l'Unità 3.2.08
I Barbari e la Roma classica, ecco un falso storico
di Renato Barilli
PALAZZO GRASSI Una mostra racconta l’incontro fra due civiltà: Visigoti e Longobardi da un parte, l’Impero dall’altro. L’insegna parla della «nascita d’un nuovo mondo». Ma i reperti ci narrano un’altra storia
Confesso di aver trovato assai allettante l’ipotesi che il veneziano Palazzo Grassi, nella nuova gestione assicuratagli dal magnate francese Pinault, non si limitasse a darci ampie abbuffate sulla più stretta attualità, come ha fatto nelle sue prime uscite, ma raccogliesse almeno in parte l’eredità dalla precedente conduzione Fiat offrendoci di tanto in tanto delle poderose retrospezioni su un passato remoto. Così è ora con Roma e i barbari (cat. Skira a cura di Jean-Jacques Aillagon). Ma il periodo preso in esame appare troppo ampio, e il pur abbondante materiale accumulato nel percorso espositivo non sembra ordinato secondo percorsi critici ben scanditi, capaci davvero di prendere per mano il visitatore. Meglio insomma che l’illustre Palazzo veneziano ritorni a ben circonstanziati scandagli sui nostri giorni.
In effetti, sotto il titolo troppo vasto si celano due mostre distinte, l’una delle quali riguarda un tema massimo, più volte affrontato, anche da me in varie occasioni su queste colonne. Si tratta del vistoso declino che le forme della classicità, del solenne mimetismo greco-romano, hanno subito man mano che ci si allontanava dall’apogeo augusteo verso i secoli della tarda romanità, con perdita delle capacità di illusionismo prospettico, di rispetto scrupoloso delle anatomie, delle individualità dei singoli personaggi. Un processo che si è esplicato in misura implacabile di secolo in secolo, a cominciare già dal II dopo Cristo, e con indici crescenti di appiattimento, di stilizzazione, di astrazione generalizzante. Ma sarebbe errato vedere in tutto ciò un qualche influsso dei barbari e delle loro invasioni, dato che queste, almeno fino al VI secolo, venivano arrestate, seppure con difficoltà crescenti. I barbari c’entrano assai poco, in questa vicenda, il fatto è che era lo stesso impero romano a «laborare de mole sua», non riusciva più a tenere in piedi un sistema ben connesso di comunicazioni viarie, da un capo all’altro del suo enorme corpaccio. È ben noto il provvedimento preso, sul finire del III, da Diocleziano, che disperando ormai di far reggere il tutto su un’unica capitale, ne stabiliva ben quattro, tentando di bloccare la crisi con il sistema tetrarchico. Ebbene, di questa vicenda sommamente istruttiva la mostra a Palazzo Grassi offre una documentazione diluita, per sommi capi, e niente affatto resa perspicua nei suoi snodi. Al pianterreno si hanno alcuni sarcofagi, il Piccolo Ludovisi, quello di Portonaccio, che attestano ancora di una fattura accurata e minuziosa dei corpi, e accanto a loro ci sono pure austere sfilate di busti di imperatori anch’essi ben modellati, mentre poi ci si precipita verso le forme già assai ridotte, quasi tracciate col compasso, di altri protagonisti vicini ai tempi di Diocleziano. Naturalmente è presente solo in foto il gruppo dei quattro Tetrarchi, che si può ammirare poco lontano, sull’esterno del Palazzo Ducale, con quelle figure simili a bambolotti scorciati nelle dimensioni, quasi clonati tra loro, a riprova che l’individualismo, il precisionismo dei vecchi tempi è ormai finito, e ci si muove a livello di mascheroni stereotipati. Non c’entra nulla anche lo sdoganamento del Cristianesimo, attuato di lì a poco da Costantino, forse proprio nel tentativo di ritrovare con esso un mastice per tenere uniti i frammenti dell’impero. È tesi spiritualista inaccettabile che sia stato l’ethos della nuova religione a sconfiggere il vecchio naturalismo pagano, accadeva semplicemente che le medesime forme ridotte e schiacciate venissero adottate anche per evocare i misteri del nuovo culto. E si sta ormai profilando la vicenda che prenderà il nome da Bisanzio, dove cessa, senza dubbio, il ruolo dell’Impero d’Occidente, ma non è che il subentrante Impero d’Oriente corrisponda a un cedimento ai barbari, anzi, è la parte della vecchia formazione statuale che ancora resiste alle invasioni dall’esterno. Uno dei pregi della mostra è di essere ricca di dittici e di altri reperti scalfiti nell’avorio, in cui figure di santi e di imperatori compaiono, nonostante il rilievo, con la medesima frontalità e ieraticità immote che i maestri musivi, nello stesso lungo periodo, conferivano ai loro elaborati parietali.
Viene poi una seconda parte della mostra, questa sì dedicata all’arrivo dei barbari, con un minuzioso censimento attento a distinguere li apporti specifici di Avari, Burgundi, Visigoti, Longobardi eccetera, ma colti in genere come erano al momento del loro sopraggiungere nelle terre d’Occidente e nelle vecchie province romane, portandosi testimonianze d’arte in genere improntate a una sorta di iconoclastia obbligata, per l’imperizia delle loro maestranze a trattare la figura umana, evocata tutt’al più in modi da dirsi davvero primitivi, un circoletto per il volto, un’asta verticale per la canna nasale, due forellini per gli occhi. Prevale il senso dell’utile, ben rare sono le immagini articolate, l’artisticità si esplica nel decorare fibbie, armille, scudi, elmi, cinturoni. Al momento, insomma, non c’è fusione, tra le due grandi componenti, e dunque, al contrario di quanto recita il sottotitolo della mostra, non c’è ancora «la nascita di un nuovo mondo».
