Gli invincibili
Danila Comastri Montanari
La Roma dei primi secoli somigliava a Sparta: nessun lusso, abitudini frugali, un esercito di cittadini-soldati senza paga, tenuti a procurarsi da soli l'equipaggiamento, e due consoli rigorosissimi, tanto severi da ordinare per una bazzeccola la condanna a morte dei loro stessi figli, come fece il primo Bruto. Pane e cipolla nella bisacca, questi umili agricoltori alla Cincinnato lasciavano il loro campicello quando la patria li chiamava alle armi, pronti a tornarvi dopo la vittoria senza rivendicare nessun compenso. I tanti episodi esemplari di coraggio e abnegazione, però, non impedirono che i romani le prendessero da Porsenna, lucumone etrusco di Chiusi, e anche dai Galli, che misero al sacco l'Urbe.
Ma non appena il piccolo borgo sul Tevere ebbe acquistato una certa potenza, si affrettò ad apportare alcune modifiche ai libri di storia, cosicchè i giovani dell'Urbe, nutriti dalle gesta di Muzio Scevola e Furio Camillo, crebbero nella convinzione che Roma fosse invincibile. Infatti lo divenne: nel terzo secolo l'Urbe era già padrona di tutta l'Italia penisulare e si era annessa le prospere città della Magna Grecia, alla faccia di Pirro e dei suoi alleati. Fu così che venne a conflitto con le altre potenze del Mediterraneo, prima tra tutte Cartagine.
Contro la città punica Roma se la vide brutta, soprattutto grazie al famoso Annibale, forse il più grande stratega militare di tutti i tempi. Osteggiato dai suoi stessi concittadini, il cartaginese arruolò in Spagna un'armata possente, forte di decine di migliaia di uomini e di ben trentacinque elefanti, e la guidò quasi indenne attraverso i valichi alpini, portando le guerra nel cuore stesso dei domini romani. Dopo le schiaccianti vittorie del Trebbia, del Trasimeno e di Canne, ottenute dal geniale cartaginese nonostante la netta inferiorità numerica, nell'Urbe si sparse il panico. Per sedare gli animi e prevenire sommosse, i sacerdoti pensarono bene di incanalare la devozione dei quiriti verso una nuova miracolosa divinità, Rea Cibele, quella Gran Madre Terra venerata in oriente il cui simulacro fu portato sul Palatino con tutti gli onori. Per inercessione della dea, e soprattutto perchè il miope partito degli aristocratici punici negava ad Annibale nuovi rinforzi, nel corso degli anni Roma riuscì ad arrestare il suo grande nemico, mentre Scipione sbarcava sulla costa africana e sbaragliava a Zama le ultime difese cartaginesi. Da allora non fu che un lungo trionfo: nei secoli successivi Roma fagocitò i regni ellenistici ed estese i suoi tentacoli sull'intero Mediterreaneo,che fu orgogliosamente ribattezzato "Mare Nostrum".
Molte cose, però, erano cambiate dai tempi dei sobri dittatori contadini, e ormai Roma, imbevuta di cultura greca, non appariva più una rigida Sparta, ma somigliava sempre di più alla splendida Atene. Le guerre di conquista avevano arricchito enormemente sia i grandi proprietari, sia la nuova classe alto-borghese dei cavalieri, mentre i legionari che tornavano da decenni di guerre in paesi lontani, oberati di debiti e rovinati dalla concorrenza della manodopera servile, si vedevano costretti a cedere il loro campicello ai latifondisti per andare ad ingrossare la massa dei proletari urbani.
In loro difesa si levò la voce dei fratelli Gracchi. Ambedue furono eletti tribuni, ambedue proposero la riforma agraria, ambedue vennero ammazzati. La loro eredità fu raccolta da Caio Mario, capo dei "populares" - i progressisti del tempo - un italico privo di sangue blu che le sfolgoranti vittorie sul campo avevano portato alla vetta del potere. Infatti erano ormai i generali che, forti delle loro legioni, si facevano eleggere consoli a furor di popolo: il potere politico era già passato saldamente nelle mani dei militari.
Mario dunque portò avanti la riforma dei Gracchi, e cambiò drasticamente le regole dell'arruolamento, facendo dell'esercito un corpo di professionisti al soldo dello stato. La leva durava vent'anni o anche più, e al congedo i veterani ricevevano un pezzo di terra da qualche parte dell'impero, per fondarvi una colonia: la maggior parte delle città europee nacque in questo modo. Ma il Senato, che teneva i cordoni della borsa, tentò di usarli come arma di ricatto politico, forzando i generali a finanziarsi da soli col bottino di guerra per pagare di persona i legionari e conservarseli fedeli. Fedeltà che, ahimè, andava ormai al singolo comandante, non certo allo stato. Così quando Silla - il leader della destra conservatrice - ricevuto l'ordine del Senato di sciogliere l'esercito, anzichè obbedire marciò su Roma, i suoi uomini lo seguirono senza esitare nel colpo di stato contro le istituzioni.
