Il mistero di Amyclae, la città «muta»
Adele Cambria
06 maggio 2006, L'Unità
Citata da Virgilio vicino a Sperlonga sarebbe stata distrutta a causa del voto al silenzio degli abitanti
PROBABILMENTE hanno scoperto insieme, questa coppia di archeologi romani - lei, Stefania Quilici Gigli, della Seconda Università di Napoli, lui, Lorenzo Quilici, docente dell'Università di Bologna - Amyclae, «la città muta di cui narra Virgilio, nell'Eneide, citando il fulvo suo Re, Camerte, "il più ricco proprietario di terre di tutta l'Ausonia".
Sul quale Enea si avventa levando «alta la spada, rossa e tiepida di sangue...» I due archeologi mi ricevono nella loro villetta annidata nel verde di Viale dell'Esperanto e subito, coi loro discorsi, mi riportano alla mente un'antica passione. L'Eneide; e proprio quei capitoli tumultuosi e fiammeggianti di immagini, in cui il poeta mantovano, meglio che raccontare, proietta davanti agli occhi di chi legge le sequenze più terrifiche e ahimè seduttive, come può esserlo soltanto la grande letteratura della battaglia corrusca e senza fiato tra Turno ed Enea. La leggevo, questa guerra baluginante di spade e scudi d'oro istoriati, dove risuona il galoppo dei cavalli bianchi, prima ardimentosi, poi spaventati, ed il fragore dei carri rovesciati, che le bestie «trascinano vuoti fino alla spiaggia», ai miei figli bambini, alcuni decenni fa: e uno stava per Turno e l'altro per Enea...
Sappiamo la storia. Enea, regale profuo da Troia, approda finalmente nel Lazio, guidato dai molteplici presagi divini ricevuti in chi sa quanti anni di peregrinazioni: qui, nella nostra tera gli sono state promesse dagli dei( e più attivamente da Venere, da cui è nato) le nozze con Lavinia, la figlia del re Latino. E per questa ragione. come dire, di Stato - «In Italia mi ordinano di andare gli oracoli.. Questo è il mio amore. questa la mia patria... E mi rimprovera Ascanio, povero bimbo, del torto che faccio al suo futuro, poiché lo defraudo del regno di Esperia...» - il pio Enea se la svigna dagli amplessi della regina Didone: che l'ha accolto, naufrago insieme ai suoi, nella città da lei stessa coraggiosameme fondata. Cartagine, e l'ha fatto partecipe dcl suo regno.
L'eroe, scoperto nella fuga, oppone alle furie legittime della regina - il primo emblema della lacerazione femminile nella scelta tra amore ed emancipazione - una frase che ha fatto scuola: «Del resto mai ti tenni discorsi di nozze o pensai di sposarti...».
Intanto Turno, il principe di Ardea a cui Lavinia era stata promessa in moglie dal re Latino, viene sollecitato a sollevare i popoli del Lazio alla guerra contro lo straniero. da Aletto. mcssaggera di Giunone: poiché la Dea, furiosa per la sconfitta che le si profila. di fronte alla sua eterna rivale, Venere - «Io, la gran moglie di Giove, che non ho trascurato nulla e ho provato tutto per nuocergli, sono vinta, infelice, da Enea!» - giura e congiura comunque contro l'eroe troiano: «So bene che i Fati gli hanno assegnato in moglie Lavinia, ma potrò ritardare le cose, e sterminare i popoli di Troia e di Laurento... O vergine, avrai unadote di sangue!» Ma torniamo ad Amyclae,la "la citta muta" scoperta dai due archeologi. Perché “muta”? Cominciamo da lontano...
La fondazione mitica della città, mi dice Stefania Quilici Gigli, è attribuita a Castore e Polluce, i Dioscuri partoriti dall'uovo di Leda, frutto dell'amplesso che Zeus in forma di cigno ottenne furtivamente dalla splendida moglie di Tindaro.
