Il Sole 24 Ore, domenica 19/11/1989
Nel nuovo volume della einaudiana messo in risalto
il ruolo determinante per l' economia dell' Urbe della rete di
trasporti marittimi e fluviali che trovo' incompiuta espressione nel
grandioso progetto del canale con Pozzuoli
PER NERONE AUTOSTRADA SULL' ACQUA
Piero A. Gianfrotta
Esce in questi giorni presso Einaudi il quarto volume de lla progettata da Arnaldo Momigliano e Aldo Schiavone. E' l' ultimo della serie e il secondo pubblicato. E' un grosso tomo (pagg. XXXVIII + 968, L. 100.000) in cui sono trattati gli argomenti della storia antica: le economie, gli ambienti, i poteri e le forme sociali, le culture, le feste, i calendari e, tra l' altro, in un apposito capitolo anche la vita delle donne. Abbiamo fissato la nostra attenzione sul saggio di Piero A. Gianfrotta (del Dipartimento di Scienze dell' Antichita' , Universita' La Sapienza, Roma); in particolare sulle parti dedicate ai trasporti e alle navi, che rivestono un' importanza particolare nell' economia romana. Le notizie qui anticipate _ possibili ora grazie alle nuove acquisizioni dell' archeologia subacquea _ rappresentano uno dei momenti-chiave dell' economia antica e gettano ulteriore luce sulla storia dell' evoluzione dei trasporti e delle navi. . Malgrado la capillarita' e l' enorme estensione, tale da avvolgere l' intero Mediterraneo in una fitta trama, la rete stradale romana va considerata come parte di un sistema ancora piu' vasto, all' interno del quale il ruolo principale e' svolto dalle comunicazioni per vie d' acqua, marittime e fluviali. L' intero ciclo della navigazione, il cui corso e' descritto particolareggiatamente nel Periplo del Mare Eritreo, si svolgeva attraverso varie intermediazioni, soprattutto indiane e arabe per quanto riguarda i tratti orientali. Ma che vi fosse un coinvolgimento diretto anche da parte romana e' ampiamente testimoniato dalle fonti letterarie e dalla documentazione archeologica. B asti ricordare un esempio che, con particolare evidenza, si collega al porto di Pozzuoli, il principale terminale italiano dei traffici marittimi con l' Oriente. Ci riferiamo a un' iscrizione incisa in una grotta-riparo del Wadi Menih, in Egitto, luogo di sosta lungo uno dei principali percorsi del collegamento carovaniero fra i porti del Mar Rosso e il Nilo. Vi e' menzionato, in duplice versione greca e latina, un tal Lysas, servo di Annio Plocamo, un intraprendente mercante della gens Annia di Pozzuoli _ intensamente coinvolta con vari suoi membri nei commerci marittimi _ nel quale si e' identificato l' omonimo appaltatore daziario sulle merci di lusso (spezie, profumi, stoffe, eccetera) ricordato da Plinio, appunto, come colui che . All' inverso, nella stessa Pozzuoli e' attestata la presenza stabile di comunita' orientali di Arabi Nabatei, di Egiziani, di Fenici, evidentemente intenti a seguire in modo diretto i traffici mercantili provenienti dalle loro regioni d' origine. Cosi' come a Pozzuoli erano abbondanti i prodotti orientali (il che vale anche per la vicina Capua, dove erano attive numerose officine che trasformavano in profumi e cosmetici gli elementi vegetali di base che giungevano dall' Oriente), e' certamente significativo trovare documentazioni materiali di inequivocabile provenienza occidentale nelle regioni orientali. E' il caso, tra altr o, delle anfore di vino italiano, delle ceramiche da mensa di Arezzo e forse della stessa Pozzuoli e, soprattutto, di sorprendenti quantita' di monete romane. Sono quasi esclusivamente monete d' oro o d' argento, accettate dagli Indiani per il loro valore effettivo e non per quello nominale. Molti secoli piu' tardi, le medesime modalita' commerciali si conserveranno ancora nei lucrosi traffici delle varie compagnie europee delle Indie orientali (lingotti, monete d' argento e d' oro in cambio di prodotti esotici), ma le rotte di circumnavigazione dell' Africa avranno ormai tolto al Mediterraneo gran parte della sua importanza. A un percorso misto di mare e di terra fu necessario ricorrere per un lungo periodo anche per il trasporto del grano egiziano, che ogni anno veniva spedito a Roma sulle navi alessandrine in quantita' enormi (circa 250mila tonnellate l' anno, secondo calcoli attendibili). Fino alla prima eta' imperiale, infatti, poiche' Roma non disponeva di un porto in grado di smaltire la mole dei suoi traffici marittimi, per lo piu' concentrati nella buona stagione, la maggior parte delle navi alessandrine era costretta a sbarcare il carico nel piu' ricettivo porto di Pozzuoli. Da qui, solo in