martedì 31 marzo 2009

Le metamorfosi di Lucca, città romana

Le metamorfosi di Lucca, città romana
MARTEDÌ, 31 MARZO 2009 IL TIRRENO - Lucca

Domani illustrazione dei reperti trovati ristrutturando la fondazione Banca del Monte

Viene presentato domani alle 17, nell’auditorium di piazza San Martino 7, “Lucca: le metamorfosi di una città romana” il volume della Fondazione Banca del Monte di Lucca sugli scavi emersi durante i lavori alla nuova sede.

Gi scavi archeologici di via del Molinetto, e con essi lo spaccato di due millenni di storia della città, sono stati raccolti in questo volume a cura dell’archeologo Giulio Ciampoltrini con i contributi di Michelangelo Zecchini e Alessandro Giannoni e la presentazione di Paolo Mencacci.

I reperti descritti sono emersi durante i lavori di ristrutturazione dell’edificio che ospiterà anche gli uffici della Fondazione. Il libro (edizioni “I segni dell’Auser”) è realizzato dalla Fondazione Banca del Monte con la soprintendenza per i beni archeologici della Toscana e sarà presentato dall’avvocato Alberto Del Carlo, presidente della fondazione, dal vicepresidente professor Mencacci e dagli autori.
«Quando, nella primavera del 2006, la fondazione fu informata degli importanti ritrovamenti archeologici emersi durante i lavori di ristrutturazione della nuova sede in via del Molinetto - spiega l’avvocato Del Carlo - si attivò subito per sostenere il proseguimento delle ricerche che oggi rivivono in un libro fondamentale per il progresso degli studi sulla antica storia della città». «Grazie alla disponibilità della Fondazione Banca del Monte di Lucca - aggiunge Giulio Ciampoltrini - lo scavo di via del Molinetto può godere, tempestivamente, di una minuziosa edizione che permetterà, anche attraverso il ricco apparato illustrativo, di entrare nel cantiere dell’archeologo, di apprezzarne il metodo e di valutarne i risultati». Il volume offre dati importanti per cogliere un tratto di quei mutevoli paesaggi urbani di Lucca romana che dagli anni ’80 l’archeologia di tutela sta ricomponendo. «Il pubblico di Lucca e non solo - prosegue Ciampoltrini - che si attende dall’archeologo, oltre alle opere erudite destinate all’Accademia, anche narrazioni capaci di guidarlo a riconoscere nel presente i segni del passato, troverà una guida ad una città mutevole e sorprendente, con una veste assai diversa, in alcuni momenti della sua complessa parabola, da quella canonica che monumenti e grandi aree di scavo attribuiscono alla città romana; ma è una città sempre vitale che, nella duttilità delle forme che di tempo in tempo assume, si adegua al ruolo che nella regione, o nell’Italia, è chiamata a svolgere, e alle profonde trasformazioni della società che la popola».

