sabato 8 marzo 2008

Quelle passeggiate «illustri» tra le rovine dei Cesari

Corriere della Sera 8.3.08
Ricordi Da Goethe a Clinton: tutti ammaliati dal Foro
Quelle passeggiate «illustri» tra le rovine dei Cesari

Questo è Trilussa, nel sonetto La Terza Roma: «Infatti, sur più bello d'un lavoro,/ te ritrovi l'Impero giù in cantina/ con una strada che va dritta ar Foro». Per dire che, a Roma, la relazione con i millenni precedenti è di carattere assai confidenziale. Fu così che il mito dei Fori, delle rovine romane, venne creato soprattutto da europei che non avevano in casa pietre tanto antiche. Shakespeare ambienta naturalmente al Foro l'orazione funebre di Antonio per Giulio Cesare, con tutta probabilità senza esserci mai stato. Qualcosa vide invece, quasi due secoli più tardi, Johann Wolfgang Goethe, erede dei viaggiatori che fin dal '600 scendevano in Italia da Francia, Inghilterra e Germania. Subito Goethe coglie che a Roma «si trovano vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l'una e l'altro, la nostra immaginazione » ( Viaggio in Italia, 1786).
Una sera passeggia sul Palatino, «tra le rovine del palazzo dei Cesari» e scrive: «Nulla di tutto ciò si può rendere a parole! In verità, lassù non si sa cosa sia piccolezza». Quando Goethe lascia Roma, a modo di saluto sale sul Campidoglio, quindi scende sull'altro versante, «e davanti ai miei occhi interamente oscuro e gettando grandi ombre apparve l'arco di Settimio Severo; nella solitudine della Via Sacra, i monumenti così noti, sembravano quella sera strani e spaventosi. Ma quando mi avvicinai al Colosseo e a traverso le grate potei gettare uno sguardo nell'interno, fui preso da una specie di tremito e affrettai il ritorno. Ogni oggetto faceva un'impressione speciale, ma sublime e comprensibile nello stesso tempo». Esaltato l'animo di Goethe, più malinconico e riflessivo quello di Byron, qualche decennio più avanti, che nel Manfred racconta il «circo del Colosseo, mirabile reliquia del romano poter» e nota come «dei Cesari, la vile edera usurpa il seggio dell'allòr ».
Nel pieno dell'Ottocento archi e colonne diventano calamita per gli artisti sull'altra sponda dell'Atlantico. Ecco la poesia Il Colosseo: «Noi non siamo impotenti, noi pallide pietre: non ogni potere è spento, non ogni nostra gloria, non tutta la magia dell'alta rinomanza, non tutta la meraviglia che ne circonda, non tutti i misteri che giacciono in noi...». Firmata Edgar Allan Poe, maestro di misteri.
Altri americani verranno poi. Bill Clinton sui Fori con Hillary. Lei: cappello nero con nastro rosa, ma tacchi alti che la fanno sbandare sui basoli (1994). George W. Bush, in camicia, mano nella mano di Laura. Commenta: «Questo posto incute soggezione» (2001). Ma c'è anche, tenero, Russell Crowe, a Roma per promuovere A beautiful mind, che fa tardi, anzi tardissimo, a una conferenza stampa: è fuggito per scoprire in solitudine il Foro, lui, che tutto il mondo ormai chiama "il gladiatore". C'erano stati il turista americano Locuzzo, al quale Totò, sedicente guida, aveva venduto un finto sesterzio romano ( Guardie e ladri, 1951). E Gregory Peck aveva raccolto su una panchina con vista sull'arco di Settimio Severo la principessina Anna, deliziosamente Audrey Hepburn (Vacanze romane, 1953).
Ennio Flaiano, nel 1972 su L'Espresso, immagina il diario di un turista americano: «Abbiamo visitato The Roman Forum, dove fu ucciso Julius Caesar. L'erba tra i ruderi era molto alta e a un certo momento ho visto un piccolo serpente che mi guardava. Ho chiesto a un guardiano perché non tagliano l'erba e non catturano i serpenti, ma lui ha risposto che la Sovrintendenza(?) non era interessata un katzo all'erba e ai serpenti e che del resto le "Belle arti erano in agitazione"».