l'Unità 16.9.07
Tra Roma e Bisanzio lo spirito è lontano
di Renato Barilli
IL TRAMONTO dell’età classica greco-romana in una mostra a Vicenza. Il passaggio dal naturalismo all’astrazione in una serie di reperti, stoffe e mosaici. Un’interpretzione «spiritualista» che non convince
Una mostra a Vicenza, Palazzo Leoni Montanari, affronta un tema epocale che davvero può essere detto, come suggerisce il titolo, seppure in termini un po’ generici, La rivoluzione dell’immagine. Si tratta infatti del processo, esteso per alcuni secoli, che vede il tramonto dell’età classica greco-romana, col relativo mimetismo avanzato, verso le forme secche e stilizzate che saranno proprie dell’età bizantina, e che domineranno l’Europa, a Est come a Ovest, per quasi un millennio, finché, all’alba del XII secolo d. C., nei nostri Comuni partirà una fase di nuovo recupero di immagini naturaliste, ovvero quello che in termini lati si può definire il Rinascimento. A costituire tutto il fascino e l’importanza di un simile processo sta il fatto che lo abbiamo rivissuto, tra il XIX e il XX secolo, quasi negli stessi termini. L’Occidente giunge alla fine dell’Ottocento mentre in genere coltiva ancora forme di avanzato naturalismo, ma poi nel giro di pochi decenni dà luogo ai vari processi astrattivi e schematizzanti che caratterizzano l’arte contemporanea propriamente detta. Quali sono i fattori che, nell’uno e nell’altro caso, hanno provocato mutamenti di tanto peso? Come si vede, la posta in gioco è altissima. A dire il vero, la presente mostra vicentina ne offre solo un assaggio assai ridotto, nel numero dei reperti proposti, ci vorrebbe ben altro, magari una di quelle favolose mostre che il Consiglio d’Europa produceva in passato, è curioso che di queste si sia interrotta l’apparizione, anche se il nostro continente ha fatto decisivi passi avanti verso l’unità. Inoltre, a inficiare la rilevanza di questa rassegna (a cura di F. Bisconti e G. Gentili, fino al 18 novembre, cat. Silvana) sta anche il sottotitolo, che mette in primo luogo «l’Arte paleocristiana tra Roma e Bisanzio», mentre, se si va a vedere, una buona metà dei reperti è di iconografia classico-pagana.
Forse il sottotitolo alquanto parzializzante è in linea con un assunto generale, della mostra ma anche di tante altre interpretazioni, per cui il passaggio dal naturalismo alla stilizzazione bizantina sarebbe provocato dall’avvento del Cristianesimo. Ma proprio le opere qui raccolte stanno a dimostrare che non è affatto così: l’implacabile processo che, a partire dal III secolo d. C. colpisce i vari reperti da statue e sarcofaghi, da mosaici e stoffe qui allineati, prescinde dalla tematica pagana o cristiana, accomuna i prodotti di entrambe le sponde, e dunque il fattore causante non è di ordine spirituale, bisogna cercare altrove, in quei fattori di ordine material-culturale che in genere si tende a trascurare. L’immane fenomeno che colpisce l’Impero romano in ogni sua zona e convenzione religiosa deriva da una «perdita del centro», Roma è sempre più lontana, crolla il sistema delle grandi vie di comunicazione che l’Urbe aveva saputo stabilire, di cui la resa prospettica delle distanze era lo specchio fedele. Ora, le genti non si spostano, ognuno vive dove il destino lo ha gettato, e dunque le immagini si fissano, si generalizzano. Forse si dovrebbe rovesciare il rapporto causa-effetto, non è la conversione ai valori spirituali del Cristianesimo a provocare quella forzata semplificazione delle immagini, ma al contrario si aderisce alla religione del Dio unico nel tentativo estremo di fermare il processo di localizzazione e frammentazione del vivere, di cui non si avvertiva il rischio finché aveva resistito l’autorità centrale dell’Imperatore romano.