«Si tratta quindi, aldilà del mito, di una colonizzazione lacedone, cioè di Sparta, già documentata nelle terre che vanno da Gaeta a Terracina, e alla quale si aggiungerebbe ora, situata su Monte Pianara, alle spalle di Fondi, la misteriosa Amyclae o Amynclae di cui però nessuno fino ad oggi era riuscito a stabilire dnve fosse localizzata. Ma di Amyclae parla Virgilio nell'Eneide, e ne parla il suo commentatore, Servio, ne parla Plinio, nella Naturalis Historia, ed evidenzia i luoghi in successione: dopo il Circeo, il fiumen Augentum, supra quod Tarracina... et ubi fiere Amyclae sive Amynclae... Plinio lamenta anche la decadenza della qualità del vino Cecubo, frutto della coltivazione dei vitigni attorno al Sinus Amyclanus, così era chiamato il golfo di Sperlonga. Ed invece, in lode di questo vino, ci resta un epigramma di Marziale: che cita, come luoghi di produzione, Fondi ed Amyclae. Gli altri autori dell'antichità che nominano la città, scomparsa fin dalla seconda metà del terzo secolo avanti Cristo, sono Silio Italico, Tacito e, il più recente degli antichi, il poeta Lucilio, che in un suo bellissimo verso così ce la consegna:'Amyclae mori tacendo'.. .Ed a Lucilio, che, nativo di Sessa Aurunca, si recava spesso a Roma, si potrebbe attribuire il valore di un testimone diretto. Lui, che visse nel II secolo avanti Cristo, conosceva probabilmente le rovine della città, e in qualche modo condivise la tesi secondo cui la fine di Amyclae sarebbe dovuta al sacro silenzio cui erano tenuti i suoi abitanti: seguaci di una setta pitagorica che, con un patto rinnovabile ogni quinquennio, imponeva lnro di tacere - aldilà delle necessità fondanientali della vita quotidiana - persino di fronte alla minaccia dei nemici. E, secondo il pragmatico Cicerone, la distruzione di Amyclae sarebbe avvenuta proprio perché nessuno aveva potuto dare l'allarme per l'arrivo di un esercito nemico! Un'altra versione, sempre leggendaria, della distruzione della città, risiede in quella che oggi chiameremmo scelta animalista: i pitagorici di A.myclae non potevano uccidere alcun animale. c poiché la zona era paludosa furono vittime dci vcncf ci serpenti delle paludi...
Adele Cambria
06 maggio 2006, L'Unità
Citata da Virgilio vicino a Sperlonga sarebbe stata distrutta a causa del voto al silenzio degli abitanti
PROBABILMENTE hanno scoperto insieme, questa coppia di archeologi romani - lei, Stefania Quilici Gigli, della Seconda Università di Napoli, lui, Lorenzo Quilici, docente dell'Università di Bologna - Amyclae, «la città muta di cui narra Virgilio, nell'Eneide, citando il fulvo suo Re, Camerte, "il più ricco proprietario di terre di tutta l'Ausonia".
Sul quale Enea si avventa levando «alta la spada, rossa e tiepida di sangue...» I due archeologi mi ricevono nella loro villetta annidata nel verde di Viale dell'Esperanto e subito, coi loro discorsi, mi riportano alla mente un'antica passione. L'Eneide; e proprio quei capitoli tumultuosi e fiammeggianti di immagini, in cui il poeta mantovano, meglio che raccontare, proietta davanti agli occhi di chi legge le sequenze più terrifiche e ahimè seduttive, come può esserlo soltanto la grande letteratura della battaglia corrusca e senza fiato tra Turno ed Enea. La leggevo, questa guerra baluginante di spade e scudi d'oro istoriati, dove risuona il galoppo dei cavalli bianchi, prima ardimentosi, poi spaventati, ed il fragore dei carri rovesciati, che le bestie «trascinano vuoti fino alla spiaggia», ai miei figli bambini, alcuni decenni fa: e uno stava per Turno e l'altro per Enea...
Sappiamo la storia. Enea, regale profuo da Troia, approda finalmente nel Lazio, guidato dai molteplici presagi divini ricevuti in chi sa quanti anni di peregrinazioni: qui, nella nostra tera gli sono state promesse dagli dei( e più attivamente da Venere, da cui è nato) le nozze con Lavinia, la figlia del re Latino. E per questa ragione. come dire, di Stato - «In Italia mi ordinano di andare gli oracoli.. Questo è il mio amore. questa la mia patria... E mi rimprovera Ascanio, povero bimbo, del torto che faccio al suo futuro, poiché lo defraudo del regno di Esperia...» - il pio Enea se la svigna dagli amplessi della regina Didone: che l'ha accolto, naufrago insieme ai suoi, nella città da lei stessa coraggiosameme fondata. Cartagine, e l'ha fatto partecipe dcl suo regno.
