lo spettacolo e il suo potere
Susanna Nirenstein
La Repubblica, 8 gennaio 2001
Di nudo hanno quasi solo il petto. Il braccio destro e parte delle gambe sono avvolti da imbottiture spesse come coltroni. Un’ampia cintura di cuoio o di metallo e una grossa fasciatura avvolgono la vita e il ventre, i gambali di bronzo proteggono dalle ginocchia in giù, lo scudo fa il resto insieme a un ricco elmo istoriato color oro fornito di una paurosa grata davanti agli occhi. Insomma, terribili e a un tempo umanissimi, in balia del fato: così ci appaiono i due gladiatori secondo la ricostruzione a misura reale che ci accoglie al British Museum di Londra, all’inizio del percorso della mostra Gladiators and Caesars / The Power of Spectacle in Ancient Rome. Con tutti quei materassini intorno al corpo ci si parano di fronte più protetti e meno eroici, diversi da come ce li immaginavamo e anche da come li ha messi in scena il Gladiator di Ridley Scott — di cui per altro, all’inizio del percorso, scorrono le immagini insieme a quelle di BenHur —, vultnerabili, eppure, professionisti, schiavi o prigiovnieri che fossero, pronti a morire per dare spettacolo.
Sulla visiera, una palma, simbolo di vittoria, sui paraguance una lancia e uno scudo, in alto una cresta e Nemesi, dea del destino. E l’elmo non è una ricostruzione approssimativa: a pochi passi, in una teca, lascia quasi esterrefatti il perfetto originale del I secolo d.C. ritrovato nelle baracche dei gladiatori di Pompei, che insieme a molti altri resti archeologici (statuette, armi e armature, sarcofagi, mosaici) e intelligenti cartelli illustrativi ci testimoniano come dovevano essere questi scontri fatali.
"Missum" o "Mitte" come a dire "lascialo andare", urlava la folla quando voleva concedere la vita al gladiatore vinto che si fosse mostrato particolarmente coraggioso. Se invece desiderava la sua morte (che sarebbe dovuta avvenire secondo un rituale ben preciso, con la gola recisa, inchinato ai piedi del vincitore, le braccia dietro la schiena, l’elmo in testa per rendere più facile il compito all’avversario che non l’avrebbe visto in volto) l’esortazione sarebbe stata diversa: "Jugula", "tagliagli la gola", gridavano, con il Pollice verso, naturalmente, come recita anche il palpitante quadro dipinto nel 1872 da JeanLéon Gérome. Ed ecco qui la seconda sorpresa della mostra: perché sia Gérome che la gran parte di noi hanno sempre inteso quel "pollice verso" come voltato all’ingiù, e invece i romani lo voltavano verso l’alto, davvero. Una volta ucciso, poi, soddisfatta, la platea sarebbe esplosa in quell’"habet!" che accompagnava ogni colpo decisivo.
Fino a che l’umanità non fu percepita come plasmata a "immagine di Dio", ovvero non si fece strada l’idea ebraicocristiana della sacralità della vita, il sangue degli uomini fu sparso a fiumi su arene e anfiteatri con massima soddisfazione degli astanti: quelle morti davano fama, denaro ai vincitori e onoravano l’imperatore che aveva organizzato i giochi, i munera. Di più: da un lato i cittadini avrebbero amato i loro governanti per il piacere e la partecipazione alla tessitura della vita o della morte dei combattenti, dall’altro il destino sarebbe stato propizio, perché la lotta mortale, come ogni altro rito cruento, aveva il potere di allontanare gli influssi magici maligni, tanto che i primi incontri, i ludi, si tennero in occasione del funerale di qualche grande, con buoni auspici per il suo aldilà — un dato che troviamo ampiamente rievocato in numerosi sarcofagi.
Strano, impossibile spettacolo volontario per noi quello della morte violenta e fatua. Però, ad essere in gioco doveva essere — se così decideva il pubblico insieme all’imperatore o chi per lui — la vita, proprio la vita, del gladiatore, lo dimostra il fatto che una volta ucciso nell’arena, portato via su una barella nello spoliarium, era regola infliggergli una coltellata alla giugulare per evitare ogni possibile sorpresa.
