mercoledì 30 gennaio 2008

Cinquantaquattro anni tra il 14 e il 68 dopo Cristo

La Stampa
25/03/2001

Cinquantaquattro anni tra il 14 e il 68 dopo Cristo

Cinquantaquattro anni tra il 14 e il 68 dopo Cristo, nei quali Roma fu nelle mani della dinastia giulio-claudia, furono assai tormentati. Il primo imperatore, Tiberio (14-37 d.C.), mostrò una buona predisposizione al comando. Ma, allorché si ritirò a Capri e lasciò il governo al prefetto del pretorio Elio Seiano, la città precipitò in un clima di efferatezze e crudeltà. Fu poi la volta di Caligola (37-41 d.C.) di cui la tradizione antica lasciò il ritratto senza sfumature di un tiranno sanguinario. Gli subentrò suo zio, Claudio (41-54 d.C.), che la tradizione di cui sopra ci ha tramandato come vittima di due mogli corrotte: Messalina, che lui stesso mise a morte e Agrippina, sorella di Caligola, che lo uccise con il veleno. Agrippina avrebbe compiuto quell’orrendo crimine per favorire l’ascesa al trono di suo figlio Nerone (54-68 d.C.). Che l’avrebbe ripagata uccidendola. Dopodiché, sempre secondo la tradizione antica, Nerone inflisse a Roma grandi sofferenze fino a quando il senato, a seguito di una ribellione armata, lo dichiarò nemico della patria costringendolo a darsi la morte. Il tutto precipitò nel biennio dell’«anarchia militare» (68-69 d.C.) nel quale si succedettero per brevi periodi tre imperatori proclamati dalle rispettive legioni, Galba che dalla Spagna aveva guidato la rivolta antineroniana, Otone e Vitellio. Sotto la loro autorità Roma sembrava avviata a un declino irreversibile. Negli ultimi anni il giudizio sulla gens giulio-claudia è stato profondamente rivisto. Non solo per quel che riguarda le stagioni di Tiberio e Claudio, ma anche di quelle di Caligola e Nerone è stato messo in evidenza qualche pregio che per centinaia di anni, salvo qualche eccezione, era passato inosservato. Ciò non toglie che Roma giunse stremata al biennio dell’«anarchia militare» e davvero riteneva di non risollevarsi più. Tant’è che quella stessa tradizione antica di cui abbiamo detto quasi per compensazione fu sostanzialmente generosa nei confronti del nuovo imperatore Tito Flavio Vespasiano (69-79 d.C.) e della dinastia Flavia, costituita oltre che da lui stesso, dai suoi figli, Tito (79-81 d.C.) e Domiziano (81-96 d.C.). Solo su quest’ultimo rinnovarono le critiche che erano state rivolte ai loro predecessori. Ma agli occhi degli storici contemporanei o di poco successivi, il solo fatto di essere venuti dopo la crisi neroniana e quella anarchica era di per sé un merito. In particolare per quel che concerneva Vespasiano. Questi era un italico, originario della Sabina, figlio di un banchiere e nipote, per parte di madre, di un senatore. Nei sessant’anni che precedettero la sua ascesa al potere era stato tribuno militare in Tracia, questore a Creta e in Cirenaica, comandante di una legione in Germania e successivamente in Britannia (fu lui che conquistò l¹isola di Wight). Tacito fu assai poco indulgente per il modo in cui si era comportato tra il 62 e il 65 da proconsole in Africa. Ma Svetonio lodò la sua onestà. Con Nerone i suoi rapporti furono complicati: rischiò la morte per essersi assopito durante una sua esibizione canora. Ma poi fu perdonato e nel 66 gli fu assegnata la guida della guerra giudaica. Che fu difficilissima e si concluse con una netta vittoria sugli ebrei di cui prese il merito Tito che aveva ereditato il comando dal padre. Nel frattempo Vespasiano aveva raccolto i frutti della congiura che pose fine all’«anarchia militare». Mentre lui se ne stava ad Alessandria, le legioni di stanza sul Danubio avevano marciato contro Vitellio, lo avevano battuto nei pressi di