La favolosa stanza degli intarsi marmorei
Italia Sera, 14/11/2006
Fu rinvenuta a Ostia nel 1959 dall'archeologo Giovanni Becatti
E' difficile immaginare, guardando le rovine dell'antichità sottoposte a millenni di spoliazioni e rapine più o meno autorizzate, quale potesse essere il loro aspetto originario. Quelle che oggi appaiono come nude strutture murarie, erano ricoperte da splendenti marmi, graniti e porfidi, provenienti per la massima parte dalla Grecia, dal Mediterraneo orientale e dall'Africa. Quest'immensa mole di materiale che andava ad abbellire Roma e le ville del Lazio tra il I e il V secolo venne trasportata per mare e arrivò ad Ostia, dove riceveva una prima lavorazione, soprattutto per quanto riguarda le parti architettoniche, nelle tante botteghe artigiane, come quella scoperta presso il centro della città, nel cui magazzino erano stipate 52 colonne. Nella Colonia alla foce del Tevere, inoltre, dovette fiorire un'arte originale e caratteristica, quella dell'intarsio marmoreo, detto "opus sectile", usato sia per pavimenti che per rivestire pareti con pannelli figurati o decorativi: il più grande complesso di "opus sectile" giunto sino a noi proviene proprio da Ostia, da quell'edificio definito per tanto tempo "prospetto a mare" del Decumano massimo ed oggi interpretato come una ricchissima domus o come la sede di un "Collegium", ossia una sorta di corporazione, risalente all'età adrianea (117-138), con forti rimaneggiamenti nel corso del IV secolo. La fortunata scoperta avvenne nel 1959. Il famoso archeologo Giovanni Becatti stava portando a termine la pubblicazione del IV volume degli scavi di Ostia, dedicato a "Mosaici e pavimenti marmorei" e, quindi, prestava una maggior attenzione a resti lapidei affioranti dal terreno. Accortosi che ce n'erano in quantità impressionante tra i resti di un ambiente crollato presso l'antica linea della spiaggia, iniziò lo scavo. Procedendo con la massima attenzione, fu recuperata, in successivi strati di crollo, la decorazione marmorea della sala, risalente al IV sec, che non mancò di suscitare scalpore, non solo per la ricchezza, ma anche per l'originalità di alcuni soggetti. Sulle due pareti maggiori gli intarsi si succedevano in fasce sovrapposte, realizzate, probabilmente, dall'alto verso il basso. Nel primo registro della parete destra, scandito da lesene ed articolato in riquadri listellati di giallo antico, porfido rosso, pavonazzetto e porfido verde, si può vedere un tondo contenente il ritratto di un giovane aristocratico. Al centro della fascia superiore è l'immagine che più di tutte ha fatto discutere gli studiosi: si tratta del busto di un giovane uomo, barbato, vestito di una bianca tunica con una fascia (clavus) purpurea, la testa circondata da un nimbo, con la mano destra alzata in un gesto (solo mignolo e anulare sono piegati) che è stato variamente interpretato come allocuzione o benedizione. Alcuni ritengono che si tratti di un filosofo, ma l'opinione più suggestiva e più accreditata è che sia un'immagine di Cristo, raffigurato nell'atto di esprimere la sua benevolenza nei confronti del "Collegium" o del padrone della casa o dei suoi abitanti, che forse qui si riunivano per lezioni di filosofia. Si tratterebbe quindi di un'antichissima raffigurazione del Redentore, probabilmente la prima con la barba che ci sia nota. Fino ad allora, infatti, sarcofagi e pitture ci avevano mostrato Gesù come un giovinetto imberbe, anche quando era assiso sul trono con il cielo ai suoi piedi.
