Nei cunicoli delle catacombe dove si cercava l'eternità
Melania Mazzucco
la Repubblica, 5/12/2006
Chi di voi non ha visto almeno una volta un film ambientato nell'antica Roma? Un 'sandalone' affollato di gladiatori muscolosi e vergini cristiane, oppure un film hollywoodiano di grande impatto, come Quo Vadis o Ben Hur. Per la maggior parte di noi la conoscenza della storia — perfino della storia nostra — è filtrata proprio attraverso quelle immagini rutilanti e bugiarde. In quei film, a un certo punto, si vede la comunità dei cristiani che celebra il rito clandestino della messa nelle catacombe, in un balenare di torce che fumano. O nelle catacombe vengono martirizzati da crudeli soldati pagani. E' un falso storico, perché mai i cristiani nelle catacombe furono sterminati (a quello scopo c'era già il Colosseo). Però, grazie al potere di persuasione del cinema, ancora oggi, fra le migliaia di turisti che ogni anno scendono a visitare le catacombe di Roma, molti sono lì proprio per vedere non quello che c'è, ma qualcosa che non è mai esistito.
Del resto c'è chi va a Milano al Cenacolo di Leonardo per vedere se san Giovanni Battista era una donna. Le catacombe invece erano semplicemente dei cimiteri, situati lungo le principali vie consolari, fuori dal centro abitato per via delle igieniche leggi romane (molto simili alle nostre). Di solito, qualche ricca matrona convertita al cristianesimo metteva a disposizione dei suoi correligionari poveri un suo terreno ai margini della città: per questo molte catacombe hanno nome di donna. L'etimologia della parola cimitero è estremamente poetica: in greco, koimao significa dormire. I cimiteri sarebbero dunque il luogo nel quale i cristiani dormivano insieme per secoli, in attesa del risveglio che sarebbe puntualmente avvenuto il giorno del giudizio. E' noto infatti che per i cristiani la morte era (o dovrebbe essere) solo un breve sonno. I cimiteri erano dunque un regno silenzioso, per anime addormentate nel sonno. Un'idea non solo religiosa, ma quasi letteraria, un po' come la Luna di Ariosto, dove andrebbe a finire il senno degli uomini impazziti. Avere scoperto che la Luna è solo un sasso deserto a noi tristemente incatenato dalla gravità non ha giovato agli uomini né ai poeti. La parola catacomba oggi nel linguaggio popolare è sinonimo di luogo buio e freddo. "Pare di essere in una catacomba", mi è capitato di sentir dire ancora pochi giorni fa, in un cinema in cui non funzionava il riscaldamento. Ma che significa, in realtà? "Presso le cavità" (ancora dal greco, katà e kumbas), come mi insegna il prezioso volume di Bisconti, Fiocchi Nicolai e Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma (edito da Schell & Steiner nel 2002 e in vendita presso tutte le catacombe).
In origine, questa definizione indicava solo un sito specifico, al III miglio della via Appia, dov'era appunto la catacomba di san Sebastiano, poi ha finito per indicare tutti i luoghi analoghi. Insomma, le catacombe sono cimiteri sotterranei, situati là dove il terreno romano offre avvallamenti e cavità. Cioè, com'è noto, in molti punti, perché Roma è una città stratificata, verticale — in senso opposto alle città americane: lì i grattacieli puntano in alto, la nostra altezza, invece, è più metafisica, ed è sempre diretta nel profondo. Le catacombe sono una specialità di Roma. Come il Tevere o il Vaticano. E però, stranamente, noi romani le conosciamo poco, forse non le amiamo abbastanza. In questo, siamo buoni eredi di una lunga tradizione di noncuranza e oblio. Per circa ottocento anni, infatti, dall'epoca delle invasioni barbariche del VII secolo fino al Rinascimento, dell'esistenza delle catacombe si era quasi persa la memoria. In qualche guida per i pellegrini dell'Alto medioevo le catacombe, che all'epoca contenevano ancora le reliquie di molti martiri, venivano descritte dettagliatamente. Ma poi le reliquie erano state traslate nelle chiese dentro le mura aureliane, proprio per salvarle dalle devastazioni dei barbari, e quelle guide erano ormai carta ammuffita nella biblioteca di qualche monastero.