lunedì 30 marzo 2009

E l'Urbe rifatta dai tre Flavi

E l'Urbe rifatta dai tre Flavi
Paolo Liverani
Il Sole 24 Ore 29/03/2009

Vespasiano con il suo faccione contadino tra il bonario e il burbero - ostenta un sorriso meritato. L'outsider nella corsa al potere, dopo il travagliato anno che vide avvicendarsi Galba, Otone e Vitellio sul trono di Nerone, era arrivato dove desiderava. Aveva ci che bastava: energia da vendere, idee chiare e un paio di robusti figli Tito e Domiziano a cui lasciare la dinastia fondata ex novo. Gioc sapientemente sul suo aspetto per distinguersi a colpo d'occhio dal sofisticato e odiato Nerone, sottintendendo il suo programma che oggi diremmo - costituiva un ritorno aiproblemi reali e (entro certi limiti) alla legalità. Aveva sedato una difficile rivolta in Giudea nel 70 e ne coglieva per prima cosa il trionfo associandosi era lapri,ma volta i figli. Quindi si rimbocc le maniche e si mise a ricostruire la città di Roma, ancora segnata Iall'incendio del 64. E quando dico si rimbocc le maniche intendo letteralmente: si caric le spal\le delle macerie e inizi a liberare l'area perle nuove costruzioni, fornendo un precedente illustre a chi nel ventennio del secolo passato aveva un faccione non molto differente nei volumi, ma assai meno bonario nei tratti. Nulla rimase come prima. Il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, il luogo tra i partigiani di Vitellio e quelli di Vespasiano. In quei tumulti l'Imperatore perse il fratello mentre si salv per un soffio il giovane figlio Domiziano, fuggito rapandosi a zero e infilandosi il carnicione di lino dei sacerdoti di Iside. Il tempio venne rapidamente ricostruito sulla stessa pianta, mutandone solo l'altezza, ma dur poco: nell'8o un nuovo incendio rimise in mano a Domiziano, ormai saldamente in sella, il cantiere appena concluso. Vespasiano smantell la Domus Aurea, l'enorme residenza di Nerone grande quanto un quartiere, restituendo in maniera ostentata ai cittadini la fruizione dell'area e delle opere d'arte in essa ammassate. Sul Palatino inizi la costruzione del suo palazzo, di cui si è ritrovata ora parte delle fondamenta e del nucleo originale, inglobato nel pi grandioso progetto realizzato qualche anno pi tardi da Domiziano. Nella valle sottostante, il laghetto al centro della valle fu occupato dall'enorme fabbrica del Colosseo - ancora oggi il monumento simbolo della città investendo così il bottino fatto a Gerusalemme. L'anfiteatro sarebbe stato terminato dal figlio Tito, che avrebbe aggiunto lì accanto anche le Terme pubbliche che da lui presero il nome. Pi a nord, invece, Vespasiano costruì l'enorme cortile colonnato del Templum Pacis. Il suo carattere era diverso da quello degli adiacenti Fori Imperiali: non aveva finalità burocratiche, amministrative e giudiziarie, quanto piuttosto sacrali e forse commerciali. Ospitava un parco con aiole di rose galliche (ipaleobotanici ne hanno trovato le tracce) e opere d'arte in pitturaescultura dei grandi maestri greci, esposte nei portici perimetrali. Sul lato principale si apriva la grande aula dedicata alla Pace in cui, assieme alla statua della dea, era conservato il Candelabro a sette braccia Molti degli edifici voluti da Vespasiano e da Tito e Domiziano sono ancora in piedi. Ecco dove4rovarli tra il Foro e il Palatino pi sacro di Roma, era andato a fuoco proprio nelle lotte *** (quello raffigurato sotto ilfornice dell'Arco di Tito) e parte del bottino pi rappresentativo del Tempio di Gerusalernme. Le colonne della facciata dell'aula erano monoliti di granito rosa di 50 piedi di altezza (quasi i metri) ,lepi alte che fino ad allora la logistica romana avesse permessodi importare dalle cave diAssuan, nel deserto egiziano. Pochi anni dopo Domiziano decise di sistemare l'Argileto, la vitale arteria che collegava Foro Romano e Suburra passando tra i Fori di Cesare e di Augusto, da un lato, e il nuovo Templum Pacis dall'altro. Lo spazio stretto e allungato costrinse Rabirio l'architetto di fiducia dell'Imperatore a rifilare un lato del cortile del Templum Pacis appena terminato per realizzare il nuovo Foro Transitorio. Spesso quest'ultimo viene chiamato Foro di Nerva,ma al successore di Domiziano - che regn appena due anni spett solo il merito del taglio del nastro.Le novità pi interessanti riguardano il fatto che, durante i lavori sembra sia cambiato radicalmente il progetto ruotandolo di i8o. Il tempio di Minerva (la dea a cui Domiziano era molto devoto) doveva infatti sorgere all'estremità sudovest, quella, verso il Foro e ne è stata identificata la fondazione. A un certo punto, invece, fu spostato all'estremità opposta, in modo da sfruttare al meglio lo spazio e mascherare la rientranza imposta dalla grande esedranord-orientale del Foro di Augusto. Un simile cambiamento non pu essere spiegato che in termini dipercorsi: l'accesso principale non avveniva pi dalla Suburra, quartiere popolare e un p0' malfamato, ma dal Foro Romano stesso in modo che la prospettiva sul tempio si aprisse per chi proveniva dalla Curia del Senato e dalla Basilica Paulli. Si pu forse andare anche un po' oltre quanto espresso nei saggi del catalogo e ipotizzare che un simile radicale cambiamento ne presupponesse uno ancora pi ambizioso. Come è noto, infatti, fu Domiziano che inizi a concepire e a realizzare lo sbancamento della sella che divideva il Campidoglio dal Quirinale nell'area in cui sarebbe stato realizzato il foro pi grande e lussuoso di tutti: quello di Traiano. Era da questo Foro che si sarebbe avuto da allora l'ingresso monumentale ai Fori per chi proveniva da nord, dal Campo Marzio: dal lato di Palazzo Valentini e della Colonna Traiana per intenderci. Ci degradava automaticamente a viabilità secondaria l'ingresso dalla Suburra. Non si pu che citare una parte delle straordinarie attività edilizie che la dinastia realizz in pochi anni. Basti dire che Vespasiano modific perfino il confine giuridico-sacrale di Roma, il pomerio, che aveva funzioni giurisdizionali, amministrative e probabilmente daziarie, ampliandolo appena pochi anni dopo un simile intervento di Claudio. Esso coincide sostanzialmente a partire da porta Flaminia e procedendo in senso orario fmo al Tevere con una linea non lontana da quella delle successive mura aureliane e nonostante qualche parere contrario - possiamo ritenere che non / venne pi modificato, nemmeno dallo stesso Aureliano autore delle mura, fmo alla fme dell'evo antico.