Sopra un'elegantissima fascia con girali d'acanto messa in evidenza dal fondo in porfido verde greco, in due grandi campi rettangolari giganteggiano due leoni in giallo antico che azzannano senza pietà due teneri cerbiatti in grigio bardiglio, cui corrispondono, sulla parete opposta, due tigri striate in giallo antico e porfido verde, anch'esse raffigurate nell'atto di assalire un cerbiatto. E' stato proprio il confronto tra queste belve e quelle, analoghe, della Basilica di Giunio Basso sull'Esquilino, a fissare la datazione dell'intero programma decorativo all'avanzato IV secolo: ipotesi suffragata dal rinvenimento di una moneta in bronzo dell'imperatore Massimo (383 - 388 d. C.) nella malta di allettamento di uno dei pannelli. Straordinaria è la resa del corpo dei leoni, frutto di una maestria eccezionale: i diversi pezzi di giallo antico sono stati sottoposti all'azione del fuoco, che ha dato ai margini sfumature tendenti al rosso, per rendere il movimento del pelame e un forte effetto chiaroscurale. Un ultimo registro si svolgeva sulla parte più alta della parete, con riquadri, cornici e dischi dentati.
La decorazione più stupefacente, al limite dell'incredibile, era quella che ricopriva le tre pareti dell'esedra quadrangolare di fondo, dove era imitata, con marmi pregiati, una cortina di mattoni, nella quale si aprivano finte finestre chiuse da un "opus reticulatum", naturalmente marmoreo. Quasi completamente perso il rivestimento del soffitto, in tessere musive blu ed oro, la magnificenza della stanza doveva essere completata dal pavimento, che quando crollò l'edificio non era ancora stato posto in opera. Doveva essere composto da formelle quadrate 90 centimetri ciascuna che, unite quattro a quattro, avrebbero dato vita a un disegno con stelle a quattro punte e cerchi. Al centro delle stelle erano dischi o quadrati, contenuti in cerchi listellati o semplici. Un primo restauro del 1966 è stato attentamente rivisto»nel 1999.
Dopo essere stati in parie presentati al Palazzo delle Esposizioni nel 2000, in occasione della mostra "Aurea Roma", i pannelli sono stati trasferiti al Museo Nazionale dell'Alto Medioevo e sottoposti a un nuovo intervento conservativo durato due anni. In questa ultima sede museale, in via Lincoln 3, è possibile ora ammirare la serie di pannelli ricostruita in forma inedita, in una mostra inaugurata nei giorni scorsi dal vicepresidente del Consiglio e ministro per i Beni e le Attività Culturali, Francesco Rutelli.
Italia Sera, 14/11/2006
Fu rinvenuta a Ostia nel 1959 dall'archeologo Giovanni Becatti
E' difficile immaginare, guardando le rovine dell'antichità sottoposte a millenni di spoliazioni e rapine più o meno autorizzate, quale potesse essere il loro aspetto originario. Quelle che oggi appaiono come nude strutture murarie, erano ricoperte da splendenti marmi, graniti e porfidi, provenienti per la massima parte dalla Grecia, dal Mediterraneo orientale e dall'Africa. Quest'immensa mole di materiale che andava ad abbellire Roma e le ville del Lazio tra il I e il V secolo venne trasportata per mare e arrivò ad Ostia, dove riceveva una prima lavorazione, soprattutto per quanto riguarda le parti architettoniche, nelle tante botteghe artigiane, come quella scoperta presso il centro della città, nel cui magazzino erano stipate 52 colonne. Nella Colonia alla foce del Tevere, inoltre, dovette fiorire un'arte originale e caratteristica, quella dell'intarsio marmoreo, detto "opus sectile", usato sia per pavimenti che per rivestire pareti con pannelli figurati o decorativi: il più grande complesso di "opus sectile" giunto sino a noi proviene proprio da Ostia, da quell'edificio definito per tanto tempo "prospetto a mare" del Decumano massimo ed oggi interpretato come una ricchissima domus o come la sede di un "Collegium", ossia una sorta di corporazione, risalente all'età adrianea (117-138), con forti rimaneggiamenti nel corso del IV secolo. La fortunata scoperta avvenne nel 1959. Il famoso archeologo Giovanni Becatti stava portando a termine la pubblicazione del IV volume degli scavi di Ostia, dedicato a "Mosaici e pavimenti marmorei" e, quindi, prestava una maggior attenzione a resti lapidei affioranti dal terreno. Accortosi