Foro e Palatino, Carandini e l'avventura dell'archeologia
Oliviero La Stella
Il Messaggero, 05-APR-2006
ALTO, eretto, elegante nel suo abito sportivo, Andrea Carandini con il piglio di chi è di casa incede fra le migliaia di turisti che affollano il Foro Romano, alcuni dei quali sembrano storditi e disorientati da tanta storia che li circonda. Con altrettanta sicurezza salta agilmente oltre le recinzioni, che proteggono le aree interdette ai visitatori. Infine si ferma e si siede su un gradino di marmo. «Ecco, siamo nella casa delle Vestali», dice. In questo angolo silenzioso, dal quale si può osservare il Campidoglio con un'angolazione insolita, siamo assolutamente soli. I turisti neppure si scorgono. Andrea Carandini, l'archeologo che da vent'anni scava fra il Foro e il Palatino, lo studioso che ha riscritto la storia delle origini di Roma, appare meno austero su questo gradino e sembra quasi sorridere. Come quei ragazzini che si apprestano a rivedere un film o ad ascoltare una favola che già conoscono, e che amano. «Questo - dice - è il luogo da me prediletto».
«Da bambino - racconta - ci venivo con mia madre e talora anche con mio padre. Abitavamo in via Ventiquattro Maggio e molto spesso facevamo una passeggiata che dal Quirinale ci portava proprio qui, scendendo dalla Salita del Grillo. Erano gli anni della dittatura e mio padre Nicolo, in quanto antifascista, era sovente costretto a nascondersi. In quei periodi vivevamo in una singolare condizione di sospensione che, tuttavia, mi faceva godere della sua presenza in queste passeggiate».
Il professore fa una breve annotazione: «L'unico neo del percorso era l'attraversamento di via dei Fori Imperiali. Un luogo assai brutto, che resta anche oggi tale nonostante le cure che gli sono state prestate. Ma, che vuole, quando si crea nel tessuto di una città antica una lacerazione del genere è molto difficile risanarla».
«C'è una foto - prosegue Carandini - che ritrae mio padre e me a due passi da qui, fra il Tempio delle Vestali e quello di Antonino e Faustina. Avrò avuto più o meno diciotto anni. Ebbene, allora non potevo neppure lontanamente immaginare che nel 1985-86 sarei tornato proprio in questo luogo a compiere i miei scavi. Come non potevo pensare che avrei fatto il professore alla Sapienza, l'università in cui ho studiato. Né che sarei tornato ad abitare nella casa dei miei genitori in via Ventiquattro Maggio». La vita, dice, dapprima lo ha portato lontano. A Siena, a Pisa, dove ha insegnato, a scegliere la filologia e poi la storia dell'arte antica prima di avvertire la vocazione per l'archeologia. Poi il Destino lo ha riportato «nei luoghi delle origini». Osserva: «A sessantotto anni scopro che la storia ha una sua logica. Anche la nostra storia individuale. E' come essere il romanziere della propria vita: molto spesso il narratore non sa quale sarà il finale, ma dentro di lui vive il progetto inconscio che lo condurrà a quel finale e non a un altro».
Carandini indica alcune piante di rose abbarbicate a un muro. «Quelle le ha piantate Giacomo Boni, un famoso archeologo scomparso nel 1925, la cui figura quand'ero ragazzo ancora aleggiava sul Foro e sul Palatino. Rese queste rovine un giardino popolato di muri, statue e fiori. Dopo di lui, negli scavi si è certo guadagnato in scientificità, ma si è perso in poesia». Di questo posto, in cui vivevano le vergini sacerdotesse addette al culto di Vesta, il culto del fuoco sacro comune, il professore parla come della porta attraverso la quale si accede al labirinto della storia di Roma: «Scavare nella storia del santuario significa ricostruire dalle origini quella della città».
Spiega che il lavoro dell'archeologo è fatto di metodo, pazienza e fatica: «E anche di creatività scientifica».
