Corriere della Sera 28.9.07
Così nella Roma antica il Senato difese i privilegi
Gli oligarchi non esitarono ad uccidere il tribuno Tiberio Gracco
di Luciano Canfora
Chi cerchi di intendere cosa fosse, quanto pesasse e cosa significasse il Senato romano dovrebbe, credo, far capo a quella pagina mirabile in cui Appiano di Alessandria descrive la uccisione di Tiberio Gracco (estate del 133 a.C.). Lo scontro riguardava la rielezione del tribuno. Il Senato, interferendo pesantemente, attraverso suoi uomini fidati, nell'autonoma gestione di quel vitale organo di difesa popolare che doveva essere, in linea di principio, il tribunato, si opponeva.
Ed ecco i fatti. Quando i seguaci di Tiberio Gracco spezzano, armandosi di bastoni, il cerchio paralizzante dell'ostruzionismo procedurale degli avversari pilotati dal Senato, quest'ultimo decide di reagire con la forza. Lo storico alessandrino si chiede perché mai non abbiano fatto ricorso ad uno strumento estremo tipico dei momenti di crisi, quale la nomina di un dictator.
Invece il Senato vuole «dare una lezione» e, dopo una rapida seduta tenuta nel tempio di Fides, scende direttamente in battaglia, e si lancia nello scontro fisico, non senza aver fatto circolare la falsa voce che Tiberio si fosse fatto proclamare tribuno senza votazione. «Mossero verso il Campidoglio — scrive lo storico —. Li precedeva, primo fra tutti, il pontefice massimo, Cornelio Scipione Nasica, il quale urlava che tutti lo seguissero; e si era tirato intorno al capo l'estremità della toga». Con sarcasmo lo storico si chiede se ricorresse a quel gesto per rimarcare il suo rango di pontefice massimo, o per mimare l'elmo e incitare così ancor più alla lotta, o non piuttosto «per nascondere agli dei ciò che stava per compiere». Sintomatico è quel che accade subito dopo. I graccani arretrano, perché lui è il pontefice massimo, e perché dietro di sé ha quasi tutto il Senato. Allora i senatori, «strappate le spranghe di legno dalle mani dei graccani, li colpivano, li inseguivano, li gettavano giù dai dirupi. Molti perirono e lo stesso Tiberio Gracco, bloccato davanti al tempio, fu ucciso sul posto. Il cadavere suo e degli altri fu gettato nottetempo nel Tevere ». Il fotogramma dei graccani paralizzati e come ipnotizzati dall'autorità di questa orda di senatori inferociti e omicidi è una scena di per sé chiarificatrice dell'illimitata efficacia dell'auctoritas senatoria anche in situazioni estreme.
I senatori non erano del tutto nuovi a queste imprese se si considera che, secondo una tradizione nota a Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane), lo stesso Romolo era stato massacrato in Senato dagli stessi senatori, ormai persuasi che il suo governo fosse troppo «tirannico». Accusa fatale quella di «tirannide» (costerà la vita anche a Cesare), cui il Senato ricorre per bollare un leader e segnarne la condanna. Anche con Tiberio Gracco avevano utilizzato quell'accusa di «regnum» con cui facevano fuori gli avversari. Lo sappiamo da Plutarco (Vita di Tiberio Gracco) il quale dà un dettaglio in più, che dovrebbe meglio spiegare lo scatenamento belluino di Scipione Nasica: «I graccani — scrive Plutarco — si preparavano a respingere gli assalitori facendo a pezzi le aste con cui le guardie trattenevano la folla. Quelli che erano più lontani, stupiti, chiesero che cosa fosse successo. Tiberio, non potendo farsi udire, si mise una mano sulla testa, con un gesto che voleva significare pericolo. Ma gli avversari, a quella vista, corsero in Senato ad annunciare che Tiberio chiedeva la corona: ciò — insinuavano — significava quel gesto. Nasica chiese al console di venire in soccorso dello Stato abbattendo il tiranno ». E poco dopo partì alla carica, piegate rapidamente le perplessità del console, accusato di inadempienza ai suoi doveri.
Com'è chiaro dall'intera, lunghissima storia di questo potente organismo, fondato sulla cooptazione e sopravvissuto gagliardamente anche alla cosiddetta fine della Repubblica, il Senato romano aveva superato ben presto i limiti d'azione propri di un organo consultivo. E fu sempre più la vera sede decisionale: pronto a gridare al «tiranno» ogni volta che le altre forme di potere gli si sono parate dinanzi.
