l'Unità 27.9.07
SPQR: Sono Profughi Questi Romani
di Alessandro Barbero
IL SEGRETO DEL SUCCESSO dell’impero romano? Il meticciato. L’aver allargato la cittadinanza ai «barbari». Una lungimiranza politica di cui lo storico torinese parlerà al pubblico domenica a Roma nella sua «Lectio di Storia»
L’impero romano era la creazione di un popolo di dominatori che in quanto soli detentori della cittadinanza godevano di tutti i diritti, e mantenevano gli indigeni delle province conquistate in uno stato di subalternità politica e giuridica. Essere cittadino romano significava disporre di privilegi molto concreti, come testimonia la vicenda, raccontata negli Atti degli Apostoli, dell’arresto di san Paolo a Gerusalemme: quando l’apostolo comunicò al comandante romano di possedere la cittadinanza, e per di più dalla nascita, all’ufficiale non restò che rimetterlo in libertà con tante scuse (non senza commentare amaramente: «per poter essere cittadino romano, io ho dovuto pagare una grossa somma di denaro»).
L’episodio dimostra che già al tempo dei primi imperatori la cerchia privilegiata dei cives Romani non aveva più connotazioni razziali: in tutte le province conquistate, l’opportunità politica consigliava di cooptare le élites indigene concedendo loro la cittadinanza, senza troppo preoccuparsi se si trattasse di principi mauri dalla pelle nera e dai capelli ricciuti o di ricchi ebrei dell’Asia Minore come appunto Saulo di Tarso. Qualche volta l’assimilazione falliva, come nel caso di quel Caio Giulio Arminio, cittadino e cavaliere romano, di cui Tacito ci dice che a sentirlo parlare si capiva che il latino l’aveva imparato in caserma, e che a un certo punto si mise alla testa dell’insurrezione germanica contro Roma, distruggendo le legioni di Varo nella Selva di Teutoburgo. Ma in generale l’allargamento della cittadinanza rappresentò uno dei segreti del successo dell’impero romano, come ben sapeva l’imperatore Claudio: per sconfiggere la resistenza dei senatori a una cooptazione di notabili gallici, ricordò loro che Romolo concedeva la cittadinanza ai nemici già il giorno dopo averli sconfitti, e che proprio per aver proseguito su questa strada Roma era diventata sempre più potente, mentre Atene, dove gli stranieri che venivano a vivere in città rimanevano meteci senza diritti, era finita malissimo.
Particolarmente importante sul piano quantitativo era il procedimento per cui gli indigeni, o addirittura i barbari d’oltre confine, che si arruolavano nei reparti ausiliari dell’esercito ricevevano in premio la cittadinanza romana, attestata dai diplomi di bronzo che gli archeologi ritrovano a migliaia in tutta Europa. L’esercito praticò sempre la politica della mescolanza, stanziando reggimenti di Arabi in Germania e di Africani sul Danubio, e contribuì a fare dell’impero un immenso melting-pot, in cui gente di tutte le razze e di tutte le religioni venne rifusa in un unico corpo politico e in un’unica cultura, quella ellenistica. L’editto con cui Caracalla, nel 212 dopo Cristo, concesse la cittadinanza a tutti coloro che abitavano nell’impero, e che ancora molto tempo dopo Sant’Agostino celebrava come «una decisione umanissima», può essere considerato la prima sanatoria della storia: l’idea che fra i sudditi dell’imperatore si potessero distinguere cittadini ed indigeni appariva ormai anacronistica.
A partire da allora, quanti venivano a vivere nell’immenso impero non ebbero più bisogno di un certificato per essere considerati cittadini: bastava risiedere sul territorio romano e riconoscere l’autorità dell’imperatore per avere gli stessi diritti di tutti gli altri. L’impero aveva fame di uomini, per coltivare i campi nelle province spopolate dalla guerra o dalle epidemie e per riempire i ranghi delle «fiorentissime legioni», e non si fece scrupolo di importarli in grande quantità, accogliendo profughi e immigrati e, se necessario, deportando intere tribù. Ai nostri occhi parrebbe che ci dovesse essere una grande differenza fra chi chiedeva asilo nell’impero e chi vi era deportato a forza, ma gli uffici che si occupavano di sistemare questa gente erano gli stessi e, in pratica, le condizioni di accoglienza finivano per essere molto simili: i barbari lavoravano duramente e pagavano le tasse, e i loro figli erano arruolati nell’esercito, finché, come si estasiavano i retori di Costantinopoli, non diventavano «in tutto uguali a noi».