Occorre scavare su una superficie estesa, così come ha fatto lui che ha analizzato circa un ettaro del Foro e del Palatino, e arrivare alla terra vergine, laddove la storia comincia: «Altrimenti è come se si leggesse un libro non dalla prima pagina ma da metà testo. Ed è quello che s'è fatto fino a vent'anni fa: gli strati profondi della Roma antica sono stati raggiunti in zone molto limitate, o male, o niente affatto. Di conseguenza, ne è risultata una ricostruzione storica imperfetta». I suoi scavi, come s'è detto, hanno permesso di riscrivere la storia delle origini di Roma; gli esiti più recenti sono stati pubblicati nel suo ultimo libro "Remo e Romolo", edito da Einaudi due mesi fa, un testo che dopo due settimane in libreria già aveva esaurito la tiratura iniziale.
Dell'intensa attività archeologica che si svolge nella nostra città, e che consente «ogni anno scoperte straordinarie», Carandini dice che sarebbe tuttavia più proficua se vi fossero più programmazione e più concertazione: «Invece, ahimè, ognuno va per conto proprio». Si duole che dell'altro luogo da lui molto amato, il colle del Quirinale, si sappia così poco. Meriterebbe, afferma, un'approfondita ricerca. Lamenta inoltre l'assenza di un museo che ripercorra per intero la storia urbanistica della città dalle origini all'attuale Piano regolatore.
Abbandoniamo il nostro gradino. Il professore tornerà qui ai primi di giugno, come ogni anno, per riprendere lo scavo. Nostalgia per il tempo remoto delle passeggiate al Foro, conclude non ne ha. «Se non per i ritmi di vita meno concitati. Anche le facce, allora, nonostante la miseria e la violenza, erano più allegre. Mi capitava spesso di incontrare per la strada gente che cantava». Gli piacerebbe poter ripetere con la figlia sedicenne, Greta, il rito che compiva con i suoi genitori. «Ma lei ha lo studio, i compagni, la tv, gli sms...I suoi tempi sono ancora più concitati dei miei. D'altronde è normale. Sta scoprendo la vita».
Oliviero La Stella
Il Messaggero, 05-APR-2006
ALTO, eretto, elegante nel suo abito sportivo, Andrea Carandini con il piglio di chi è di casa incede fra le migliaia di turisti che affollano il Foro Romano, alcuni dei quali sembrano storditi e disorientati da tanta storia che li circonda. Con altrettanta sicurezza salta agilmente oltre le recinzioni, che proteggono le aree interdette ai visitatori. Infine si ferma e si siede su un gradino di marmo. «Ecco, siamo nella casa delle Vestali», dice. In questo angolo silenzioso, dal quale si può osservare il Campidoglio con un'angolazione insolita, siamo assolutamente soli. I turisti neppure si scorgono. Andrea Carandini, l'archeologo che da vent'anni scava fra il Foro e il Palatino, lo studioso che ha riscritto la storia delle origini di Roma, appare meno austero su questo gradino e sembra quasi sorridere. Come quei ragazzini che si apprestano a rivedere un film o ad ascoltare una favola che già conoscono, e che amano. «Questo - dice - è il luogo da me prediletto».
«Da bambino - racconta - ci venivo con mia madre e talora anche con mio padre. Abitavamo in via Ventiquattro Maggio e molto spesso facevamo una passeggiata che dal Quirinale ci portava proprio qui, scendendo dalla Salita del Grillo. Erano gli anni della dittatura e mio padre Nicolo, in quanto antifascista, era sovente costretto a nascondersi. In quei periodi vivevamo in una singolare condizione di sospensione che, tuttavia, mi faceva godere della sua presenza in queste passeggiate».
Il professore fa una breve annotazione: «L'unico neo del percorso era l'attraversamento di via dei Fori Imperiali. Un luogo assai brutto, che resta anche oggi tale nonostante le cure che gli sono state prestate. Ma, che vuole, quando si crea nel tessuto di una città antica una lacerazione del genere è molto difficile risanarla».