L'eroe, scoperto nella fuga, oppone alle furie legittime della regina - il primo emblema della lacerazione femminile nella scelta tra amore ed emancipazione - una frase che ha fatto scuola: «Del resto mai ti tenni discorsi di nozze o pensai di sposarti...».
Intanto Turno, il principe di Ardea a cui Lavinia era stata promessa in moglie dal re Latino, viene sollecitato a sollevare i popoli del Lazio alla guerra contro lo straniero. da Aletto. mcssaggera di Giunone: poiché la Dea, furiosa per la sconfitta che le si profila. di fronte alla sua eterna rivale, Venere - «Io, la gran moglie di Giove, che non ho trascurato nulla e ho provato tutto per nuocergli, sono vinta, infelice, da Enea!» - giura e congiura comunque contro l'eroe troiano: «So bene che i Fati gli hanno assegnato in moglie Lavinia, ma potrò ritardare le cose, e sterminare i popoli di Troia e di Laurento... O vergine, avrai unadote di sangue!» Ma torniamo ad Amyclae,la "la citta muta" scoperta dai due archeologi. Perché “muta”? Cominciamo da lontano...
La fondazione mitica della città, mi dice Stefania Quilici Gigli, è attribuita a Castore e Polluce, i Dioscuri partoriti dall'uovo di Leda, frutto dell'amplesso che Zeus in forma di cigno ottenne furtivamente dalla splendida moglie di Tindaro.
«Si tratta quindi, aldilà del mito, di una colonizzazione lacedone, cioè di Sparta, già documentata nelle terre che vanno da Gaeta a Terracina, e alla quale si aggiungerebbe ora, situata su Monte Pianara, alle spalle di Fondi, la misteriosa Amyclae o Amynclae di cui però nessuno fino ad oggi era riuscito a stabilire dnve fosse localizzata. Ma di Amyclae parla Virgilio nell'Eneide, e ne parla il suo commentatore, Servio, ne parla Plinio, nella Naturalis Historia, ed evidenzia i luoghi in successione: dopo il Circeo, il fiumen Augentum, supra quod Tarracina... et ubi fiere Amyclae sive Amynclae... Plinio lamenta anche la decadenza della qualità del vino Cecubo, frutto della coltivazione dei vitigni attorno al Sinus Amyclanus, così era chiamato il golfo di Sperlonga. Ed invece, in lode di questo vino, ci resta un epigramma di Marziale: che cita, come luoghi di produzione, Fondi ed Amyclae. Gli altri autori dell'antichità che nominano la città, scomparsa fin dalla seconda metà del terzo secolo avanti Cristo, sono Silio Italico, Tacito e, il più recente degli antichi, il poeta Lucilio, che in un suo bellissimo verso così ce la consegna:'Amyclae mori tacendo'.. .Ed a Lucilio, che, nativo di Sessa Aurunca, si recava spesso a Roma, si potrebbe attribuire il valore di un testimone diretto. Lui, che visse nel II secolo avanti Cristo, conosceva probabilmente le rovine della città, e in qualche modo condivise la tesi secondo cui la fine di Amyclae sarebbe dovuta al sacro silenzio cui erano tenuti i suoi abitanti: seguaci di una setta pitagorica che, con un patto rinnovabile ogni quinquennio, imponeva lnro di tacere - aldilà delle necessità fondanientali della vita quotidiana - persino di fronte alla minaccia dei nemici. E, secondo il pragmatico Cicerone, la distruzione di Amyclae sarebbe avvenuta proprio perché nessuno aveva potuto dare l'allarme per l'arrivo di un esercito nemico! Un'altra versione, sempre leggendaria, della distruzione della città, risiede in quella che oggi chiameremmo scelta animalista: i pitagorici di A.myclae non potevano uccidere alcun animale. c poiché la zona era paludosa furono vittime dci vcncf ci serpenti delle paludi...