Ma andiamo a esaminare le opere in mostra, per trarre conforto a una tesi del genere. Vi sono frammenti di sarcofago, appunto di tema classico, relativi al mito di Prometeo, al sacrificio di Ercole, ad Ulisse, o con scene pastorali arcadiche, tutti per lo più del III secolo, in cui è evidente la volontà dell’artefice di attenersi ai canoni classici di una buona e corretta plasticità, di un rispetto dell’anatomia dei corpi, eppure già lo spazio si schiaccia, le membra si smussano, le cavità sono ottenute col sommario ricorso al trapano. I difensori della tesi spiritualista osserveranno in proposito che non c’è da stupirsi, in quanto si tratta di un mondo ancora ligio agli «dei falsi e bugiardi», ma vediamo che cosa succede sull’altra sponda, nel corso del IV e V secolo. Ebbene, non è che ipso facto i nuovi temi della cristianità impongano il linguaggio ieratico e schematico che siamo soliti ricondurre a Bisanzio. Si veda, poniamo, il sarcofago Maiestas Domini, fine del IV, i corpi di Cristo e Santi tentano ancora di balzar fuori con piena tridimensionalità, ma viene meno una scala unitaria di grandezze proporzionate tra loro, la figura del Cristo domina, mentre gli Apostoli accanto si fanno piccoli piccoli, siamo cioè a metà del guado, non più a Roma ma non ancora a Bisanzio. Il che vale anche nell’ambito del mosaico, si veda una Testa di S. Pietro, della metà del V° secolo, tema che evidentemente non potrebbe essere più cristiano, ma l’anonimo compositore insegue ancora palpiti, tocchi cromatici di un naturalismo in via di decomposizione. Naturalmente un secolo dopo, nel corso del VI secolo, i giochi sono fatti, a Bisanzio come a Ravenna si impone ormai lo stile astraente dell’arte bizantina, il cui capolavoro, non dimentichiamolo, non è però di tema cristiano, come piacerebbe ai sostenitori della tesi spiritualista, bensì laico, trattandosi della parata dell’Imperatore Giustiniano, nel S. Vitale di Ravenna.
Tra Roma e Bisanzio lo spirito è lontano
di Renato Barilli
IL TRAMONTO dell’età classica greco-romana in una mostra a Vicenza. Il passaggio dal naturalismo all’astrazione in una serie di reperti, stoffe e mosaici. Un’interpretzione «spiritualista» che non convince
Una mostra a Vicenza, Palazzo Leoni Montanari, affronta un tema epocale che davvero può essere detto, come suggerisce il titolo, seppure in termini un po’ generici, La rivoluzione dell’immagine. Si tratta infatti del processo, esteso per alcuni secoli, che vede il tramonto dell’età classica greco-romana, col relativo mimetismo avanzato, verso le forme secche e stilizzate che saranno proprie dell’età bizantina, e che domineranno l’Europa, a Est come a Ovest, per quasi un millennio, finché, all’alba del XII secolo d. C., nei nostri Comuni partirà una fase di nuovo recupero di immagini naturaliste, ovvero quello che in termini lati si può definire il Rinascimento. A costituire tutto il fascino e l’importanza di un simile processo sta il fatto che lo abbiamo rivissuto, tra il XIX e il XX secolo, quasi negli stessi termini. L’Occidente giunge alla fine dell’Ottocento mentre in genere coltiva ancora forme di avanzato naturalismo, ma poi nel giro di pochi decenni dà luogo ai vari processi astrattivi e schematizzanti che caratterizzano l’arte contemporanea propriamente detta. Quali sono i fattori che, nell’uno e nell’altro caso, hanno provocato mutamenti di tanto peso? Come si vede, la posta in gioco è altissima. A dire il vero, la presente mostra vicentina ne offre solo un assaggio assai ridotto, nel numero dei reperti proposti, ci vorrebbe ben altro, magari una di quelle favolose mostre che il Consiglio d’Europa produceva in passato, è curioso che di queste si sia interrotta l’apparizione, anche se il nostro continente ha fatto decisivi passi avanti verso l’unità. Inoltre, a inficiare la rilevanza di questa rassegna (a cura di F. Bisconti e G. Gentili, fino al 18 novembre, cat. Silvana) sta anche il sottotitolo, che mette in primo luogo «l’Arte paleocristiana tra Roma e Bisanzio», mentre, se si va a vedere, una buona metà dei reperti è di iconografia classico-pagana.