Il gioco sanguinario, quel godere nel guardare uomini, donne e bestie feroci mentre si massacravano e venivano massacrate andò avanti per secoli, certamente dal 264 a.C. al 404 d.C. (ma si trovano già negli affreschi di giochi funerari tenuti in Campania tra il 370 e il 340 a.C.). Per i Cesari fu quasi un’industria. Così come lo furono le corse delle bighe e le venationes, le cacce, programmate nei giochi dal II sec. a.C., da quando cioè si iniziarono a portare a Roma le bestie feroci, leoni, leopardi, orsi che gli uomini avrebbero dovuto combattere solo con una lancia e uno scudo in mano.
Erano momenti di folla e di sangue che compattavano in modo straordinario il pubblico, e Roma lo sapeva e ne aveva bisogno. Il potere politico era nelle mani di poche famiglie rivali sempre più immerse nel lusso, un privilegio che certo non le avvicinava al popolo: intorno al 57 a.C., per esempio, il generale Lucius Licinius Lucullus spese per un banchetto 50.000 sesterzi, mentre la paga annuale di un suo legionario era di 480 sesterzi. I lunghi servizi militari (20 anni) avevano svuotato le fattorie, i piccoli proprietari vendevano terre, larghe schiere di disoccupati si spostavano nella capitale che si gonfiava di una plebe sempre più capace di esercitare una forte pressione, forza di cui i politici cercavano di impadronirsi abbracciando le loro richieste (come calmierare i prezzi), ma anche elargendo benefici concreti, grano, pasti, denaro e, naturalmente, giochi.
Cesare fu un vero mago in questo. Il futuro imperatore era un grande appassionato di incontri gladiatori: manteneva in Campania una scuola per i lottatori, e organizzò, facendo debiti su debiti, giochi ed elargizioni di tale ampiezza da oscurare ogni precedente: durante le festività del 46 a.C. ogni cittadino ricevette 10 stai di grano, 5 chili d’olio, 400 sesterzi e un anno di affitto. A lui si deve la costruzione dei posti a sedere per il Foro Romano, e di corridoi sotterranei all’arena per creare effetti speciali all’entrata dei combattenti o degli animali. E se queste misure le adottò una volta diventato dictator, già da giovane, quando era ancora aedile, aveva schierato nelle arene un numero di gladiatori mai visto prima: l’opposizione riuscì a far passare una legge che limitava le coppie dei guerrieri a 320, teoricamente per evitare rivolte come quella di Spartaco, in realtà per ostacolare proprio la grandeur di Cesare.
Chi lo seguì non fu da meno. Augusto nei ludi che volle in suo nome mise in campo 10.000 gladiatori, 3.500 bestie feroci, una battaglia navale in un lago con tre grandi navi, molti piccoli vascelli e 3.000 uomini. Caligola lottò lui stesso da gladiatore nell’arena, guidò i carri nella corsa, danzò e cantò in pubblico. Claudio organizzò una grandiosa battaglia navale sul lago Fucino con 19.000 combattenti. E se Nerone, si sa, non aveva freni — fu lui a ricorrere alla damnatio ad bestias, a cui venivano sottoposti, nudi senza armi o legati, i condannati per assassinio, tradimento, incendio doloso, dissacrazione di tempio e dunque i cristiani; lui a cantare in gare canore portandosi claque di 5000 persone, a guidare una biga ad Olimpia tirata da dieci cavalli di cui perse il controllo senza rinunciare però a farsi dichiarare vincitore della corsa. Vespasiano costruì il più grande monumento romano per il divertimento dei suoi cittadini, il Colosseo, Traiano tenne feste lunghe mesi e mesi, prima nel 107, poi nel 109 — in cui si esibirono diecimila gladiatori e furono uccisi almeno 11.000 animali — e Commodo non mancò di scendere nell’arena, vestito da Ercole, a combattere le bestie feroci.