Nella retorica governativa, l’impero romano dopo Costantino si presenta sempre più come la terra promessa di tutta l’umanità. Gli imperatori si rallegrano dei molti popoli che vengono a cercare «la felicità romana», e compiangono quelli che non hanno ancora avuto «l’occasione di essere romani». Questa è anche l’epoca in cui l’impero romano sta diventando cristiano, e naturalmente la Chiesa incoraggia questa politica di apertura universalistica: così come l’impero di Roma è destinato a governare il mondo, così la fede cristiana è destinata a diffondersi su tutta la terra. Il poeta Prudenzio si augura «che tutti i barbari divengano Romani», e che da stirpi diverse nasca un unico popolo, romano e cristiano.
Beninteso, questa ideologia dell’apertura universale si accompagna a un progetto di dominio mondiale, portato avanti con estrema brutalità: sono due facce, quella presentabile e quella meno presentabile, di una stessa politica di superpotenza. Mentre l’imperatore è adulato come «padre non solo del suo popolo, ma del genere umano», c’è chi realizza bei profitti speculando sull’importazione di manodopera per le caserme: le leggi sulla coscrizione parlano senza tanti infingimenti dell’«acquisto delle reclute» (tironum comparatio) e della «compravendita di immigrati» (advenarum coemptio). Le più grandi operazioni umanitarie di accoglienza di profughi, come l’ingresso dei Goti nel 376, diventano l’occasione per abusi di ogni genere, descritti con estrema crudezza dai cronisti contemporanei: fra generali che costringono i profughi a pagare le razioni fornite gratuitamente dal governo e ufficiali che approfittano della separazione delle famiglie per portarsi a casa le ragazzine. Pochi immaginano che proprio sulla capacità di gestire con successo la sfida dell’immigrazione si giocherà, di lì a poco, la sopravvivenza politica dell’impero romano.
SPQR: Sono Profughi Questi Romani
di Alessandro Barbero
IL SEGRETO DEL SUCCESSO dell’impero romano? Il meticciato. L’aver allargato la cittadinanza ai «barbari». Una lungimiranza politica di cui lo storico torinese parlerà al pubblico domenica a Roma nella sua «Lectio di Storia»
L’impero romano era la creazione di un popolo di dominatori che in quanto soli detentori della cittadinanza godevano di tutti i diritti, e mantenevano gli indigeni delle province conquistate in uno stato di subalternità politica e giuridica. Essere cittadino romano significava disporre di privilegi molto concreti, come testimonia la vicenda, raccontata negli Atti degli Apostoli, dell’arresto di san Paolo a Gerusalemme: quando l’apostolo comunicò al comandante romano di possedere la cittadinanza, e per di più dalla nascita, all’ufficiale non restò che rimetterlo in libertà con tante scuse (non senza commentare amaramente: «per poter essere cittadino romano, io ho dovuto pagare una grossa somma di denaro»).
L’episodio dimostra che già al tempo dei primi imperatori la cerchia privilegiata dei cives Romani non aveva più connotazioni razziali: in tutte le province conquistate, l’opportunità politica consigliava di cooptare le élites indigene concedendo loro la cittadinanza, senza troppo preoccuparsi se si trattasse di principi mauri dalla pelle nera e dai capelli ricciuti o di ricchi ebrei dell’Asia Minore come appunto Saulo di Tarso. Qualche volta l’assimilazione falliva, come nel caso di quel Caio Giulio Arminio, cittadino e cavaliere romano, di cui Tacito ci dice che a sentirlo parlare si capiva che il latino l’aveva imparato in caserma, e che a un certo punto si mise alla testa dell’insurrezione germanica contro Roma, distruggendo le legioni di Varo nella Selva di Teutoburgo. Ma in generale l’allargamento della cittadinanza rappresentò uno dei segreti del successo dell’impero romano, come ben sapeva l’imperatore Claudio: per sconfiggere la resistenza dei senatori a una cooptazione di notabili gallici, ricordò loro che Romolo concedeva la cittadinanza ai nemici già il giorno dopo averli sconfitti, e che proprio per aver proseguito su questa strada Roma era diventata sempre più potente, mentre Atene, dove gli stranieri che venivano a vivere in città rimanevano meteci senza diritti, era finita malissimo.