Da allora per settant'anni, si susseguirono ben tre guerre civili e non ci furono più legioni di Roma, ma legioni di Mario, di Silla, di Cesare, di Crasso, di Pompeo, di Ottaviano o di Marcantonio. Nel frattempo, mentre imperversavano queste lotte intestine, l'Urbe si era trovata di fronte a un nuovo nemico, tanto più pericoloso quanto imprevisto. A Capua un gladiatore trace, tal Spartaco, era fuggito dalla sua scuderia con alcuni compagni, istigando gli schiavi alla ribellione. Il Senato non si preoccupò troppo: di rivolte servili ce n'erano state altre, e per sbaragliare un pungo di gladiatori, due legioni sarebbero state d'avanzo.
Quando la notizia della disfatta giunse in Curia, per la prima volta nella sua storia Roma tremò sul serio: non era più questione di affrontare l'avversario sul campo di battaglia, il nemico ora poteva trovarsi ovunque, nelle strade, nelle piazze, nei templi, nelle case stesse. La produzione agricola dipendeva interamente dalla manodopera servile, e schiavi erano anche molti fabbri e armaioli, i domestici, i cuochi e i pasticceri che quotidianamente manipolavano il cibo dei quiriti, nonchè i tonsori che li sbarbavano ogni giorno con rasoi affilatissimi...
Gli odi reciproci furono messi da parte; si convocarono i migliori generali: Crasso, Lucullo, Pompeo; si richiamarono soldati da ogni dove, lasciando persino sguerniti i confini. Stretto nella morsa di tre diversi eserciti immensamente superiori di numero, Spartaco fu annientato. Gli schiavi superstiti - un capitale enorme - non furono mai restituiti ai legittimi padroni, che pur ne rivendicavano la proprietà: vennero crocefissi in cinquemila sull'Appia, da Capua fino alle porte dell'Urbe, e i loro cadaveri lasciati a marcire per giorni, a perenne monito per tutti coloro che avessero osato sfidare il potere di Roma.
Così, liberi dall'incubo di Spartaco, i quiriti poterono tornare a scannarsi allegramente tra di loro. La posta era altissima: il dominio di Roma, quindi del mondo intero.
Alla fine vinse Cesare, l'aristocraticissimo discendente di Venere che aveva preso il posto del defunto Mario alla testa dei "populares". Con quel gigantesco inciucio che fu il primo triumvirato, ottenne un finanziamento dal capitalista Crasso e il proconsolato delle Gallie, da cui si sarebbe lanciato alla conquista della sterminata regione che oggi chiamiamo Francia. E quando, dopo la vittoria, il Senato e Pompeo tentarono di giocargli un brutto scherzo, ripetè pari pari il golpe di Silla, varcando il Rubicone senza che nessuno dei suoi soldati battesse ciglio.
Cesare, invero, meritava appieno la fiducia dei veterani: lo stesso vanesio dongiovanni che in tempo di pace indossava da mane a sera la corona trionfale per nascondere l'incipiente calvizie, durante le campagne militari dormiva in terra coi soldati, mangiava il loro medesimo rancio, parlava la loro stessa lingua. Lo storico Tito Livio bara di brutto quando riferisce le esortazioni farcite di appelli all'onore della patria e alla castità delle spose fedeli che Cesare avrebbe pronunciato davanto alle truppe. Sappiamo dai contemporanei che l'accorto Giulio prometteva invece quello che ai soldati interessava di più: oro, terra e donne a volontà. I suoi legionari lo adoravano ed erano pronti a seguirlo in capo al mondo, anche se non mancavano di burlarne benevolmente i peccatucci giovanili nelle loro canzoni, che ricordavano come Cesare avesse sì sottomesso le Gallie, ma si fosse a sua volta fatto "sottomettere" da Nicomede, re di Bitinia.