un secondo tempo, il grano proseguiva per Roma trasportato su carri o, quando possibile, reimbarcato su navi di minore tonnellaggio che si avventuravano nelle navigazioni invernali. Proprio per ovviare alla lentezza e alla dispendiosita' d el trasporto su strada e ai rischi della navigazione nel periodo del mare clausum (tra novembre e marzo), Nerone avvio' l' ardito progetto di tagliare un lungo canale interno, navigabile quindi anche in inverno, che, partendo dall' area portuale dei laghi Lucrino e Averno (in prossimita' di Pozzuoli) raggiungesse Roma. La grandiosa opera, che prevedeva di collegare tra loro i laghi costieri, le paludi e le canalizzazioni gia' esistenti (si pensi alla zona delle paludi pontine), fu abbandonata dopo appena quattro anni, con la morte di Nerone nel 68 d.C. Sorte analoga, del resto tocco' anche a un' altra intelligente iniziativa neroniana in favore della navigazione commerciale, quella del taglio del canale di Corinto, che sarebbe stata poi effettuata alla fine del secolo scorso. Il progetto del collegamento Roma-Pozz uoli, bollato dalla storiografia romana come espressione della megalomania di Nerone, si basava invece sulla valutazione estremamente concreta del grande vantaggio che ne sarebbe derivato, con la soluzione definitiva del grave problema dell' approvvigionamento di Roma che _ al di la' del notevole risparmio sui costi _ sarebbe finalmente divenuto sicuro. Va infatti tenuto presente che il trasporto per via di terra era dispendioso e lento: un carro pesante trainato da buoi viaggiava all' andatura media di appena tre chilometri l' ora. Dall' editto di Diocleziano, alla fine del III secolo d.C. risulta poi che la spesa per un carro di g rano raddoppiava dopo poco piu' di 400 chilometri, e che costava meno trasportare grano per nave da un estremo all' altro dell' impero piuttosto che farlo viaggiare su un carro per un centinaio di chilometri. Un' altra eloquente indicazione e' fornita da Catone, alcuni secoli prima, a proposito dell' acquisto di un torchio da olio del prezzo di poco piu' di 460 sesterzi; il suo costo, pero' , dovendolo acquistare in un centro distante sei giorni di viaggio con un carro, saliva a ben 730 sesterzi, con un incremento di circa il 60 per cento a causa del trasporto su una distanza valutabile in un centinaio di chilometri. In fondo, pero' non c' e' molto da stupire, poiche' , nonostante i profondi mutamenti intervenuti, la questione e' ancora pienamente attuale. Da recenti calcoli, il trasporto via mare risulta tre volte meno costoso di quello su gomma, e persino un po' piu' veloce. Dal punto di vista dei costi dell' energia, poi, la nave risulta ancora piu' economica rispetto al treno: con un cavallo vapore si riesce a trasportare 150 chili su strada, 500 su ferrovia, 4mila per mare. Sebbene i trasporti marittimi fossero di periodicita' irregolare e presentassero notevoli margini di rischio (per i frequenti naufragi, per avarie al carico, per attacchi di pirati o altro an cora), la maggior parte delle spedizioni commerciali si svolgeva per mare. In teoria, tutto cio' che era trasportabile poteva essere compreso nel carico di una nave: dagli oggetti di maggior volume e consistenza come blocchi di marmo, colonne, sarcofagi, statue e persino grandi obelischi, a quelli meno ingombranti come le ceramiche da tavola, le stoffe, le pietre preziose, o piu' delicati, come i vetri, oppure a quei prodotti destinati ai consumi di massa come le derrate alimentari, spesso contenute in anfore oppure in sacchi. In alcuni casi era, appunto, la natura dei carichi a determinare le caratteristiche delle navi. Tra queste, a esempio, vi erano quelle adibite al trasporto di bestiame, che per la loro particolare funzione dovevano essere, evidentemente, fornite di grandi portelli sulle fiancate per agevolare l' imbarco e lo sbarco degli animali. Impiegate per il trasferimento di cavalli o di elefanti per scopi militari, o anche piu' semplicemente per il trasporto di mandrie e di greggi, potevano essere in grado di navigare autonomamente oppure venivano prese a rimorchio da altre imbarcazioni. Un altro tipo di carico egualmente condizionante da richiedere navi con caratteristiche particolari _ provviste di strutture piu' solide, e probabilmente prive di ponte _ era il marmo, il cui trasporto avveniva quasi esclusivamente per mare o per via fluviale. Spesso, nel linguaggio corrente, per sottolineare il pregio di un marmo era sufficiente indicarlo come lapis transmarinus. Del resto, ancor piu' che per altri materiali, in questo