Particolarmente importante sul piano quantitativo era il procedimento per cui gli indigeni, o addirittura i barbari d’oltre confine, che si arruolavano nei reparti ausiliari dell’esercito ricevevano in premio la cittadinanza romana, attestata dai diplomi di bronzo che gli archeologi ritrovano a migliaia in tutta Europa. L’esercito praticò sempre la politica della mescolanza, stanziando reggimenti di Arabi in Germania e di Africani sul Danubio, e contribuì a fare dell’impero un immenso melting-pot, in cui gente di tutte le razze e di tutte le religioni venne rifusa in un unico corpo politico e in un’unica cultura, quella ellenistica. L’editto con cui Caracalla, nel 212 dopo Cristo, concesse la cittadinanza a tutti coloro che abitavano nell’impero, e che ancora molto tempo dopo Sant’Agostino celebrava come «una decisione umanissima», può essere considerato la prima sanatoria della storia: l’idea che fra i sudditi dell’imperatore si potessero distinguere cittadini ed indigeni appariva ormai anacronistica.
A partire da allora, quanti venivano a vivere nell’immenso impero non ebbero più bisogno di un certificato per essere considerati cittadini: bastava risiedere sul territorio romano e riconoscere l’autorità dell’imperatore per avere gli stessi diritti di tutti gli altri. L’impero aveva fame di uomini, per coltivare i campi nelle province spopolate dalla guerra o dalle epidemie e per riempire i ranghi delle «fiorentissime legioni», e non si fece scrupolo di importarli in grande quantità, accogliendo profughi e immigrati e, se necessario, deportando intere tribù. Ai nostri occhi parrebbe che ci dovesse essere una grande differenza fra chi chiedeva asilo nell’impero e chi vi era deportato a forza, ma gli uffici che si occupavano di sistemare questa gente erano gli stessi e, in pratica, le condizioni di accoglienza finivano per essere molto simili: i barbari lavoravano duramente e pagavano le tasse, e i loro figli erano arruolati nell’esercito, finché, come si estasiavano i retori di Costantinopoli, non diventavano «in tutto uguali a noi».
Nella retorica governativa, l’impero romano dopo Costantino si presenta sempre più come la terra promessa di tutta l’umanità. Gli imperatori si rallegrano dei molti popoli che vengono a cercare «la felicità romana», e compiangono quelli che non hanno ancora avuto «l’occasione di essere romani». Questa è anche l’epoca in cui l’impero romano sta diventando cristiano, e naturalmente la Chiesa incoraggia questa politica di apertura universalistica: così come l’impero di Roma è destinato a governare il mondo, così la fede cristiana è destinata a diffondersi su tutta la terra. Il poeta Prudenzio si augura «che tutti i barbari divengano Romani», e che da stirpi diverse nasca un unico popolo, romano e cristiano.
Beninteso, questa ideologia dell’apertura universale si accompagna a un progetto di dominio mondiale, portato avanti con estrema brutalità: sono due facce, quella presentabile e quella meno presentabile, di una stessa politica di superpotenza. Mentre l’imperatore è adulato come «padre non solo del suo popolo, ma del genere umano», c’è chi realizza bei profitti speculando sull’importazione di manodopera per le caserme: le leggi sulla coscrizione parlano senza tanti infingimenti dell’«acquisto delle reclute» (tironum comparatio) e della «compravendita di immigrati» (advenarum coemptio). Le più grandi operazioni umanitarie di accoglienza di profughi, come l’ingresso dei Goti nel 376, diventano l’occasione per abusi di ogni genere, descritti con estrema crudezza dai cronisti contemporanei: fra generali che costringono i profughi a pagare le razioni fornite gratuitamente dal governo e ufficiali che approfittano della separazione delle famiglie per portarsi a casa le ragazzine. Pochi immaginano che proprio sulla capacità di gestire con successo la sfida dell’immigrazione si giocherà, di lì a poco, la sopravvivenza politica dell’impero romano.