giovedì 20 marzo 2008

DALLA ROMA DEI PASTORI ALLA PATRIA DEL DIRITTO

ALDO SCHIAVONE

DALLA ROMA DEI PASTORI ALLA PATRIA DEL DIRITTO

VENERDÌ 23 NOVEMBRE 2007 DIARIO DI REPUBBLICA
Intorno alle origini di Roma si è svolta una delle più appassionanti discussioni storiografiche dell’intera cultura moderna, in cui si sono riflesse le idee e le tendenze di intere epoche, molto al di là della sola ricerca storica. È da oltre due secoli che ci tormentiamo su quanto accadde esattamente fra decimo e settimo secolo a. C. in quella piccola zona del Lazio non lontana dal mare, individuata da una breve catena di colli sovrastanti un’ansa del Tevere, in mezzo a boschi, paludi, capanne e piccoli campi coltivati, dove la presenza di una minuscola isola rendeva il fiume più facilmente attraversabile, trasformandolo in uno snodo di incontri, di empori, di santuari. Gli inizi di questo dibattito sono ormai lontani, ma non per questo meno importanti: già l’aspra polemica di Hegel con Niebhur, nei primi decenni dell’Ottocento, investiva in pieno l’arcaicità romana, e anticipava motivi e temi con i quali da allora in poi non abbiamo più smesso di misurarci. E sta di fatto che il Novecento, aperto nel segno di un radicale scetticismo di matrice positivista verso i racconti e le cronologie dalla tradizione antica, a cominciare da quello stesso su Romolo, giudicati come un accumulo di implausibili leggende, e che aveva giustificato una critica delle fonti - di Cicerone, di Livio, di Dionisio, di Plutarco - irrimediabilmente incredula nei confronti di qualunque immagine da loro proposta della nascita di Roma, si è concluso invece nella generale ammissione che quelle narrazioni non ci restituiscono sconclusionate messe in scena, ma sequenze di vicende e di figure da considerare con molta attenzione, se non proprio con tranquilla fiducia. Un capovolgimento che ha implicato un’autentica rivoluzione metodologica, e un cambiamento nell’idea stessa di cosi significhi scrivere storia. Al centro di questo mutamento di paradigma è stata senza dubbio la nuova archeologia stratigrafica, e, accanto, le nuove ricerche di storia linguistica, religiosa, giuridica, audacemente sospese fra terra, parole e riti, che si sono sforzate di decifrare ogni più piccola traccia, ogni frammento di pietra o di lessico, in una tensione dove la tecnica di scavo e l’analisi indiziaria aspiravano a farsi, da sole, metafora completa del mestiere di storico, proiettate verso epoche sempre più remote, quasi ai confini del tempo profondo. Roma è la città del Mediterraneo antico che ha conservato nell’età più matura il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. E non a caso. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria; aveva bisogno di un adeguato retroterra mitico e storico per dare profondità di campo alla propria attuale grandezza. Ma nel contesto culturale della prima Roma, nella sua archeologia mentale potremmo dire, al posto di quella imponente fantasia mitologica e cosmogonica da cui poi sarebbe nato, in Grecia e nella Ionia, il primo autentico sapere speculativo dell’Occidente, ci troviamo invece di fronte a qualcosa di assai diverso. A una trasfigurazione della realtà in cui l’invenzione teologica e l’immaginazione animistica erano totalmente dominate dall’ideazione e dalla messa in scena di una invasiva cascata di rituali, che, appena formulati, acquistavano un’oggettività alienata e irrevocabile, secondo una proiezione propria a molte culture, anche mediterranee: schiacciavano le menti stesse che li avevano elaborati. Il loro rispetto risultava però ampiamente remunerativo: era un’osservanza che dava fiducia ed equilibrio a una comunità circondata di pericoli e di nemici - Latini, Sabini, Etruschi - insieme minacciata e aperta, un crocevia precariamente multietnico, fragile e a rischio; una città nei cui abitanti si agitava un cupo fondo di terrori e di visioni notturne (ancora nelle XII Tavole le pene si inasprivano, se i crimini erano commessi di notte), alimentato non meno da ricordi di violenze, incantesimi, sangue, che da un presente obiettivamente incerto e difficile. Questa specie di sbilanciamento ritualistico si avvicinava molto a una vera sindrome prescrittiva, del tutto assente nella Grecia arcaica. La realtà veniva sminuzzata con un’analiticità quasi febbrile - secoli dopo ancora ben chiara a Varrone - nel tentativo di proteggere ogni minima funzione della vita quotidiana di quei contadini quasi perennemente in armi, attraverso l’invenzione di un dio a essa preposta, e di un rituale in grado di chetarne la sempre imminente ira. Su questa base si sarebbe poi formata tutta una trama di abitudini cerimoniali, a metà strada fra il divino e l’umano, in cui consiste il primo ‘ius’ - misterioso monosillabo, senza eguali in qualunque altra lingua antica, il cui significato più remoto non corrisponde se non per vaga e retrospettiva assimilazione a ciò che noi (e gli stessi Romani più tardi) avremmo inteso con ‘diritto’: la mano che prende e che dà, il bastone che afferma il potere o il passo indietro che lo cede; la parola che pronuncia il giuramento (ius iurandum, ‘la formula da formulare’), o crea l’obbligo verso il proprio eguale. Sul versante della religione, questa complessa armatura formulaica, dissociata sin dall’inizio dalla percezione di qualunque interiorità, avrebbe finito ben presto con il fossilizzarsi, trasformandosi in un corpo morto e freddo, staccato da qualunque forma di sensibilità popolare. Ma la presenza della stessa impronta avrebbe avuto un esito del tutto diverso nelle vicende del ius, come del resto l’avrebbe avuta, in un diverso contesto, nella religione dell’antico Israele, dove possiamo ritrovare una sindrome prescrittiva non lontana da quella romana. In questo senso, le due vicende sono in certo modo speculari. Nel caso di Israele, la forza evolutiva si sarebbe sviluppata tutta dal lato di una religiosità attraversata dalla morale, e una cultura giuridica autonoma non sarebbe mai nata, soffocata dall’invasività della teologia monoteista (il ‘non avrai altro Dio’ di cui parla Jan Assmann), a Roma invece lo sviluppo si sarebbe concentrato per intero dalla parte di un disciplinamento sociale sempre più laico (e che ora possiamo definire propriamente ‘giuridico’) - l’autentico logos della romanità - fino a determinare, nel primo secolo a. C., la svolta della nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma questa straordinaria invenzione, con tutta la potenza del suo formalismo concettuale - un carattere indelebile della nostra civiltà - porta scritto per mille segni sulla propria fronte i tratti della sua genesi più remota.