giovedì 15 maggio 2008

La moglie di Augusto fu molto amata dai sui sudditi anche se non mancarono pettegolezzi...

Liberazione, 13 maggio 2008
La moglie di Augusto fu molto amata dai sui sudditi anche se non mancarono pettegolezzi...

Una testa di Livia proveniente da Fayum, in Egitto

di Ivana Musiani
Capostipite di quella schiera (non troppo folta) di anzianissimi ben portanti che, intervistati dal giornalista di turno sul segreto della loro longevità, sono soliti attribuirne il merito al quotidiano bicchiere di vino, è niente meno che l'imperatrice Livia, moglie e consigliera di Augusto, già mezza divinizzata quand'era ancora in vita nonché dea a tutti gli effetti post mortem. A darne notizia, nella - probabilmente - più ampia biografia a lei dedicata (ben 554 pagine) è lo storico inglese Anthony A. Barrett, la cui familiarità con la Roma imperiale ha già prodotto un saggio su Caligola: The Corruption of Power e un altro dal titolo Agrippina: Sex, Power, and Politics in the Early Empire . Anche Livia (edizioni dell'Altana, 26 euro), non manca di sottotitolo, molto più lusinghiero però dei precedenti e che bene le si attaglia: La First Lady dell'Impero . Come conferma Luciano Canfora nella prefazione, Livia «fu percepita dai sudditi non solo come consorte del princeps ma compartecipe del potere», ruolo questo «accettato e approvato da Augusto».
Fu la vicinanza del suo villaggio al Vallo di Adriano l'attrazione fatale di Barrett per la Roma antica. Mentre la meta domenicale dei coetanei era la base locale della Royal Air Force, lui non si stancava di pedalare sino alla poderosa edificazione: l'ammirazione e la curiosità per quei remoti costruttori segnarono il suo destino. «Non credo sia possibile avere con l'antica Roma un legame tanto intenso quanto il mio», scrive nella prefazione, riconoscendo in Livia il personaggio che più lo affascina: «Il fatto stesso che sopravvivesse assolutamente incolume per più di sessant'anni nel cuore del potere romano, e quello probabilmente ancor più rimarchevole d'essere stata riverita e ammirata per molte generazioni dopo la sua morte, attesta la sua accorta capacità di guadagnarsi il sostegno, la simpatia e persino l'affetto dei contemporanei. Livia potrebbe così essere definita la First Lady di Roma in senso ampio, dato che nessuna donna romana prima o dopo di lei riuscì a ottenere rispetto e devozione più profondi e durevoli».
Sostiene ancora l'autore che quella imperiale «era un'epoca in cui il potere politico s'intrecciava con le risorse private e con un indiscusso, personale carisma». Un carisma, prosegue, che si identificava anche con lo stile di vita: a quello di Livia sono dedicati ampi capitoli che gettano una luce inedita sul personaggio e la sua epoca.
Per tornare al quotidiano bicchiere di vino, Livia era solita gustare una sola "etichetta", il Pucino, prodotto da un vitigno selezionatissimo, coltivato non lontano dalle foci del Timavo e che gli enologi, dopo molte ricerche, stimano essere l'odierno prosecco. Secondo Plinio, il Pucino possedeva virtù medicamentose, ragione questa non secondaria della propensione di Livia per questo vino. La moglie di Augusto fu infatti una salutista ante litteram, seguace delle dottrine di un famoso guru della medicina, Asclepiade, il quale oltre a prescrivere diete, esercizi passivi, massaggi, bagni e letti oscillanti, era un fervido assertore del consumo di vino, purché moderato. Anche Livia era solita confezionare pozioni con le erbe che coltivava personalmente nella sua villa di Prima Porta. Oltre al bicchiere di vino Livia consumava una dose quotidiana di inula , un'erbacea dai bei fiori gialli che cresce in tutta l'area mediterranea, le cui radici amarognole sono tuttora impiegate in farmacia e in liquoreria. Inutile dire che l'orto che circondava la casa di Prima Porta traboccava di questa pianta, e i romani avevano cominciato a farne grande uso seguendo il suo esempio. I rimedi naturali che ci sono pervenuti e di cui Livia era generosa dispensatrice comprendono tra l'altro una pasta dentifricia, un medicamento contro le infiammazioni alla gola e uno per alleviare gli stati di tensione nervosa. Le dosi erano meticolosamente prescritte in monetine come unità di peso: 2 denarii di oppio, 1 denario di coriandolo, 1 vittoriato (mezzo denario) di amomo, e così via.