Anche Marcantonio si trovava suo agio tra i soldati, ma probabilmente era una dote di famiglia, visto che sua moglie Fulvia arruolava di persona le legioni, guidandole fin sul campo di battaglia. Non tutti i grandi romani, però, furono dei combattenti: il fragile Augusto, ad esempio, preferiva cedere il comando al fido Agrippa e si accontentava di seguire l'esercito in lettiga, sepolto sotto le coltri di lana col naso gocciolante per il perenne raffreddore. Ma ormai la macchina militare funzionava benissimo da sola, senza alcun bisogno dell'apporto carismatico di un imperatore, così lo zoppo Claudio potè impadronirsi della Britannia e il mite filosofo Marco Aurelio arginare l'ondata dei barbari, pur rimettendoci la pelle.
Tuttavia sbaglieremmo della grossa se pensassimo ai legionari come a semplici soldati, a macchine per uccidere. Erano uomini d'arme, sì, ma anche fabbri, carpentieri, idraulici, muratori, operai e ingegneri eccellenti. Quando scavavano una galleria, le due parti opposte combaciavano esattamente, il che non sempre accade ai giorni nostri. Dove arrivavano costruivano strade, ponti, acquedotti, terme, città intere. Portarono l'acqua potabile in tutta l'Africa settentrionale, anche nei villaggi ormai disabitati dove oggi non arriva più. Negli accampamenti e nelle colonie apprestarono un sistema di fognature che in alcuni casi si è conservato intatto, e la cui perfetta e rigorosa manutenzione potrebbe essere presa ad esempio dalle nostre moderne amministrazioni. Nei più sperduti avamposti d'Europa, dietro alle legioni giungevano le leggi, i tribunali, il latino, i libri, la posta, i bagni e, ovviamente, le tasse: la civiltà romana, insomma, con tutto ciò che, in bene o in male, la caratterizzava.
Solo percorrendo la Cassia, l'Aurelia, l'Appia, la Flaminia, la Salaria, l'Emilia, e più a nord le grandi strade europee che facevano dell'impero un'unica grande nazione, si può avere un idea di quanto immane e straordinario fu il lavoro di questi nostri antichi padri in calzari e corazza di cuoio, che i manuali di storia ci hanno descritto fino a poco tempo fa con pesante retorica patriottarda, tacendocene i difetti e le umane debolezze. Oggi sono quasi dimenticati: per la maggior parte degli italiani la cultura latina si identifica soltanto con la frase ostica cercata affannosamente sul dizionario per strappare un sudatissimo sei a scuola. Eppure avrebbe ancora molto da insegnarci.
da "Lo Specchio", settimanale de "La stampa" n. 45, novembre 1996
Danila Comastri Montanari
La Roma dei primi secoli somigliava a Sparta: nessun lusso, abitudini frugali, un esercito di cittadini-soldati senza paga, tenuti a procurarsi da soli l'equipaggiamento, e due consoli rigorosissimi, tanto severi da ordinare per una bazzeccola la condanna a morte dei loro stessi figli, come fece il primo Bruto. Pane e cipolla nella bisacca, questi umili agricoltori alla Cincinnato lasciavano il loro campicello quando la patria li chiamava alle armi, pronti a tornarvi dopo la vittoria senza rivendicare nessun compenso. I tanti episodi esemplari di coraggio e abnegazione, però, non impedirono che i romani le prendessero da Porsenna, lucumone etrusco di Chiusi, e anche dai Galli, che misero al sacco l'Urbe.
Ma non appena il piccolo borgo sul Tevere ebbe acquistato una certa potenza, si affrettò ad apportare alcune modifiche ai libri di storia, cosicchè i giovani dell'Urbe, nutriti dalle gesta di Muzio Scevola e Furio Camillo, crebbero nella convinzione che Roma fosse invincibile. Infatti lo divenne: nel terzo secolo l'Urbe era già padrona di tutta l'Italia penisulare e si era annessa le prospere città della Magna Grecia, alla faccia di Pirro e dei suoi alleati. Fu così che venne a conflitto con le altre potenze del Mediterraneo, prima tra tutte Cartagine.
Contro la città punica Roma se la vide brutta, soprattutto grazie al famoso Annibale, forse il più grande stratega militare di tutti i tempi. Osteggiato dai suoi stessi concittadini, il cartaginese arruolò in Spagna un'armata possente, forte di decine di migliaia di uomini e di ben trentacinque elefanti, e la guidò quasi indenne attraverso i valichi alpini, portando le guerra nel cuore stesso dei domini romani. Dopo le schiaccianti vittorie del Trebbia, del Trasimeno e di Canne, ottenute dal geniale cartaginese nonostante la netta inferiorità numerica, nell'Urbe si sparse il panico. Per sedare gli animi e prevenire sommosse, i sacerdoti pensarono bene di incanalare la devozione dei quiriti verso una nuova miracolosa divinità, Rea Cibele, quella Gran Madre Terra venerata in oriente il cui simulacro fu portato sul Palatino con tutti gli onori. Per inercessione della dea, e soprattutto perchè il miope partito degli aristocratici punici negava ad Annibale nuovi rinforzi, nel corso degli anni Roma riuscì ad arrestare il suo grande nemico, mentre Scipione sbarcava sulla costa africana e sbaragliava a Zama le ultime difese cartaginesi. Da allora non fu che un lungo trionfo: nei secoli successivi Roma fagocitò i regni ellenistici ed estese i suoi tentacoli sull'intero Mediterreaneo,che fu orgogliosamente ribattezzato "Mare Nostrum".
