lunedì 5 maggio 2008

II crollo del Palatino - Voragini e muri pericolanti: il simbolo della potenza romana è a pezzi

II crollo del Palatino - Voragini e muri pericolanti: il simbolo della potenza romana è a pezzi
25-03-2007 LA STAMPA

La parola palazzo, in quaunque lingua (palace, palast, palais, palacio) rimanda al potere e alla sua sede.
Ma in sé indica «ciò che sta sul monte Palatino», e cioè la residenza imperiale di Roma. Ogni «palazzo» - dunque - è tale in quanto evoca l'unico «palatium» per antonomasia, quello di Roma. Un luogo fisico è diventato così un concetto universale. Bene: questo luogo fisico sta crollando. Come è crollato un tratto delle Mura Aureliane e come ha rischiato di crollare la Domus Aurea.
Il colle su cui Romolo aveva succhiato il latte della Lupa, dove si trovano le più antiche tracce dell'abitato dell'Urbe, dove Cesare e Cicerone avevano fissato le loro rispettive case, Augusto la sua dimora regale, gli imperatori Flavi i loro palazzi, è oggi il più grande malato di tutta l'area archeologica romana. Lo Stato non è inerte, ma non è neppure così sollecito come dovrebbe, per cui la corsa contro il tempo non si sa ancora da chi sarà vinta.
Il Palatino è oggi una groviera, non solo perché pieno di voragini, ma proprio per la sua stessa struttura: una collina urbanizzata in età arcaica repubblicana, sopra la quale sono stati elevati i palazzi di età imperiale, sui quali - infine nel Seicento i Farnese hanno allestito i loro giardini. Se i più recenti edifici sono malmessi, quelli antichi - e che reggono il peso - rischiano di non tenere più.
Il quaranta per cento dell'area non è agibile. Una lunga teoria di transenne sbarra gli accessi. L'area di nord-est (all'incirca in direzione del Colosseo) mostra le tracce degli impianti termali di Eliogabalo (218-222 d.C.) minacciati da un muro pericolante. Le opere di costruzione dell'ala severiana (quella che guarda a occidente, sul circo Massimo) in realtà non sostengono più nulla, neppure se stesse: crepe evidenti sulle volte, brandelli di laterizio che penzolano pericolosamente dagli archi, voragini che dall'interno vomitano polvere e detriti.
Nel lato sud-ovest, quello più antico, affacciato verso il Tevere, ci sono
residui di pilastri che si reggono come l'edera: abbarbicati alle pareti che un tempo dovevano sostenere. Lì sopra -hanno detto gli archeologi in un congresso tenutosi il 23 gennaio scorso sarebbe stato individuato il «lupercal», la grotta dove la Lupa nutrice avrebbe allevato Romolo e Remo. Ma il tutto potrebbe venire giù prima che la sacra grotta sia stata indagata.
La nostra visita continua lungo il perimetro: siamo alla Domus Tiberia-na, aggettante sul foro romano: forse il punto più critico. Da lì, verso le sette del mattino del 4 novembre del 2005, si staccò un lungo tratto di muro che rovinò al suolo in un boato che prometteva il peggio. Ora una complicata intelaiatura di tubi Innocenti ingabbia i calcinacci superstiti.
Il crollo fu il campanello di allarme. Il 13 dicembre di quello stesso anno veniva chiusa - per l'ennesima volta - la Domus Aurea di Nerone sotto il Colle Oppio: anche quella soffriva come il Palatino per il peso di un parco che, nel frattempo, si era sviluppato sul suo tetto. Il ministro dei Beni culturali dell'epoca, Rocco Buttigliene lanciò l'allarme: «Non solo il palazzo neroniano, ma anche il Palatino è in una gravissima situazione». Poi, aiutato dal soprintendente Angelo Bottini, passò dall'allarme all'azione e ordinò un piano per la messa in sicurezza del Colle. Nei mesi successivi arrivò un nuovo ministro - Francesco Rutelli - e l'opera fu continuata. Il professor Giorgio Croci, che insegna ingegneria strutturale alla Sapienza ha cominciato subito il lavoro.
«Non c'è dubbio che tutta la collina vada consolidata e tutte le strutture restaurate - ha detto il soprintendente Bottini - ma il lavoro dell'ingegner Croci ci ha consentito di stabilire delle priorità. In quanto la diagnosi, se ha evidenziato che la metà del costruito è danneggiata gravemente, ha anche articolato l'urgenza degli interventi in tre fasi successive: le opere da fare subito (quasi tutta l'area perimetrale), quelle che possono aspettare un po' di più e quelle che si possono fare in un terzo tempo».
Per le opere più urgenti servono sei milioni subito - e Rutelli li ha approntati prelevandoli dal fondo Arcus e da quello per Roma Capitale - e 18 mesi di cantiere. Di milioni ne serviranno poi altri 90 per completare l'opera, da diluire però in quindici anni, ma se non si troveranno si rischia di vanificare anche l'investimento dei 6. Giova però valutare un altro fattore: per un cantiere di diciotto mesi sono serviti due anni di pastoie burocra-tiche. E per i restanti tredici anni? Ciò che non hanno potuto quattro terremoti in diciannove secoli, potrebbe riuscire ai passacarte.