Procurarsi tutti gli ingredienti raccomandati da Livia non era semplice: per realizzare quello contro le infiammazioni alla gola ne occorrono ben diciassette, tra cui «cenere di pulcini di rondine selvatica». Fosse nata nel Medioevo, di sicuro Livia non sarebbe sfuggita al rogo come strega. Nella Roma imperiale, grazie anche al ruolo che ricopriva, il massimo in cui poteva incorrere era il pettegolezzo: un pettegolezzo pesante, però, dal momento che, come riporta Luciano Canfora, «secondo Caligola le morti di Marcello, di Caio Cesare e di Lucio Cesare - tutti ostacoli all'ascesa di Tiberio, figlio di Livia e del suo primo marito - avevano a che fare con lei. La chiamava Ulixes Stolatus, Ulisse vestito da donna». Si tratta solo di dicerie, però: prove contro di lei non ce ne sono, anche se l'autore della biografia fornisce una spiegazione un po' maliziosa a quei pettegolezzi: «Poiché spettava alle donne la responsabilità principale del benessere familiare, era inevitabile che cadessero su di lei i sospetti in caso di morte procurata da problemi gastrici. Se Livia insisteva con i suoi sistemi di cura con i familiari, non si stenta a immaginare che potesse sorgere qualche diceria in seguito ad una morte per lei vantaggiosa. Non si dovrebbe sottovalutare la possibilità che la stravagante combinazione di erba melica (una graminacea, ndr) e cenere di rondine facesse più male che bene e che lei potesse avere contribuito a liquidare alcuni suoi pazienti, a dispetto delle sue migliori intenzioni». Però a Livia vennero mosse accuse di aver avvelenato Augusto semplicemente con i fichi della pianta che cresceva nella villa di Prima Porta, i cui bellissimi affreschi - tutti voli d'uccelli e luoghi boscosi - sono ulteriori conferme dell'amore di Livia per la natura. In ogni caso, Augusto morì serenamente, benedicendo la sua presunta avvelenatrice, con una frase che si direbbe il suggello d'un film d'amore d'una volta: Livia, nostri coniugii memor, vive ac vale (Livia, nel ricordo della nostra unione, vivi e stai bene).
E d'amore in effetti si trattò. Quando Augusto mise gli occhi su Livia, erano entrambi sposati, lei per giunta incinta del secondo figlio. Essendo la nuova unione rimasta infertile, la legge consentiva ad Augusto di chiedere il divorzio. Non lo fece, adottando i figli che lei aveva avuto dal precedente matrimonio, restandole fedele per tutta la vita e costantemente additando la moglie come un esempio da imitare.
Era bella Livia? Ovidio la descrive come una Venere col volto di Giunone. Nelle numerose statue che la raffigurano, Livia ha il volto piuttosto rotondo e quasi senza espressione. Nonostante il rango, non compaiono gioielli, né le vesti ostentano ricercatezze: un'eleganza, diremmo oggi, all'inglese. La lunga vita di Livia si svolse infatti all'insegna della compostezza e della moderazione, in gran parte voluta per mantenersi all'altezza del suo ruolo di First Lady. Quando la colpì la tragedia della morte del figlio Druso, andò in terapia (si direbbe oggi) dal filosofo Areo Didimo d'Alessandria, che con i suoi consigli l'aiutò a non perdere il controllo pubblicamente. Venne meno al suo contegno distaccato soltanto due volte: fu quando, trovandosi casualmente presente a due incendi, diede una mano a spegnere il fuoco.


13/05/2007