che ce n'erano in quantità impressionante tra i resti di un ambiente crollato presso l'antica linea della spiaggia, iniziò lo scavo. Procedendo con la massima attenzione, fu recuperata, in successivi strati di crollo, la decorazione marmorea della sala, risalente al IV sec, che non mancò di suscitare scalpore, non solo per la ricchezza, ma anche per l'originalità di alcuni soggetti. Sulle due pareti maggiori gli intarsi si succedevano in fasce sovrapposte, realizzate, probabilmente, dall'alto verso il basso. Nel primo registro della parete destra, scandito da lesene ed articolato in riquadri listellati di giallo antico, porfido rosso, pavonazzetto e porfido verde, si può vedere un tondo contenente il ritratto di un giovane aristocratico. Al centro della fascia superiore è l'immagine che più di tutte ha fatto discutere gli studiosi: si tratta del busto di un giovane uomo, barbato, vestito di una bianca tunica con una fascia (clavus) purpurea, la testa circondata da un nimbo, con la mano destra alzata in un gesto (solo mignolo e anulare sono piegati) che è stato variamente interpretato come allocuzione o benedizione. Alcuni ritengono che si tratti di un filosofo, ma l'opinione più suggestiva e più accreditata è che sia un'immagine di Cristo, raffigurato nell'atto di esprimere la sua benevolenza nei confronti del "Collegium" o del padrone della casa o dei suoi abitanti, che forse qui si riunivano per lezioni di filosofia. Si tratterebbe quindi di un'antichissima raffigurazione del Redentore, probabilmente la prima con la barba che ci sia nota. Fino ad allora, infatti, sarcofagi e pitture ci avevano mostrato Gesù come un giovinetto imberbe, anche quando era assiso sul trono con il cielo ai suoi piedi.
Sopra un'elegantissima fascia con girali d'acanto messa in evidenza dal fondo in porfido verde greco, in due grandi campi rettangolari giganteggiano due leoni in giallo antico che azzannano senza pietà due teneri cerbiatti in grigio bardiglio, cui corrispondono, sulla parete opposta, due tigri striate in giallo antico e porfido verde, anch'esse raffigurate nell'atto di assalire un cerbiatto. E' stato proprio il confronto tra queste belve e quelle, analoghe, della Basilica di Giunio Basso sull'Esquilino, a fissare la datazione dell'intero programma decorativo all'avanzato IV secolo: ipotesi suffragata dal rinvenimento di una moneta in bronzo dell'imperatore Massimo (383 - 388 d. C.) nella malta di allettamento di uno dei pannelli. Straordinaria è la resa del corpo dei leoni, frutto di una maestria eccezionale: i diversi pezzi di giallo antico sono stati sottoposti all'azione del fuoco, che ha dato ai margini sfumature tendenti al rosso, per rendere il movimento del pelame e un forte effetto chiaroscurale. Un ultimo registro si svolgeva sulla parte più alta della parete, con riquadri, cornici e dischi dentati.
La decorazione più stupefacente, al limite dell'incredibile, era quella che ricopriva le tre pareti dell'esedra quadrangolare di fondo, dove era imitata, con marmi pregiati, una cortina di mattoni, nella quale si aprivano finte finestre chiuse da un "opus reticulatum", naturalmente marmoreo. Quasi completamente perso il rivestimento del soffitto, in tessere musive blu ed oro, la magnificenza della stanza doveva essere completata dal pavimento, che quando crollò l'edificio non era ancora stato posto in opera. Doveva essere composto da formelle quadrate 90 centimetri ciascuna che, unite quattro a quattro, avrebbero dato vita a un disegno con stelle a quattro punte e cerchi. Al centro delle stelle erano dischi o quadrati, contenuti in cerchi listellati o semplici. Un primo restauro del 1966 è stato attentamente rivisto»nel 1999.
Dopo essere stati in parie presentati al Palazzo delle Esposizioni nel 2000, in occasione della mostra "Aurea Roma", i pannelli sono stati trasferiti al Museo Nazionale dell'Alto Medioevo e sottoposti a un nuovo intervento conservativo durato due anni. In questa ultima sede museale, in via Lincoln 3, è possibile ora ammirare la serie di pannelli ricostruita in forma inedita, in una mostra inaugurata nei giorni scorsi dal vicepresidente del Consiglio e ministro per i Beni e le Attività Culturali, Francesco Rutelli.