Ci volle l'amore per il passato e il coraggio di un avventuriero della conoscenza, per ritrovarle. Quest'uomo si chiamava Antonio Bosio. Ma di lui racconterò più avanti. Molti di noi alle catacombe ci sono stati solo da bambini, con la scuola. Io stessa, confesso, non scendevo in una catacomba da almeno trent'anni: mi era rimasto il ricordo di una gita divertente e macabra, fra loculi aperti e vuoti, e corridoi che si perdevano nel buio. Vagare tra le tombe scoperchiate, in un cimitero abbandonato, fra ossa e teschi, o esplorare il centro della terra è il sogno di ogni bambino. E qualcosa di avventuroso la visita a una catacomba la serba ancora, a chi ha saputo conservare il piacere infantile dell'immaginazione. Fra l'altro va detto che, soprattutto in inverno, può perfino capitare di fare la visita in fascinosa solitudine. Quando, poco tempo fa, sono tornata alla Catacomba di Domitilla, c'era una folla scoraggiante. Il parcheggio era invaso di torpedoni che scaricavano a getto continuo i turisti forzati del "giro di Roma in tre giorni", paracadutati da un monumento all'altro, senza sapere bene in quale epoca della storia si trovassero. Però, al momento di cominciare la visita in italiano, mi sono ritrovata sola con la guida, una dolce ragazza polacca di nome Kasia.
Roma vanta una sessantina di catacombe, disposte come una corona intorno e sotto la città moderna, a disegnare una specie di Grande Raccordo Anulare del Sonno. Però solo cinque sono aperte al pubblico. Le più conosciute sono quelle dell'Appia Antica — San Callista e San Sebastiano e, poco discosta, quella di Domitilla. La più appartata è santa Costanza, sulla Nomentana. La più suggestiva, Priscilla, sulla Salaria. Ho scelto di cominciare la ricognizione da Domitilla per ragioni che presto si capiranno. Le catacombe non sono tutte uguali. Benché sostanzialmente siano tutte costituite da un labirinto di corridoi, che corrono per svariati chilometri su diversi livelli, e in varie forme (a spina di pesce, rettilinee, a curva) ogni catacomba ha la sua peculiarità. Ce n'è di monumentali e raccolte, più antiche o più recenti, cristiane ma pure pagane ed ebraiche. In tutte, comunque, si compie un viaggio infero. All'inizio, infatti, si scende. Una scala, un cunicolo, una rampa. E ci si inoltra in un dedalo umido e oscuro: il percorso è illuminato dalla luce elettrica ma, per poco che se si guardi a destra o a sinistra, si scorgono solo corridoi infiniti che precipitano nella tenebra. Sui muri, da vecchie lapidi smangiate dai millenni ci vengono incontro nomi in latino. Ma qualche volta anche più moderni. Sono graffiti molto simili a quelli che i writers taggano sui vagoni della metro o sui palazzi. E chi li ha fatti, li ha fatti per lo stesso motivo: per dire "sono stato qui". A san Callisto, un tale Joannes Lock ha inciso il suo nome in un cubicolo nel 1432; l'austero erudito Pomponio Leto e i suoi seguaci, invece, nel 1475 si abbandonarono a una goliardata a carboncino: di Pomponio Minucio si dice che è la "gioia delle ragazze di Roma". Ma lo facevano anche per un'altra ragione, meno frivola, quasi vitale. Per tornare a riveder le stelle. Quei nomi, infatti, appartengono ai primi, coraggiosi esploratori dell'epoca moderna, che, armati solo di corda e torce, si calarono nei misteriosi cunicoli che si erano aperti all'improvviso sotto i piedi dei contadini nelle vigne, nei campi o nelle cave di pozzolana. Da quei pozzi, però, i contadini non tiravano su acqua, ma reperti antichi di secoli, frammenti di ossa. Era un'epoca di ardimentosi. A quel tempo, il navigatore Henry Hudson salpava in cerca del passaggio a Nord Ovest. Antonio Bosio, invece, salpò cercando la porta verso un'altra dimensione: il passato. Era il 1593. Antonio aveva diciotto anni. Originario di Malta, figlio illegittimo e nipote di un agente della corte pontificia mandato in esilio per omicidio, a quel tempo era uno studente appassionato di storia antica del cristianesimo. Insieme col suo maestro Pomponio Ugonio, il 10 dicembre scese nella catacomba di Domitilla. Camminò per ore, sbigottito, inoltrandosi nelle viscere della città che amava appassionatamente come tutti coloro che non avevano avuto il privilegio di nascervi, nel fango molle e in un odore di chiuso e di morte — e a un tratto si rese conto di non riconoscere la strada da cui era venuto. Si era perso.