Susanna Nirenstein
La Repubblica, 8 gennaio 2001
Di nudo hanno quasi solo il petto. Il braccio destro e parte delle gambe sono avvolti da imbottiture spesse come coltroni. Un’ampia cintura di cuoio o di metallo e una grossa fasciatura avvolgono la vita e il ventre, i gambali di bronzo proteggono dalle ginocchia in giù, lo scudo fa il resto insieme a un ricco elmo istoriato color oro fornito di una paurosa grata davanti agli occhi. Insomma, terribili e a un tempo umanissimi, in balia del fato: così ci appaiono i due gladiatori secondo la ricostruzione a misura reale che ci accoglie al British Museum di Londra, all’inizio del percorso della mostra Gladiators and Caesars / The Power of Spectacle in Ancient Rome. Con tutti quei materassini intorno al corpo ci si parano di fronte più protetti e meno eroici, diversi da come ce li immaginavamo e anche da come li ha messi in scena il Gladiator di Ridley Scott — di cui per altro, all’inizio del percorso, scorrono le immagini insieme a quelle di BenHur —, vultnerabili, eppure, professionisti, schiavi o prigiovnieri che fossero, pronti a morire per dare spettacolo.
Sulla visiera, una palma, simbolo di vittoria, sui paraguance una lancia e uno scudo, in alto una cresta e Nemesi, dea del destino. E l’elmo non è una ricostruzione approssimativa: a pochi passi, in una teca, lascia quasi esterrefatti il perfetto originale del I secolo d.C. ritrovato nelle baracche dei gladiatori di Pompei, che insieme a molti altri resti archeologici (statuette, armi e armature, sarcofagi, mosaici) e intelligenti cartelli illustrativi ci testimoniano come dovevano essere questi scontri fatali.
"Missum" o "Mitte" come a dire "lascialo andare", urlava la folla quando voleva concedere la vita al gladiatore vinto che si fosse mostrato particolarmente coraggioso. Se invece desiderava la sua morte (che sarebbe dovuta avvenire secondo un rituale ben preciso, con la gola recisa, inchinato ai piedi del vincitore, le braccia dietro la schiena, l’elmo in testa per rendere più facile il compito all’avversario che non l’avrebbe visto in volto) l’esortazione sarebbe stata diversa: "Jugula", "tagliagli la gola", gridavano, con il Pollice verso, naturalmente, come recita anche il palpitante quadro dipinto nel 1872 da JeanLéon Gérome. Ed ecco qui la seconda sorpresa della mostra: perché sia Gérome che la gran parte di noi hanno sempre inteso quel "pollice verso" come voltato all’ingiù, e invece i romani lo voltavano verso l’alto, davvero. Una volta ucciso, poi, soddisfatta, la platea sarebbe esplosa in quell’"habet!" che accompagnava ogni colpo decisivo.
Fino a che l’umanità non fu percepita come plasmata a "immagine di Dio", ovvero non si fece strada l’idea ebraicocristiana della sacralità della vita, il sangue degli uomini fu sparso a fiumi su arene e anfiteatri con massima soddisfazione degli astanti: quelle morti davano fama, denaro ai vincitori e onoravano l’imperatore che aveva organizzato i giochi, i munera. Di più: da un lato i cittadini avrebbero amato i loro governanti per il piacere e la partecipazione alla tessitura della vita o della morte dei combattenti, dall’altro il destino sarebbe stato propizio, perché la lotta mortale, come ogni altro rito cruento, aveva il potere di allontanare gli influssi magici maligni, tanto che i primi incontri, i ludi, si tennero in occasione del funerale di qualche grande, con buoni auspici per il suo aldilà — un dato che troviamo ampiamente rievocato in numerosi sarcofagi.
Strano, impossibile spettacolo volontario per noi quello della morte violenta e fatua. Però, ad essere in gioco doveva essere — se così decideva il pubblico insieme all’imperatore o chi per lui — la vita, proprio la vita, del gladiatore, lo dimostra il fatto che una volta ucciso nell’arena, portato via su una barella nello spoliarium, era regola infliggergli una coltellata alla giugulare per evitare ogni possibile sorpresa.