«C'è una foto - prosegue Carandini - che ritrae mio padre e me a due passi da qui, fra il Tempio delle Vestali e quello di Antonino e Faustina. Avrò avuto più o meno diciotto anni. Ebbene, allora non potevo neppure lontanamente immaginare che nel 1985-86 sarei tornato proprio in questo luogo a compiere i miei scavi. Come non potevo pensare che avrei fatto il professore alla Sapienza, l'università in cui ho studiato. Né che sarei tornato ad abitare nella casa dei miei genitori in via Ventiquattro Maggio». La vita, dice, dapprima lo ha portato lontano. A Siena, a Pisa, dove ha insegnato, a scegliere la filologia e poi la storia dell'arte antica prima di avvertire la vocazione per l'archeologia. Poi il Destino lo ha riportato «nei luoghi delle origini». Osserva: «A sessantotto anni scopro che la storia ha una sua logica. Anche la nostra storia individuale. E' come essere il romanziere della propria vita: molto spesso il narratore non sa quale sarà il finale, ma dentro di lui vive il progetto inconscio che lo condurrà a quel finale e non a un altro».
Carandini indica alcune piante di rose abbarbicate a un muro. «Quelle le ha piantate Giacomo Boni, un famoso archeologo scomparso nel 1925, la cui figura quand'ero ragazzo ancora aleggiava sul Foro e sul Palatino. Rese queste rovine un giardino popolato di muri, statue e fiori. Dopo di lui, negli scavi si è certo guadagnato in scientificità, ma si è perso in poesia». Di questo posto, in cui vivevano le vergini sacerdotesse addette al culto di Vesta, il culto del fuoco sacro comune, il professore parla come della porta attraverso la quale si accede al labirinto della storia di Roma: «Scavare nella storia del santuario significa ricostruire dalle origini quella della città».
Spiega che il lavoro dell'archeologo è fatto di metodo, pazienza e fatica: «E anche di creatività scientifica».
Occorre scavare su una superficie estesa, così come ha fatto lui che ha analizzato circa un ettaro del Foro e del Palatino, e arrivare alla terra vergine, laddove la storia comincia: «Altrimenti è come se si leggesse un libro non dalla prima pagina ma da metà testo. Ed è quello che s'è fatto fino a vent'anni fa: gli strati profondi della Roma antica sono stati raggiunti in zone molto limitate, o male, o niente affatto. Di conseguenza, ne è risultata una ricostruzione storica imperfetta». I suoi scavi, come s'è detto, hanno permesso di riscrivere la storia delle origini di Roma; gli esiti più recenti sono stati pubblicati nel suo ultimo libro "Remo e Romolo", edito da Einaudi due mesi fa, un testo che dopo due settimane in libreria già aveva esaurito la tiratura iniziale.
Dell'intensa attività archeologica che si svolge nella nostra città, e che consente «ogni anno scoperte straordinarie», Carandini dice che sarebbe tuttavia più proficua se vi fossero più programmazione e più concertazione: «Invece, ahimè, ognuno va per conto proprio». Si duole che dell'altro luogo da lui molto amato, il colle del Quirinale, si sappia così poco. Meriterebbe, afferma, un'approfondita ricerca. Lamenta inoltre l'assenza di un museo che ripercorra per intero la storia urbanistica della città dalle origini all'attuale Piano regolatore.
Abbandoniamo il nostro gradino. Il professore tornerà qui ai primi di giugno, come ogni anno, per riprendere lo scavo. Nostalgia per il tempo remoto delle passeggiate al Foro, conclude non ne ha. «Se non per i ritmi di vita meno concitati. Anche le facce, allora, nonostante la miseria e la violenza, erano più allegre. Mi capitava spesso di incontrare per la strada gente che cantava». Gli piacerebbe poter ripetere con la figlia sedicenne, Greta, il rito che compiva con i suoi genitori. «Ma lei ha lo studio, i compagni, la tv, gli sms...I suoi tempi sono ancora più concitati dei miei. D'altronde è normale. Sta scoprendo la vita».