caso il trasporto navale risultava enormemente vantaggioso in confronto a quello su carro. Basti pensare che per fare viaggiare a terra un rocchio di colonna di grandi dimensioni si doveva ricorrere anche a due dozzine di paia di buoi. Tra le navi impiegate per il trasporto dei marmi, le naves lapidariae, alcune, dovendo essere utilizzate per carichi eccezionali, furono costruite appositamente e poi non piu' impiegate proprio a causa della loro eccessiva grandezza. E' il caso di quelle, di eccezionali dimensioni, che trasferirono a Roma dall' Egitto alcuni dei piu' grandi obelischi. Il primo fu l' obelisco del Circo Massimo, trasportato con una nave che rimase poi inutilizzata in una darsena del porto di Pozzuoli. Anche alla nave fatta costruire da Caligola per contenere l' obelisco del Circo Vaticano, oggi in piazza San Pietro, tocco' sorte simile fin quando non fu impiegata come cassaforma per contenere le fondazioni dell' isolotto del faro, all' ingresso del porto di Claudio a Fiumicino. Ultimo, sotto Costanzo II, fu l' obelisco del Laterano, il piu' lungo (circa 32 metri) tra quelli di Roma, dove giunse anch' esso con una nave fatta su misura. Sebbene siano ormai stati investigati, in vari luoghi del Mediterraneo e del Mar Nero, numerosi relitti di navi romane con carichi di marmi, composti da blocchi di cava grezzi o da manufatti piu' o meno rifiniti (sarcofagi, vasche, candelabri, colonne, capitelli, basi, eccetera), ancora non si sono trovati resti degli scafi conservati in modo da rivelare quali caratteristiche contraddistinguessero le naves lapidariae. Un altro gruppo di navi qualificate dal tipo di carico trasporta to e' quello delle naves vinariae, a proposito delle quali si sono di recente formulate varie proposte d' identificazione. Si e' a lungo rimasti incerti di fronte alla possibilita' di applicare tale definizione ai relitti carichi di anfore che, principalmente nel Mediterraneo occidentale, si sono ormai individuati in gran numero. Alcune navi potevano certo trasportare carichi omogenei e assai rilevanti, con piu' di 10mila anfore, ma e' d ifficile che siano state le anfore, il cui contenuto varia in rapporto ai tipi imbarcati di volta in volta, a seconda dei viaggi, a determinare la qualificazione di una nave. Irecenti scavi di alcuni relitti di navi dell' inizio dell' eta' imperiale, con dolia a bordo, sia in Italia (a Diano Marina e a Ladispoli) sia in Francia (presso Tolone, a Marsiglia e nella Corsica settentrionale), hanno accertato che questo particolare tipo di grandi contenitori di terracotta poteva costituire delle presenze stabili nell' armamento delle navi. Grandi containers fissi (alcuni han no una capacita' di circa 3mila litri), colmi di vino, con notevole risparmio di volume rispetto alle anfore, giustificherebbero, dunque, l' aggettivazione di vinariae per le navi che li ospitavano. Le ricerche archeologiche sottomarine, invece, sono state finora del tutto prive di risultato nei riguardi di una classe di navi che, per altri versi, risulta avere svolto un ruolo di grande importanza per l' approvvigionamento alimentare. E' quella delle naves granariae, la cui qualificazione sarebbe motivata piuttosto dalla funzione svolta nell' ambito dei commerci marittimi che non da un' architettura specifica, dal momento che in genere il grano, contenuto in sacchi, veniva deposto liberamente nella stiva, su soppalchi e altre strutture lignee montate in modo da agevolarne l' aerazione. Roma, com' e' noto, si trovo' a ricorrere a importazioni di grano gia' a partire dall' eta' arcaica, dapprima in quantita' limitate e in particolari circostanze, poi in modo sempre piu' regolare e massiccio. Il fenomeno raggiunge il culmine sul finire della repubblica e si protrae per tutto l' impero sotto diretto controllo pubblico. I rifornimenti granari giungevano da varie regioni (Sicilia, Sardegna, Africa settentrionale, Spagna) soprattutto per mare, ma da Augusto in poi sara' l' Egitto a coprire gran parte del fabbisogno. Il delicato compito del trasporto era affidato a una flotta apposita, con sede in Alessandria, dove confluivano i raccolti. Ben organizzata ed efficiente, essa era in grado di muovere ogni anno quasi un migliaio di navi che, isolatamente o in convoglio, coprivano il percorso diretto tra Alessandria e Roma nel minor tempo possibile per sfruttare al massimo la stagione estiva e i venti favorevoli. Dalla rapidita' e dal buon esito della navigazione dipendevano, inf atti, la regolarita' dell' approvvigionament e di conseguenza anche la tranquillita' sociale