Cremona e successivamente avevano conquistato Roma. Con una spaventosa guerra, strada per strada, in cui trovò la morte anche il fratello di Vespasiano Flavio Sabino, prefetto della città. Giunto al potere, Vespasiano fece di tutto per far dimenticare questo spargimento di sangue e la stagione dell’anarchia e soprattutto quella neroniana. Si impegnò a risarcire il senato, a riedificare la città. L¹anfiteatro Flavio, il Colosseo, è la testimonianza più importante di quella stagione di governo. Nella quale peraltro furono riparate strade e acquedotti, ricostruito il Campidoglio, edificati un nuovo foro e il tempio della Pace. Con gli intellettuali, Vespasiano, uomo semplice ancorché tutt’altro che rozzo, fu magnanimo. A patto che non ordissero congiure come ritenne che avesse fatto il filosofo stoico Elvidio Prisco, capo dell’opposizione senatoria, che, individuato come cospiratore, fu costretto a suicidarsi. L¹uomo che meglio rappresentò la cultura del consenso ai suoi tempi fu Plinio il Vecchio. L¹autore della Storia naturale servì Vespasiano con dedizione, fu da lui nominato comandante della base navale di Miseno e trovò la morte soffocato dalla cenere dell’eruzione del Vesuvio nel 79 che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia. Ed è al rapporto tra Plinio il Vecchio e Vespasiano che Luca Canali, con la collaborazione di Maria Pellegrini, ha dedicato una bellissima Vita di Plinio che sta per essere pubblicata dall’editore «Ponte alle Grazie». Diciamo subito che Plinio non era affatto vecchio quando morì per essere andato a studiare da vicino, mentre tutti fuggivano, gli effetti dell’eruzione del Vesuvio. Aveva appena cinquantasei anni quel «protomartire della scienza sperimentale» (la definizione è di Italo Calvino). E buona parte di quegli anni li aveva dedicati a scrivere i trentasette libri della Storia naturale: trentaquattromila notizie frutto di osservazioni dell’autore oltreché della consultazione di duemila volumi di cinquecento autori. Su temi che spaziano dalla geografia alla cosmologia, dall’antropologia all’etnografia, dalla zoologia alla biologia, alla medicina, alla metallurgia, alla mineralogia. Con ampie incursioni nei campi dell’architettura e della storia dell’arte. Plinio viveva a Miseno con la sorella Plinia e il figlio di lei, anche lui Plinio. Fu detto «il Vecchio» proprio per distinguerlo da quel nipote che fu poi soprannominato «il Giovane». Quest’ultimo raccontò che, al momento della morte, suo zio gli aveva lasciato centosettanta volumi di estratti di letture con fogli scritti su entrambe le facciate in caratteri minutissimi. «Non c’è nessun libro così spregevole da non poterne ricavare qualcosa di utile», diceva «il Vecchio». E così scriveva di sé nella prefazione alla Storia naturale: «Sono un uomo, sono affaccendato nelle occupazioni di ogni giorno; mi dedico a opere come questa nei ritagli di tempo, vale a dire di notte (perché qualcuno di voi non pensi che, almeno in quelle ore, io me ne sia stato inoperoso). I giorni li dedico a voi, le mie ore di sonno sono quelle strettamente necessarie alla mia salute e mi accontento di quest’unica ricompensa: che mentre rimugino codeste cose, aggiungo ore alla mia vita». Per poi concludere con una frase che è rimasta celebre: «Si può infatti dire con certezza che vivere è vegliare (vita vigilia est)». Plinio era nato a Como nella Gallia Cisalpina tra il 23 e il 24 d.C. da un’agiata famiglia dell’ordine equestre, ordine costituito da ricchi proprietari, uomini d’affari, appaltatori di lavori pubblici e della riscossione delle imposte, uomini a cui era affidata l’amministrazione dello stato. Da giovane, a Roma, aveva esercitato l’attività forense per