Negli ordinamenti arcaici, a partire dalla «gerusìa» omerica, un Senato è il tassello più importante. Mentre in Atene (dove le funzioni di tale organo sono proprie dell'Areopago) il potere si disloca via via altrove, è a Sparta che la «gerusìa » conserva — in stretta collaborazione con gli efori e con i re — il potere effettivo. I «geronti» (o «senatori») a Sparta venivano nominati per acclamazione: ma per rientrare tra gli eleggibili ci volevano requisiti quali l'appartenenza a determinate grandi famiglie, come si ricava chiaramente da alcuni passi della Politica di Aristotele. Dunque anche sotto questo rispetto l'accostamento tra ordinamenti romani e ordinamenti spartani, ricorrente nella riflessione costituzionale antica, appare pertinente. Polibio di Megalopoli, greco passato ai romani non solo perché prigioniero di guerra ma anche perché spiritualmente conquistato dal modello politico dei vincitori, ha descritto meglio di ogni altro l'ordinamento romano rappresentandolo come originale variante del modello spartano, e soprattutto come esempio — secondo lui imperituro — di «costituzione mista ». Costituzione, o pratica, in cui un corpo non elettivo ma di cooptazione, qual è appunto il Senato, assume il ruolo chiave nella dialettica tra esecutivo e massa popolare- elettorale. Polibio entrò in crisi quando il conflitto esploso intorno alle leggi graccane sembrò dimostrare che anche la «perfetta » macchina costituzionale romana scricchiolava. Ma noi, cui è toccato il privilegio di sapere «come è andata a finire», sappiamo ormai che il sistema misto ha vinto quantunque rivestito delle esteriorità o ritualità elettoralistiche che costituiscono un prezioso strumento di legittimazione per quei corpi tecnici, di competenti non certo di elettoralmente reclutati, nelle cui mani è il potere effettivo. Non più ostentato come al tempo di Scipione Nasica, ma al riparo dall'indiscreta «democrazia», e perciò tanto più (si può immaginare) durevole.
Così nella Roma antica il Senato difese i privilegi
Gli oligarchi non esitarono ad uccidere il tribuno Tiberio Gracco
di Luciano Canfora
Chi cerchi di intendere cosa fosse, quanto pesasse e cosa significasse il Senato romano dovrebbe, credo, far capo a quella pagina mirabile in cui Appiano di Alessandria descrive la uccisione di Tiberio Gracco (estate del 133 a.C.). Lo scontro riguardava la rielezione del tribuno. Il Senato, interferendo pesantemente, attraverso suoi uomini fidati, nell'autonoma gestione di quel vitale organo di difesa popolare che doveva essere, in linea di principio, il tribunato, si opponeva.
Ed ecco i fatti. Quando i seguaci di Tiberio Gracco spezzano, armandosi di bastoni, il cerchio paralizzante dell'ostruzionismo procedurale degli avversari pilotati dal Senato, quest'ultimo decide di reagire con la forza. Lo storico alessandrino si chiede perché mai non abbiano fatto ricorso ad uno strumento estremo tipico dei momenti di crisi, quale la nomina di un dictator.
Invece il Senato vuole «dare una lezione» e, dopo una rapida seduta tenuta nel tempio di Fides, scende direttamente in battaglia, e si lancia nello scontro fisico, non senza aver fatto circolare la falsa voce che Tiberio si fosse fatto proclamare tribuno senza votazione. «Mossero verso il Campidoglio — scrive lo storico —. Li precedeva, primo fra tutti, il pontefice massimo, Cornelio Scipione Nasica, il quale urlava che tutti lo seguissero; e si era tirato intorno al capo l'estremità della toga». Con sarcasmo lo storico si chiede se ricorresse a quel gesto per rimarcare il suo rango di pontefice massimo, o per mimare l'elmo e incitare così ancor più alla lotta, o non piuttosto «per nascondere agli dei ciò che stava per compiere». Sintomatico è quel che accade subito dopo. I graccani arretrano, perché lui è il pontefice massimo, e perché dietro di sé ha quasi tutto il Senato. Allora i senatori, «strappate le spranghe di legno dalle mani dei graccani, li colpivano, li inseguivano, li gettavano giù dai dirupi. Molti perirono e lo stesso Tiberio Gracco, bloccato davanti al tempio, fu ucciso sul posto. Il cadavere suo e degli altri fu gettato nottetempo nel Tevere ». Il fotogramma dei graccani paralizzati e come ipnotizzati dall'autorità di questa orda di senatori inferociti e omicidi è una scena di per sé chiarificatrice dell'illimitata efficacia dell'auctoritas senatoria anche in situazioni estreme.