Il gioco sanguinario, quel godere nel guardare uomini, donne e bestie feroci mentre si massacravano e venivano massacrate andò avanti per secoli, certamente dal 264 a.C. al 404 d.C. (ma si trovano già negli affreschi di giochi funerari tenuti in Campania tra il 370 e il 340 a.C.). Per i Cesari fu quasi un’industria. Così come lo furono le corse delle bighe e le venationes, le cacce, programmate nei giochi dal II sec. a.C., da quando cioè si iniziarono a portare a Roma le bestie feroci, leoni, leopardi, orsi che gli uomini avrebbero dovuto combattere solo con una lancia e uno scudo in mano.
Erano momenti di folla e di sangue che compattavano in modo straordinario il pubblico, e Roma lo sapeva e ne aveva bisogno. Il potere politico era nelle mani di poche famiglie rivali sempre più immerse nel lusso, un privilegio che certo non le avvicinava al popolo: intorno al 57 a.C., per esempio, il generale Lucius Licinius Lucullus spese per un banchetto 50.000 sesterzi, mentre la paga annuale di un suo legionario era di 480 sesterzi. I lunghi servizi militari (20 anni) avevano svuotato le fattorie, i piccoli proprietari vendevano terre, larghe schiere di disoccupati si spostavano nella capitale che si gonfiava di una plebe sempre più capace di esercitare una forte pressione, forza di cui i politici cercavano di impadronirsi abbracciando le loro richieste (come calmierare i prezzi), ma anche elargendo benefici concreti, grano, pasti, denaro e, naturalmente, giochi.
Cesare fu un vero mago in questo. Il futuro imperatore era un grande appassionato di incontri gladiatori: manteneva in Campania una scuola per i lottatori, e organizzò, facendo debiti su debiti, giochi ed elargizioni di tale ampiezza da oscurare ogni precedente: durante le festività del 46 a.C. ogni cittadino ricevette 10 stai di grano, 5 chili d’olio, 400 sesterzi e un anno di affitto. A lui si deve la costruzione dei posti a sedere per il Foro Romano, e di corridoi sotterranei all’arena per creare effetti speciali all’entrata dei combattenti o degli animali. E se queste misure le adottò una volta diventato dictator, già da giovane, quando era ancora aedile, aveva schierato nelle arene un numero di gladiatori mai visto prima: l’opposizione riuscì a far passare una legge che limitava le coppie dei guerrieri a 320, teoricamente per evitare rivolte come quella di Spartaco, in realtà per ostacolare proprio la grandeur di Cesare.
Chi lo seguì non fu da meno. Augusto nei ludi che volle in suo nome mise in campo 10.000 gladiatori, 3.500 bestie feroci, una battaglia navale in un lago con tre grandi navi, molti piccoli vascelli e 3.000 uomini. Caligola lottò lui stesso da gladiatore nell’arena, guidò i carri nella corsa, danzò e cantò in pubblico. Claudio organizzò una grandiosa battaglia navale sul lago Fucino con 19.000 combattenti. E se Nerone, si sa, non aveva freni — fu lui a ricorrere alla damnatio ad bestias, a cui venivano sottoposti, nudi senza armi o legati, i condannati per assassinio, tradimento, incendio doloso, dissacrazione di tempio e dunque i cristiani; lui a cantare in gare canore portandosi claque di 5000 persone, a guidare una biga ad Olimpia tirata da dieci cavalli di cui perse il controllo senza rinunciare però a farsi dichiarare vincitore della corsa. Vespasiano costruì il più grande monumento romano per il divertimento dei suoi cittadini, il Colosseo, Traiano tenne feste lunghe mesi e mesi, prima nel 107, poi nel 109 — in cui si esibirono diecimila gladiatori e furono uccisi almeno 11.000 animali — e Commodo non mancò di scendere nell’arena, vestito da Ercole, a combattere le bestie feroci.