I Barbari e la Roma classica, ecco un falso storico
di Renato Barilli
PALAZZO GRASSI Una mostra racconta l’incontro fra due civiltà: Visigoti e Longobardi da un parte, l’Impero dall’altro. L’insegna parla della «nascita d’un nuovo mondo». Ma i reperti ci narrano un’altra storia
Confesso di aver trovato assai allettante l’ipotesi che il veneziano Palazzo Grassi, nella nuova gestione assicuratagli dal magnate francese Pinault, non si limitasse a darci ampie abbuffate sulla più stretta attualità, come ha fatto nelle sue prime uscite, ma raccogliesse almeno in parte l’eredità dalla precedente conduzione Fiat offrendoci di tanto in tanto delle poderose retrospezioni su un passato remoto. Così è ora con Roma e i barbari (cat. Skira a cura di Jean-Jacques Aillagon). Ma il periodo preso in esame appare troppo ampio, e il pur abbondante materiale accumulato nel percorso espositivo non sembra ordinato secondo percorsi critici ben scanditi, capaci davvero di prendere per mano il visitatore. Meglio insomma che l’illustre Palazzo veneziano ritorni a ben circonstanziati scandagli sui nostri giorni.
In effetti, sotto il titolo troppo vasto si celano due mostre distinte, l’una delle quali riguarda un tema massimo, più volte affrontato, anche da me in varie occasioni su queste colonne. Si tratta del vistoso declino che le forme della classicità, del solenne mimetismo greco-romano, hanno subito man mano che ci si allontanava dall’apogeo augusteo verso i secoli della tarda romanità, con perdita delle capacità di illusionismo prospettico, di rispetto scrupoloso delle anatomie, delle individualità dei singoli personaggi. Un processo che si è esplicato in misura implacabile di secolo in secolo, a cominciare già dal II dopo Cristo, e con indici crescenti di appiattimento, di stilizzazione, di astrazione generalizzante. Ma sarebbe errato vedere in tutto ciò un qualche influsso dei barbari e delle loro invasioni, dato che queste, almeno fino al VI secolo, venivano arrestate, seppure con difficoltà crescenti. I barbari c’entrano assai poco, in questa vicenda, il fatto è che era lo stesso impero romano a «laborare de mole sua», non riusciva più a tenere in piedi un sistema ben connesso di comunicazioni viarie, da un capo all’altro del suo enorme corpaccio. È ben noto il provvedimento preso, sul finire del III, da Diocleziano, che disperando ormai di far reggere il tutto su un’unica capitale, ne stabiliva ben quattro, tentando di bloccare la crisi con il sistema tetrarchico. Ebbene, di questa vicenda sommamente istruttiva la mostra a Palazzo Grassi offre una documentazione diluita, per sommi capi, e niente affatto resa perspicua nei suoi snodi. Al pianterreno si hanno alcuni sarcofagi, il Piccolo Ludovisi, quello di Portonaccio, che attestano ancora di una fattura accurata e minuziosa dei corpi, e accanto a loro ci sono pure austere sfilate di busti di imperatori anch’essi ben modellati, mentre poi ci si precipita verso le forme già assai ridotte, quasi tracciate col compasso, di altri protagonisti vicini ai tempi di Diocleziano. Naturalmente è presente solo in foto il gruppo dei quattro Tetrarchi, che si può ammirare poco lontano, sull’esterno del Palazzo Ducale, con quelle figure simili a bambolotti scorciati nelle dimensioni, quasi clonati tra loro, a riprova che l’individualismo, il precisionismo dei vecchi tempi è ormai finito, e ci si muove a livello di mascheroni stereotipati. Non c’entra nulla anche lo sdoganamento del Cristianesimo, attuato di lì a poco da Costantino, forse proprio nel tentativo di ritrovare con esso un mastice per tenere uniti i frammenti dell’impero. È tesi spiritualista inaccettabile che sia stato l’ethos della nuova religione a sconfiggere il vecchio naturalismo pagano, accadeva semplicemente che le medesime forme ridotte e schiacciate venissero adottate anche per evocare i misteri del nuovo culto. E si sta ormai profilando la vicenda che prenderà il nome da Bisanzio, dove cessa, senza dubbio, il ruolo dell’Impero d’Occidente, ma non è che il subentrante Impero d’Oriente corrisponda a un cedimento ai barbari, anzi, è la parte della vecchia formazione statuale che ancora resiste alle invasioni dall’esterno. Uno dei pregi della mostra è di essere ricca di dittici e di altri reperti scalfiti nell’avorio, in cui figure di santi e di imperatori compaiono, nonostante il rilievo, con la medesima frontalità e ieraticità immote che i maestri musivi, nello stesso lungo periodo, conferivano ai loro elaborati parietali.
Viene poi una seconda parte della mostra, questa sì dedicata all’arrivo dei barbari, con un minuzioso censimento attento a distinguere li apporti specifici di Avari, Burgundi, Visigoti, Longobardi eccetera, ma colti in genere come erano al momento del loro sopraggiungere nelle terre d’Occidente e nelle vecchie province romane, portandosi testimonianze d’arte in genere improntate a una sorta di iconoclastia obbligata, per l’imperizia delle loro maestranze a trattare la figura umana, evocata tutt’al più in modi da dirsi davvero primitivi, un circoletto per il volto, un’asta verticale per la canna nasale, due forellini per gli occhi. Prevale il senso dell’utile, ben rare sono le immagini articolate, l’artisticità si esplica nel decorare fibbie, armille, scudi, elmi, cinturoni. Al momento, insomma, non c’è fusione, tra le due grandi componenti, e dunque, al contrario di quanto recita il sottotitolo della mostra, non c’è ancora «la nascita di un nuovo mondo».