Molte cose, però, erano cambiate dai tempi dei sobri dittatori contadini, e ormai Roma, imbevuta di cultura greca, non appariva più una rigida Sparta, ma somigliava sempre di più alla splendida Atene. Le guerre di conquista avevano arricchito enormemente sia i grandi proprietari, sia la nuova classe alto-borghese dei cavalieri, mentre i legionari che tornavano da decenni di guerre in paesi lontani, oberati di debiti e rovinati dalla concorrenza della manodopera servile, si vedevano costretti a cedere il loro campicello ai latifondisti per andare ad ingrossare la massa dei proletari urbani.
In loro difesa si levò la voce dei fratelli Gracchi. Ambedue furono eletti tribuni, ambedue proposero la riforma agraria, ambedue vennero ammazzati. La loro eredità fu raccolta da Caio Mario, capo dei "populares" - i progressisti del tempo - un italico privo di sangue blu che le sfolgoranti vittorie sul campo avevano portato alla vetta del potere. Infatti erano ormai i generali che, forti delle loro legioni, si facevano eleggere consoli a furor di popolo: il potere politico era già passato saldamente nelle mani dei militari.
Mario dunque portò avanti la riforma dei Gracchi, e cambiò drasticamente le regole dell'arruolamento, facendo dell'esercito un corpo di professionisti al soldo dello stato. La leva durava vent'anni o anche più, e al congedo i veterani ricevevano un pezzo di terra da qualche parte dell'impero, per fondarvi una colonia: la maggior parte delle città europee nacque in questo modo. Ma il Senato, che teneva i cordoni della borsa, tentò di usarli come arma di ricatto politico, forzando i generali a finanziarsi da soli col bottino di guerra per pagare di persona i legionari e conservarseli fedeli. Fedeltà che, ahimè, andava ormai al singolo comandante, non certo allo stato. Così quando Silla - il leader della destra conservatrice - ricevuto l'ordine del Senato di sciogliere l'esercito, anzichè obbedire marciò su Roma, i suoi uomini lo seguirono senza esitare nel colpo di stato contro le istituzioni.
Da allora per settant'anni, si susseguirono ben tre guerre civili e non ci furono più legioni di Roma, ma legioni di Mario, di Silla, di Cesare, di Crasso, di Pompeo, di Ottaviano o di Marcantonio. Nel frattempo, mentre imperversavano queste lotte intestine, l'Urbe si era trovata di fronte a un nuovo nemico, tanto più pericoloso quanto imprevisto. A Capua un gladiatore trace, tal Spartaco, era fuggito dalla sua scuderia con alcuni compagni, istigando gli schiavi alla ribellione. Il Senato non si preoccupò troppo: di rivolte servili ce n'erano state altre, e per sbaragliare un pungo di gladiatori, due legioni sarebbero state d'avanzo.
Quando la notizia della disfatta giunse in Curia, per la prima volta nella sua storia Roma tremò sul serio: non era più questione di affrontare l'avversario sul campo di battaglia, il nemico ora poteva trovarsi ovunque, nelle strade, nelle piazze, nei templi, nelle case stesse. La produzione agricola dipendeva interamente dalla manodopera servile, e schiavi erano anche molti fabbri e armaioli, i domestici, i cuochi e i pasticceri che quotidianamente manipolavano il cibo dei quiriti, nonchè i tonsori che li sbarbavano ogni giorno con rasoi affilatissimi...
Gli odi reciproci furono messi da parte; si convocarono i migliori generali: Crasso, Lucullo, Pompeo; si richiamarono soldati da ogni dove, lasciando persino sguerniti i confini. Stretto nella morsa di tre diversi eserciti immensamente superiori di numero, Spartaco fu annientato. Gli schiavi superstiti - un capitale enorme - non furono mai restituiti ai legittimi padroni, che pur ne rivendicavano la proprietà: vennero crocefissi in cinquemila sull'Appia, da Capua fino alle porte dell'Urbe, e i loro cadaveri lasciati a marcire per giorni, a perenne monito per tutti coloro che avessero osato sfidare il potere di Roma.