Melania Mazzucco
la Repubblica, 5/12/2006
Chi di voi non ha visto almeno una volta un film ambientato nell'antica Roma? Un 'sandalone' affollato di gladiatori muscolosi e vergini cristiane, oppure un film hollywoodiano di grande impatto, come Quo Vadis o Ben Hur. Per la maggior parte di noi la conoscenza della storia — perfino della storia nostra — è filtrata proprio attraverso quelle immagini rutilanti e bugiarde. In quei film, a un certo punto, si vede la comunità dei cristiani che celebra il rito clandestino della messa nelle catacombe, in un balenare di torce che fumano. O nelle catacombe vengono martirizzati da crudeli soldati pagani. E' un falso storico, perché mai i cristiani nelle catacombe furono sterminati (a quello scopo c'era già il Colosseo). Però, grazie al potere di persuasione del cinema, ancora oggi, fra le migliaia di turisti che ogni anno scendono a visitare le catacombe di Roma, molti sono lì proprio per vedere non quello che c'è, ma qualcosa che non è mai esistito.
Del resto c'è chi va a Milano al Cenacolo di Leonardo per vedere se san Giovanni Battista era una donna. Le catacombe invece erano semplicemente dei cimiteri, situati lungo le principali vie consolari, fuori dal centro abitato per via delle igieniche leggi romane (molto simili alle nostre). Di solito, qualche ricca matrona convertita al cristianesimo metteva a disposizione dei suoi correligionari poveri un suo terreno ai margini della città: per questo molte catacombe hanno nome di donna. L'etimologia della parola cimitero è estremamente poetica: in greco, koimao significa dormire. I cimiteri sarebbero dunque il luogo nel quale i cristiani dormivano insieme per secoli, in attesa del risveglio che sarebbe puntualmente avvenuto il giorno del giudizio. E' noto infatti che per i cristiani la morte era (o dovrebbe essere) solo un breve sonno. I cimiteri erano dunque un regno silenzioso, per anime addormentate nel sonno. Un'idea non solo religiosa, ma quasi letteraria, un po' come la Luna di Ariosto, dove andrebbe a finire il senno degli uomini impazziti. Avere scoperto che la Luna è solo un sasso deserto a noi tristemente incatenato dalla gravità non ha giovato agli uomini né ai poeti. La parola catacomba oggi nel linguaggio popolare è sinonimo di luogo buio e freddo. "Pare di essere in una catacomba", mi è capitato di sentir dire ancora pochi giorni fa, in un cinema in cui non funzionava il riscaldamento. Ma che significa, in realtà? "Presso le cavità" (ancora dal greco, katà e kumbas), come mi insegna il prezioso volume di Bisconti, Fiocchi Nicolai e Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma (edito da Schell & Steiner nel 2002 e in vendita presso tutte le catacombe).
In origine, questa definizione indicava solo un sito specifico, al III miglio della via Appia, dov'era appunto la catacomba di san Sebastiano, poi ha finito per indicare tutti i luoghi analoghi. Insomma, le catacombe sono cimiteri sotterranei, situati là dove il terreno romano offre avvallamenti e cavità. Cioè, com'è noto, in molti punti, perché Roma è una città stratificata, verticale — in senso opposto alle città americane: lì i grattacieli puntano in alto, la nostra altezza, invece, è più metafisica, ed è sempre diretta nel profondo. Le catacombe sono una specialità di Roma. Come il Tevere o il Vaticano. E però, stranamente, noi romani le conosciamo poco, forse non le amiamo abbastanza. In questo, siamo buoni eredi di una lunga tradizione di noncuranza e oblio. Per circa ottocento anni, infatti, dall'epoca delle invasioni barbariche del VII secolo fino al Rinascimento, dell'esistenza delle catacombe si era quasi persa la memoria. In qualche guida per i pellegrini dell'Alto medioevo le catacombe, che all'epoca contenevano ancora le reliquie di molti martiri, venivano descritte dettagliatamente. Ma poi le reliquie erano state traslate nelle chiese dentro le mura aureliane, proprio per salvarle dalle devastazioni dei barbari, e quelle guide erano ormai carta ammuffita nella biblioteca di qualche monastero.