e politica di Roma, messa a dura prova quando carestie o situazioni meteorologiche avverse impedivano l' arrivo dei carichi alessandrini, provocando speculazioni sui prezzi. Se per quanto riguarda le caratteristiche relative ai vari tipi di navi l' archeologia sottomarina non e' ancora stata in grado di fornirci elementi utili, essa ha consentito in compenso di avviare la conoscenza dei metodi delle costruzioni navali, specialmente per le parti inferiori degli scafi, assai meglio conservate delle sovrastrutture (fiancate, ponte, eccetera), maggiormente esposte alla distruzione per opera degli agenti marini. Ne e' emerso un quadro di tecniche c ostruttive notevolmente evoluto, nel quale, pur nella presenza _ persino su relitti coevi _ di differenziazioni dovute a molteplici fattori (tradizioni locali, particolarita' di cantiere, disponibilita' di materiali, eccetera), si evidenziano alcuni principali metodi di lavorazione. Uno consisteva nel predisporre la chiglia e lo scheletro della carena prima di rivestirlo con il fasciame, collegando i corsi di tavole a incastro con linguette bloccate da cavicchi di legno. In un altro caso il procedimento segue l' ordine inverso, con il fasciame immediatamente fissato alla chiglia per formare l' involucro della nave, inserendovi poi all' interno l' ossatura dello scheletro. Recentemente si e' riscontrata la commistione della tecnica con un altro metodo costruttivo, del tutto diverso, detto , consistente nel tenere insieme il fasciame cucendolo con legature passanti attraverso fori predisposti lungo i margini combacianti delle tavole. Quest' ultimo sistema, che si riteneva adottato soltanto in eta' arcaica, si e' trovato impiegato anche su navi romane piu' tarde, come, a esempio, su quella d' eta' augustea da poco recuperata presso Comacchio, costruita nella parte inferiore con la tecnica e in quella superiore con la tecnica . Particolare attenzione veniva poi dedicata all' essenziale aspetto del calafataggio e dell' impermeabilizzazione degli scafi. Gli esempi archeologici mostrano come tale problema fosse risolto in vario modo. Le navi recuperate nel lago di Nemi, come anche molti altri relitti, indicano che, oltre a un' impeciatura generale distribuita a caldo, s i rivestiva la carena con sottili lamine di piombo fissate con chiodini di rame. In altri casi, si ricorreva all' applicazione di spalmature protettive e di robuste spennellature a base di cera. Vere e proprie verniciature erano applicate, invece, alle parti superiori delle strutture della nave, la cosiddetta opera morta. Ancora scarsi sono i resti riferibili alla velatura (bozzelli e pulegge di legno) a causa, come si e' detto, della difficile conservazione delle sovrastrutture. In compenso, sul fondo degli scafi si e' in molti casi individuata la cavita' d' impianto dell' albero maestro, quasi al centro della carena, che e' risultato per lo piu' smontabile, come appare, del resto, in numerose raffigurazioni, su mosaici o dipinti, di navi in sosta con l' albero reclinato. Sono ancora assai rare, pero' , le tracce di altra alberatura, che e' invece attestata in raffigurazioni navali d' eta' imperiale, dove compaiono imbarcazioni a tre alberi: a esempio, in un mosaico delle terme tunisine di Themetra, ad Adrumeto oppure in quello ostiense dei navicularii di Syllecthum. Gli scavi sottomarini hanno invece dimostrato che la maggior parte delle navi mercantili romane erano dotate di efficienti pompe di sentina, del tipo a bindolo, che, azionate a mano oppure a pedali, assolvevano egregiamente il compito di evacuare l' acqua penetrata nella stiva a causa del normale stillicidio d' infiltrazione, oppure in seguito a situazioni d' emergenza (apertura di falle o altro). Suscita ancora molti dubbi circa il suo impiego nautico uno strumento di bronzo dal complesso mecc anismo rinvenuto agli inizi del secolo sul relitto di Anticitera, in Grecia, dalla prima meta' del I secolo. Dopo varie interpretazioni poco soddisfacenti, si e' finalmente riconosciuto in esso un calcolatore astronomico. Questo strumento, attraverso un meccanismo collegato a indici mobili che si spostavano su quadranti, permetteva di conoscere il sorgere e il calare delle stelle e delle costellazioni dello zodiaco, le varie fasi lunari e la posizione dei pianeti in un determinato periodo. Esso, tuttavia, non poteva essere di alcun aiuto al la navigazione e quindi la sua presenza sulla nave di Anticitera rimane enigmatica.
raffigurazione di nave romana
Nel nuovo volume della einaudiana
raffigurazione di nave romana