Così, liberi dall'incubo di Spartaco, i quiriti poterono tornare a scannarsi allegramente tra di loro. La posta era altissima: il dominio di Roma, quindi del mondo intero.
Alla fine vinse Cesare, l'aristocraticissimo discendente di Venere che aveva preso il posto del defunto Mario alla testa dei "populares". Con quel gigantesco inciucio che fu il primo triumvirato, ottenne un finanziamento dal capitalista Crasso e il proconsolato delle Gallie, da cui si sarebbe lanciato alla conquista della sterminata regione che oggi chiamiamo Francia. E quando, dopo la vittoria, il Senato e Pompeo tentarono di giocargli un brutto scherzo, ripetè pari pari il golpe di Silla, varcando il Rubicone senza che nessuno dei suoi soldati battesse ciglio.
Cesare, invero, meritava appieno la fiducia dei veterani: lo stesso vanesio dongiovanni che in tempo di pace indossava da mane a sera la corona trionfale per nascondere l'incipiente calvizie, durante le campagne militari dormiva in terra coi soldati, mangiava il loro medesimo rancio, parlava la loro stessa lingua. Lo storico Tito Livio bara di brutto quando riferisce le esortazioni farcite di appelli all'onore della patria e alla castità delle spose fedeli che Cesare avrebbe pronunciato davanto alle truppe. Sappiamo dai contemporanei che l'accorto Giulio prometteva invece quello che ai soldati interessava di più: oro, terra e donne a volontà. I suoi legionari lo adoravano ed erano pronti a seguirlo in capo al mondo, anche se non mancavano di burlarne benevolmente i peccatucci giovanili nelle loro canzoni, che ricordavano come Cesare avesse sì sottomesso le Gallie, ma si fosse a sua volta fatto "sottomettere" da Nicomede, re di Bitinia.
Anche Marcantonio si trovava suo agio tra i soldati, ma probabilmente era una dote di famiglia, visto che sua moglie Fulvia arruolava di persona le legioni, guidandole fin sul campo di battaglia. Non tutti i grandi romani, però, furono dei combattenti: il fragile Augusto, ad esempio, preferiva cedere il comando al fido Agrippa e si accontentava di seguire l'esercito in lettiga, sepolto sotto le coltri di lana col naso gocciolante per il perenne raffreddore. Ma ormai la macchina militare funzionava benissimo da sola, senza alcun bisogno dell'apporto carismatico di un imperatore, così lo zoppo Claudio potè impadronirsi della Britannia e il mite filosofo Marco Aurelio arginare l'ondata dei barbari, pur rimettendoci la pelle.
Tuttavia sbaglieremmo della grossa se pensassimo ai legionari come a semplici soldati, a macchine per uccidere. Erano uomini d'arme, sì, ma anche fabbri, carpentieri, idraulici, muratori, operai e ingegneri eccellenti. Quando scavavano una galleria, le due parti opposte combaciavano esattamente, il che non sempre accade ai giorni nostri. Dove arrivavano costruivano strade, ponti, acquedotti, terme, città intere. Portarono l'acqua potabile in tutta l'Africa settentrionale, anche nei villaggi ormai disabitati dove oggi non arriva più. Negli accampamenti e nelle colonie apprestarono un sistema di fognature che in alcuni casi si è conservato intatto, e la cui perfetta e rigorosa manutenzione potrebbe essere presa ad esempio dalle nostre moderne amministrazioni. Nei più sperduti avamposti d'Europa, dietro alle legioni giungevano le leggi, i tribunali, il latino, i libri, la posta, i bagni e, ovviamente, le tasse: la civiltà romana, insomma, con tutto ciò che, in bene o in male, la caratterizzava.
Solo percorrendo la Cassia, l'Aurelia, l'Appia, la Flaminia, la Salaria, l'Emilia, e più a nord le grandi strade europee che facevano dell'impero un'unica grande nazione, si può avere un idea di quanto immane e straordinario fu il lavoro di questi nostri antichi padri in calzari e corazza di cuoio, che i manuali di storia ci hanno descritto fino a poco tempo fa con pesante retorica patriottarda, tacendocene i difetti e le umane debolezze. Oggi sono quasi dimenticati: per la maggior parte degli italiani la cultura latina si identifica soltanto con la frase ostica cercata affannosamente sul dizionario per strappare un sudatissimo sei a scuola. Eppure avrebbe ancora molto da insegnarci.
da "Lo Specchio", settimanale de "La stampa" n. 45, novembre 1996