attraverso l’ampia conca che si apriva alla sua sinistra, digradando sino a Castrum Minor (Vipacco). Lo stesso Arbogaste doveva aver tenuto in conto tale eventualità, predisponendo difese anche in quel settore. In ogni caso, dunque, si trattava di un attacco praticamente suicida, come i fatti dimostrarono. Attacco la cui forza d’urto principale fu rappresentata dai ventimila ausiliari goti.
Nel pomeriggio del 5 settembre i Goti iniziarono a scendere superando il dislivello di circa cinquecento metri, marciando in linea di colonna lungo i fianchi delle montagne: non potevano dispiegare le proprie forze, né manovrare, né giovarsi dell’appoggio tattico della cavalleria. Via via che giungevano a valle, le truppe di Arbogaste erano pronte a caricarli e abbatterli con tutta comodità. Le fonti parlano di diecimila caduti nel contingente goto: il 50% della forza. Verso sera Teodosio ordinò di sospendere le operazioni.
L’esercito di Arbogaste, contemplando il massacro di Goti, credette di aver vinto la battaglia. Eugenio alimentò gli incauti entusiasmi distribuendo onoreficenze: si festeggiò ci fu allegria e si perse la concentrazione, Era quanto, verosimilmente, si aspettava Teodosio, che aveva riservato per l’indomani un secondo attacco, quello vero, affidato soprattutto alle truppe regolari romane. La scelta di sacrificare i Goti, forse, non era stata casuale: dopo Adrianopoli i Romani subivano la loro alleanza e ridimensionarne la forza non poteva che giovare all’impero. Lo stesso Orosio non ha nulla da eccepire in merito: “averli persi fu un gran bene e una vittoria il fatto che fossero vinti”.
Inoltre Teodosio aveva segnato un altro punto a proprio favore ottenendo la defezione di Arbizione, l’ufficiale che avrebbe dovuto sbarrargli la ritirata. Arbizione doveva assalire Teodosio alle spalle: manovra che, dopo il disastroso esito del pomeriggio di battaglia, nelle speranze di Arbogaste sarebbe stata decisiva. Invece l’ufficiale mise le proprie forze a disposizione di Teodosio, “indotto a soggezione dalla presenza dell’imperatore”, scrive Orosio. O forse convinto dopo trattative intercorse nella notte. All’alba del 6settembre Teodosio scatenò il secondo attacco. Lo guidò Bacurio, l’ufficiale forse più motivato, dato che, sedici anni prima, aveva avuto una parte di responsabilità nel disastro di Adrianopoli: era giunta per lui l’occasione di riscattarsi, I legionari iniziarono la discesa coperti dalle tenebre e assalirono le linee avversarie di sorpresa. Bacurio, scrive Rufino “si aprì un varco tra le schiere dense e serrate dei nemici. Sfondò le loro linee e avanzò tra caterve di morti, in mezzo a migliaia di soldati che cadevano uno dopo l’altro, sino all’usurpatore”.
La prosa altisonante di Rufino esprime l’asprezza del secondo giorno di battaglia. Malgrado l’effetto sorpresa, le truppe di Arbogaste erano ancora in grado di organizzare una difesa e tentare di recuperare il vantaggio, grazie alla posizione favorevole. Fu in questa fase che si inserì la bora. Nella valle del Vipacco la bora può soffiare in qualunque stagione dell’anno, raggiungendo velocità di 80-100 chilometri orari e anche oltre. Era stata la presenza di questo vento a indurre i Romani ad abbandonare una precedente linea di comunicazione lungo la valle e a costruire la strada che s’inerpicava sino a Castrum ad Pirum per giungere a Castra.
La direzione della bora - vento da nord-est -faceva sì che soffiasse alle spalle dei soldati di Teodosio e frontalmente a quelli di Arbogaste. Gli effetti delle raffiche di vento sono così descritti da Orosio: “I dardi scagliati per mano dei nostri ricevevano una spinta per aria superiore alle forze umane e non cadevano quasi mai se non infliggendo colpi più profondi. Inoltre quel turbine di vento, strappando gli scudi, sferzavai volti e i petti dei nemici”. Il vento, per di più, scompaginava le formazioni di Arbogaste e rigettava indietro le loro frecce.
Non è possibile determinare in che misura la bora abbia condizionato il risultato della battaglia. La tattica di Teodosio, basata sul secondo attacco a sorpresa, aveva forse già riequilibrato l’iniziale inferiorità. Non trascurabile era poi stato i! peso della diserzione di Arbizione. Con queste premesse, la bora trasformò la sconfitta dell’esercito pagano in disfatta totale. Eugenio, catturato, “fu condotto con le mani legate dietro la schiena ai piedi di Teodosio. E questa fu la fine, della sua vita e della battaglia”, conclude Rufino.
Eugenio venne decapitato. La testa dell’ultimo imperatore pagano, infissa su una lancia, fu portata in trionfo e mostrata alle truppe. Ogni resistenza cessò e la città di Castra aprì le porte al vincitore. Arbogaste riuscì a fuggire ma i soldati di Teodosio lo braccarono due giorni in mezzo ai monti: infine, vistosi perduto, si uccise. Teodosio, ormai, era padrone di tutto l’Impero Romano.
Conseguenze della battaglia
Come s’è detto, il principale significato della battaglia del Frigido fu l’aver rappresentato la fine ufficiale del paganesimo classico. La riunificazione delle due parti dell’Impero Romano, Oriente e Occidente, durò ben poco, in quanto Teodosio morì soltanto quattro mesi più tardi, a Milano, il 17 gennaio 395. L’impero venne nuovamente diviso, come già era stato predisposto, tra i suoi due figli Onorio e Arcadio. In Occidente Teodosio mantenne il sistema di governo realizzato nel breve periodo di Eugenio e Arbogaste: affiancò alla figura dell’Imperatore quella di un dittatore militare, nella persona di Flavio Stilicone. Da quel momento, tutti gli Imperatori d’Occidente persero le effettive prerogative militari a favore di un generale, spesso di origine barbara, che finì per diventare arbitro dell’impero. Solo Maggioriano (cfr. RID 4/98) tentò, invano, di superare il dualismo: il suo fallimento accelerò il tramonto del potere imperiale in Occidente. La conseguenza più negativa riguardò il rapporto con i Goti. Dopo il pesante tributo di sangue offerto in occasione della battaglia, i Goti alzarono il prezzo della loro alleanza con i Romani. Non incontrando soddisfazione, trovarono in Alarico un capo disposto a guidarli alla rivolta: la loro “protesta armata”, come è stata definita, fiaccò l’esercito romano per quindici anni e culminò nel sacco di Roma del 410. In seguito un accordo fu raggiunto, ma l’Impero d’Occidente uscì gravemente indebolito dalla prova.