I senatori non erano del tutto nuovi a queste imprese se si considera che, secondo una tradizione nota a Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane), lo stesso Romolo era stato massacrato in Senato dagli stessi senatori, ormai persuasi che il suo governo fosse troppo «tirannico». Accusa fatale quella di «tirannide» (costerà la vita anche a Cesare), cui il Senato ricorre per bollare un leader e segnarne la condanna. Anche con Tiberio Gracco avevano utilizzato quell'accusa di «regnum» con cui facevano fuori gli avversari. Lo sappiamo da Plutarco (Vita di Tiberio Gracco) il quale dà un dettaglio in più, che dovrebbe meglio spiegare lo scatenamento belluino di Scipione Nasica: «I graccani — scrive Plutarco — si preparavano a respingere gli assalitori facendo a pezzi le aste con cui le guardie trattenevano la folla. Quelli che erano più lontani, stupiti, chiesero che cosa fosse successo. Tiberio, non potendo farsi udire, si mise una mano sulla testa, con un gesto che voleva significare pericolo. Ma gli avversari, a quella vista, corsero in Senato ad annunciare che Tiberio chiedeva la corona: ciò — insinuavano — significava quel gesto. Nasica chiese al console di venire in soccorso dello Stato abbattendo il tiranno ». E poco dopo partì alla carica, piegate rapidamente le perplessità del console, accusato di inadempienza ai suoi doveri.
Com'è chiaro dall'intera, lunghissima storia di questo potente organismo, fondato sulla cooptazione e sopravvissuto gagliardamente anche alla cosiddetta fine della Repubblica, il Senato romano aveva superato ben presto i limiti d'azione propri di un organo consultivo. E fu sempre più la vera sede decisionale: pronto a gridare al «tiranno» ogni volta che le altre forme di potere gli si sono parate dinanzi.
Negli ordinamenti arcaici, a partire dalla «gerusìa» omerica, un Senato è il tassello più importante. Mentre in Atene (dove le funzioni di tale organo sono proprie dell'Areopago) il potere si disloca via via altrove, è a Sparta che la «gerusìa » conserva — in stretta collaborazione con gli efori e con i re — il potere effettivo. I «geronti» (o «senatori») a Sparta venivano nominati per acclamazione: ma per rientrare tra gli eleggibili ci volevano requisiti quali l'appartenenza a determinate grandi famiglie, come si ricava chiaramente da alcuni passi della Politica di Aristotele. Dunque anche sotto questo rispetto l'accostamento tra ordinamenti romani e ordinamenti spartani, ricorrente nella riflessione costituzionale antica, appare pertinente. Polibio di Megalopoli, greco passato ai romani non solo perché prigioniero di guerra ma anche perché spiritualmente conquistato dal modello politico dei vincitori, ha descritto meglio di ogni altro l'ordinamento romano rappresentandolo come originale variante del modello spartano, e soprattutto come esempio — secondo lui imperituro — di «costituzione mista ». Costituzione, o pratica, in cui un corpo non elettivo ma di cooptazione, qual è appunto il Senato, assume il ruolo chiave nella dialettica tra esecutivo e massa popolare- elettorale. Polibio entrò in crisi quando il conflitto esploso intorno alle leggi graccane sembrò dimostrare che anche la «perfetta » macchina costituzionale romana scricchiolava. Ma noi, cui è toccato il privilegio di sapere «come è andata a finire», sappiamo ormai che il sistema misto ha vinto quantunque rivestito delle esteriorità o ritualità elettoralistiche che costituiscono un prezioso strumento di legittimazione per quei corpi tecnici, di competenti non certo di elettoralmente reclutati, nelle cui mani è il potere effettivo. Non più ostentato come al tempo di Scipione Nasica, ma al riparo dall'indiscreta «democrazia», e perciò tanto più (si può immaginare) durevole.