Ci volle l'amore per il passato e il coraggio di un avventuriero della conoscenza, per ritrovarle. Quest'uomo si chiamava Antonio Bosio. Ma di lui racconterò più avanti. Molti di noi alle catacombe ci sono stati solo da bambini, con la scuola. Io stessa, confesso, non scendevo in una catacomba da almeno trent'anni: mi era rimasto il ricordo di una gita divertente e macabra, fra loculi aperti e vuoti, e corridoi che si perdevano nel buio. Vagare tra le tombe scoperchiate, in un cimitero abbandonato, fra ossa e teschi, o esplorare il centro della terra è il sogno di ogni bambino. E qualcosa di avventuroso la visita a una catacomba la serba ancora, a chi ha saputo conservare il piacere infantile dell'immaginazione. Fra l'altro va detto che, soprattutto in inverno, può perfino capitare di fare la visita in fascinosa solitudine. Quando, poco tempo fa, sono tornata alla Catacomba di Domitilla, c'era una folla scoraggiante. Il parcheggio era invaso di torpedoni che scaricavano a getto continuo i turisti forzati del "giro di Roma in tre giorni", paracadutati da un monumento all'altro, senza sapere bene in quale epoca della storia si trovassero. Però, al momento di cominciare la visita in italiano, mi sono ritrovata sola con la guida, una dolce ragazza polacca di nome Kasia.
Roma vanta una sessantina di catacombe, disposte come una corona intorno e sotto la città moderna, a disegnare una specie di Grande Raccordo Anulare del Sonno. Però solo cinque sono aperte al pubblico. Le più conosciute sono quelle dell'Appia Antica — San Callista e San Sebastiano e, poco discosta, quella di Domitilla. La più appartata è santa Costanza, sulla Nomentana. La più suggestiva, Priscilla, sulla Salaria. Ho scelto di cominciare la ricognizione da Domitilla per ragioni che presto si capiranno. Le catacombe non sono tutte uguali. Benché sostanzialmente siano tutte costituite da un labirinto di corridoi, che corrono per svariati chilometri su diversi livelli, e in varie forme (a spina di pesce, rettilinee, a curva) ogni catacomba ha la sua peculiarità. Ce n'è di monumentali e raccolte, più antiche o più recenti, cristiane ma pure pagane ed ebraiche. In tutte, comunque, si compie un viaggio infero. All'inizio, infatti, si scende. Una scala, un cunicolo, una rampa. E ci si inoltra in un dedalo umido e oscuro: il percorso è illuminato dalla luce elettrica ma, per poco che se si guardi a destra o a sinistra, si scorgono solo corridoi infiniti che precipitano nella tenebra. Sui muri, da vecchie lapidi smangiate dai millenni ci vengono incontro nomi in latino. Ma qualche volta anche più moderni. Sono graffiti molto simili a quelli che i writers taggano sui vagoni della metro o sui palazzi. E chi li ha fatti, li ha fatti per lo stesso motivo: per dire "sono stato qui". A san Callisto, un tale Joannes Lock ha inciso il suo nome in un cubicolo nel 1432; l'austero erudito Pomponio Leto e i suoi seguaci, invece, nel 1475 si abbandonarono a una goliardata a carboncino: di Pomponio Minucio si dice che è la "gioia delle ragazze di Roma". Ma lo facevano anche per un'altra ragione, meno frivola, quasi vitale. Per tornare a riveder le stelle. Quei nomi, infatti, appartengono ai primi, coraggiosi esploratori dell'epoca moderna, che, armati solo di corda e torce, si calarono nei misteriosi cunicoli che si erano aperti all'improvviso sotto i piedi dei contadini nelle vigne, nei campi o nelle cave di pozzolana. Da quei pozzi, però, i contadini non tiravano su acqua, ma reperti antichi di secoli, frammenti di ossa. Era un'epoca di ardimentosi. A quel tempo, il navigatore Henry Hudson salpava in cerca del passaggio a Nord Ovest. Antonio Bosio, invece, salpò cercando la porta verso un'altra dimensione: il passato. Era il 1593. Antonio aveva diciotto anni. Originario di Malta, figlio illegittimo e nipote di un agente della corte pontificia mandato in esilio per omicidio, a quel tempo era uno studente appassionato di storia antica del cristianesimo. Insieme col suo maestro Pomponio Ugonio, il 10 dicembre scese nella catacomba di Domitilla. Camminò per ore, sbigottito, inoltrandosi nelle viscere della città che amava appassionatamente come tutti coloro che non avevano avuto il privilegio di nascervi, nel fango molle e in un odore di chiuso e di morte — e a un tratto si rese conto di non riconoscere la strada da cui era venuto. Si era perso.