poi seguire la via della cariche pubbliche. Quando nel 57-58 gli fu affidato il tribunato militare nella Germania inferiore strinse amicizia con Tito. Questi lo mise in contatto con suo padre, Vespasiano, e tra i due nacque un rapporto di consuetudine. Fu in quegli anni che Plinio iniziò a ritirarsi dalla vita politica e ad attenersi ai dettami della «prudenza». Lui, un conservatore moderato, aveva capito per tempo che la dinastia giulio-claudia stava scivolando lungo un pendio in cui ogni opportunità nascondeva un rischio. «Plinio», scrive Canali, «non era un accigliato moralista come il grande storico Tacito, né il disincantato aristocratico Petronio, né il giovanissimo, frivolo, ma infine tragico Lucano, tutti clandestinamente ostili al potere imperiale (questi ultimi due scoperti come partecipanti alla congiura di Pisone e costretti al suicidio)». Era ostile al principato «solo quando esso era impersonato da un supremo reggitore del potere come Nerone, bizzarro, narciso, ellenizzante, nemico dell’aristocrazia e persino del ceto equestre, incline invece a favorire il “popolino”, e per di più d’una terribile ferocia nella eliminazione dei suoi avversari». Perciò dopo la morte di Claudio ritenne opportuno ritirarsi definitivamente a vita privata - e ai suoi studi - in attesa di tempi migliori. Tenendo per sé l¹antipatia nei confronti di Nerone. E quando in epoca successiva alla morte del tiranno, tornerà Sull’argomento, lo farà senza enfasi. Parlando, nella Storia naturale, dei funghi e dei pericoli cui ci si espone mangiandoli, nel citare l¹uso fattone da Agrippina per avvelenare Claudio, lasciò cadere con sintetica eleganza: «Agrippina, dopo aver commesso questo crimine, fornì al mondo intero e a se stessa un altro veleno, suo figlio Nerone». Con l’ascesa al potere di Vespasiano e il mutamento di clima politico seguito alla morte di Nerone e al periodo dell’anarchia militare, Plinio riprese dunque la carriera politica. Ebbe più volte l’incarico di procuratore - magistratura di genere finanziario riguardante l¹amministrazione dei redditi imperiali nelle province - che gli consentì ampi sopralluoghi di carattere naturalistico, etnografico, geografico in terre straniere. Fu procuratore nella Spagna Tarraconese, nelle Gallie, in Germania, in Africa e «ognuno di questi incarichi ebbe in lui un equilibrato, umanissimo e onestissimo tramite con il potere centrale». Ma, tiene a precisare Canali, la sua fedeltà a Vespasiano, non ebbe modalità riconducibili né a «opportunismo personale», né a «piaggeria di cortigiano». Piuttosto «era adesione piena e sincera all’ideologia del primo imperatore della dinastia Flavia», di cui, come si è detto, egli era stato stretto collaboratore. Vespasiano non era uomo «da errare nella scelta di uomini leali, esperti, efficienti, che applicassero il suo programma politico, economico e civile». E Plinio «era senza dubbio leale, esperto, efficiente in qualsiasi momento e in ognuna delle attività che lo avevano talvolta messo alla prova: con ammirevole versatilità era stato un ottimo combattente, un pervicace e infaticabile uomo di cultura, e terminò la sua vita durante l¹espletamento del suo dovere di prefetto della flotta di Miseno». L’originalità del rapporto tra questo uomo di cultura e questo imperatore è individuabile nel libero, fecondo intreccio tra due persone modificate dal tempo che era trascorso dal loro primo incontro. Plinio diede prova di saper conciliare la rinnovata partecipazione alla vita politica con i suoi nuovi interessi e, più in generale, la sua personalità così come s’era andata trasformando nei tempi dell’allontanamento dalla politica stessa. Vespasiano, invece di piegare Plinio o