Forse il sottotitolo alquanto parzializzante è in linea con un assunto generale, della mostra ma anche di tante altre interpretazioni, per cui il passaggio dal naturalismo alla stilizzazione bizantina sarebbe provocato dall’avvento del Cristianesimo. Ma proprio le opere qui raccolte stanno a dimostrare che non è affatto così: l’implacabile processo che, a partire dal III secolo d. C. colpisce i vari reperti da statue e sarcofaghi, da mosaici e stoffe qui allineati, prescinde dalla tematica pagana o cristiana, accomuna i prodotti di entrambe le sponde, e dunque il fattore causante non è di ordine spirituale, bisogna cercare altrove, in quei fattori di ordine material-culturale che in genere si tende a trascurare. L’immane fenomeno che colpisce l’Impero romano in ogni sua zona e convenzione religiosa deriva da una «perdita del centro», Roma è sempre più lontana, crolla il sistema delle grandi vie di comunicazione che l’Urbe aveva saputo stabilire, di cui la resa prospettica delle distanze era lo specchio fedele. Ora, le genti non si spostano, ognuno vive dove il destino lo ha gettato, e dunque le immagini si fissano, si generalizzano. Forse si dovrebbe rovesciare il rapporto causa-effetto, non è la conversione ai valori spirituali del Cristianesimo a provocare quella forzata semplificazione delle immagini, ma al contrario si aderisce alla religione del Dio unico nel tentativo estremo di fermare il processo di localizzazione e frammentazione del vivere, di cui non si avvertiva il rischio finché aveva resistito l’autorità centrale dell’Imperatore romano.
Ma andiamo a esaminare le opere in mostra, per trarre conforto a una tesi del genere. Vi sono frammenti di sarcofago, appunto di tema classico, relativi al mito di Prometeo, al sacrificio di Ercole, ad Ulisse, o con scene pastorali arcadiche, tutti per lo più del III secolo, in cui è evidente la volontà dell’artefice di attenersi ai canoni classici di una buona e corretta plasticità, di un rispetto dell’anatomia dei corpi, eppure già lo spazio si schiaccia, le membra si smussano, le cavità sono ottenute col sommario ricorso al trapano. I difensori della tesi spiritualista osserveranno in proposito che non c’è da stupirsi, in quanto si tratta di un mondo ancora ligio agli «dei falsi e bugiardi», ma vediamo che cosa succede sull’altra sponda, nel corso del IV e V secolo. Ebbene, non è che ipso facto i nuovi temi della cristianità impongano il linguaggio ieratico e schematico che siamo soliti ricondurre a Bisanzio. Si veda, poniamo, il sarcofago Maiestas Domini, fine del IV, i corpi di Cristo e Santi tentano ancora di balzar fuori con piena tridimensionalità, ma viene meno una scala unitaria di grandezze proporzionate tra loro, la figura del Cristo domina, mentre gli Apostoli accanto si fanno piccoli piccoli, siamo cioè a metà del guado, non più a Roma ma non ancora a Bisanzio. Il che vale anche nell’ambito del mosaico, si veda una Testa di S. Pietro, della metà del V° secolo, tema che evidentemente non potrebbe essere più cristiano, ma l’anonimo compositore insegue ancora palpiti, tocchi cromatici di un naturalismo in via di decomposizione. Naturalmente un secolo dopo, nel corso del VI secolo, i giochi sono fatti, a Bisanzio come a Ravenna si impone ormai lo stile astraente dell’arte bizantina, il cui capolavoro, non dimentichiamolo, non è però di tema cristiano, come piacerebbe ai sostenitori della tesi spiritualista, bensì laico, trattandosi della parata dell’Imperatore Giustiniano, nel S. Vitale di Ravenna.