altri come lui al culto della propria persona come avrebbero fatto gran parte dei suoi predecessori, scelse di averlo dalla sua lasciandogli lo spazio per continuare ad essere sé stesso. Risultato: la Storia naturale fu di per sé un monumento a Vespasiano. Forse più importante del Colosseo. Ma, al di là di queste considerazioni, possiamo dire che Plinio fu veramente grande? O non fu piuttosto un semplice erudito incapace di guardare oltre gli orizzonti della sua epoca? Per capire di cosa si sta parlando è necessario rifarsi a quello che, sul rapporto tra intellettuali e società nel mondo antico, William Stahl ha scritto in un libro di qualche anno fa: La scienza dei romani. Quando si prendono in esame la società dei greci e quella dei romani, sosteneva Stahl, «si rimane immediatamente colpiti dalle differenze notevolissime tra le mentalità di questi due popoli». Si potrebbe addirittura venire indotti «a concludere che avessero temperamenti antitetici, che i greci fossero teorici e intellettuali, i romani pratici e anti-intellettuali». Come è ovvio, prosegue Stahl, «una generalizzazione semplicistica di questo tipo appare scarsamente fondata: ma, per quanto riguarda gli atteggiamenti assunti dai due popoli nei confronti della scienza, essa si avvicina abbastanza alla verità». I greci mostravano «una profonda avversione per la scienza applicata che consideravano “adatta agli artigiani”». I romani, invece, «facevano fatica ad assimilare anche le nozioni più elementari della scienza teorica, persino quando venivano presentate in forme semplici e comprensibili». Stahl ha sostenuto che «gli intellettuali romani più dotati del periodo classico non seppero comprendere la natura sistematica delle discipline scientifiche e non furono in grado di padroneggiare nessuna delle scienze greche». Solo raramente «attingevano ai trattati teorici e di solito lasciavano tali argomenti agli scribacchini e ai polimati (gli eruditi pedanti) i quali capivano ancora meno il rigore e la logica dell’indagine scientifica». Tenendo a mente queste considerazioni, si può capire meglio il contesto in cui Plinio si trovò a vivere, a far ricerche, a scrivere. E anche perché, nei secoli successivi, più d’uno abbia potuto dubitare della sua grandezza. Ma, una volta inquadrato il tema come ha fatto Stahl, si può tranquillamente affermare che Plinio il Vecchio ha un ruolo non irrilevante nella storia della cultura antica. Solo che le sue pagine vanno lette tra le righe per coglierne il messaggio più riposto. Plinio è animato da un’ansia di sistemazione enciclopedica delle conoscenze acquisite nelle varie discipline. E’ un moralista: se la prende con la pigrizia, la brama di ricchezze, l¹oro e l¹argento, i medici «mestieranti in cerca di fama con qualsiasi stramberia», la storia (o meglio: il piacere con il quale gli scrittori amano «depositare negli annali storie di sangue e massacri»). Ma, come già notò una ventina d¹anni fa Italo Lana, il suo modo di descrivere il rapporto uomo natura è modellato su quello suddito-imperatore. E gli omaggi indiretti - proprio perché spontanei - al «suo» imperatore, Vespasiano, non si contano. E proprio perché furono omaggi di un uomo libero, quelli di Plinio hanno giovato alla fama del destinatario assai più delle lodi cortigiane di molti altri uomini di cultura nei confronti di predecessori o successori di Vespasiano. Quasi che, anziché fosse stato per amore della conoscenza, quel suo immolarsi alle falde del Vesuvio Plinio lo avesse fatto per celebrare la grandezza del suo imperatore, morto poco prima di quell’eruzione. Un imperatore che non gli aveva imposto altro che di essere libero di dedicarsi ai suoi studi e alle sue ricerche.