Museo archeologico di Adria: nuova sezione romana

Museo archeologico di Adria: nuova sezione romana
Corriere del Veneto - PADOVA - 2009-03-29

Inaugurata la nuova sezione romana del Museo Archeologico Nazionale di Adria l'esposizione: è ultima tappa di un progetto che dal 2000 ha rinnovato completamente la struttura museale. Tra le novità di particolare interesse è la vetrina che raccoglie i vetri romani di Adria, questa costata 65 mila euro espone: ampolle, bottiglie, brocche e balsamari, straordinari pezzi di vetro multicolore prodotti in loco nell'arco cronologico che va dal I a.C. al I d.C. «La vetrina è di grande importanza tecnica, consente di ammirare i vetri in maniera eccezionale mediante un gioco di luci. Ogni cella espositiva ha un software diverso che cambia la tonalità d'illuminazione a seconda della gradazione di colore del vetro esposto, il tutto grazie ad un telecomando», spiega la direttrice del Museo di Adria Simonetta Bonomi curatrice del percorso scientifico espositivo. A progettare l'allestimento museale invece è stata Loretta Zega, architetto, anch'essa della Soprintendenza di Padova.
L'obbiettivo dell'esposizione,come ricordato dagli organizzatori è stato quello di mettere assieme le conoscenze scientifiche e l'esigenza di comunicazione.
La nuova sezione portata a termine grazie ad in investimento di 450mila euro della fondazione Cariparo, illustra la storia di Adria e del Delta del Po durante il periodo romano imperiale, dall'età di Augusto sino alla fine dell'antichità. Di grande interesse infatti la capacità della mostra di svelare ai visitatori le caratteristiche di una città antica come Adria, per certi versi perduta nel tempo, mediante un esemplare ricostruzione grafica e scenografica nella quale viene fornita una restituzione architettonica dei vari monumenti della città.
Edoardo Zambon

mercoledì 25 marzo 2009

Roma celebra le glorie di Vespasiano, Tito e Domiziano

Roma celebra le glorie di Vespasiano, Tito e Domiziano
MERCOLEDÌ, 25 MARZO 2009 LA REPUBBLICA - Cultura

Opere d´arte e documenti esposti nei luoghi legati alla dinastia che pose le basi del benessere romano

Roma celebra Vespasiano, l´imperatore soldato fondatore della dinastia dei Flavi, che con i suoi successori, i figli Tito «delizia del genere umano» e Domiziano «spregiudicato nell´esercizio del potere» - nei giudizi di Svetonio - resse le sorti dell´impero dal 69 al 96 dopo Cristo. Meno di trent´anni, che hanno influito sulla storia di Roma come non avveniva dal tempo d´Augusto con i successi militari, la riorganizzazione dello stato, il consolidamento dei vasti domini, l´accesso al senato delle nuove élite provinciali, la fioritura delle arti e delle scienze, il rinnovamento urbanistico di Roma e di tanta parte dell´impero. Mentre con questi imperatori si ponevano così le basi di quel benessere che sarebbe stato poi assicurato al mondo romano sotto Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio e Settimio Severo, apparvero con essi anche i primi sintomi di cedimento dello stato e si aprì la strada alla crisi politica, economica e sociale che a partire dal terzo secolo avrebbe snervato la potenza di Roma. Nonostante la ripresa, tutta propagandistica, della concezione divina della Pace, ispirata all´ideologia augustea, si manifestarono durante il principato flavio la legittimazione di forme sempre più autoritarie e accentrate di un potere imperiale insofferente delle prerogative del Senato, l´esasperante sfruttamento dei popoli assoggettati, efferate atrocità nelle province riottose, l´ingresso sulla scena politica di potenti comandanti delle legioni dislocate ai confini dell´impero. Quando prese il potere, Vespasiano era al comando delle operazioni nella guerra giudaica, la maggiore impresa militare sua e poi del figlio Tito. Si è conservato proprio per Vespasiano, e solo per questo imperatore, il testo della legge votata dal popolo per conferirgli quel potere autocratico che era stato dei suoi predecessori. È inciso su una tavola di bronzo dei Musei Capitolini, ora restaurata.
Un grave limite allo sviluppo dell´economia, di cui pure con i Flavi si tentava il risanamento, fu l´eccessiva distrazione di risorse per favorire il finanziamento di grandiose opere pubbliche del tutto improduttive, come il Colosseo, l´edificio più audace e dispendioso, e poi il tempio della Pace, la domus Flavia sul Palatino, il tempio del Divo Claudio, il tempio dei Flavi, lo stadio e l´odeum nel Campo Marzio, la naumachia, e altre ancora, a cui si aggiunsero, specialmente con Domiziano, ingenti spese per spettacolari follie. Il proposito di costruire un anfiteatro stabile, adeguato alla dimensione della città, era stato coltivato e quindi abbandonato persino da Augusto. Erano espedienti, tutti questi, per sopperire alla mancanza di quel prestigio di cui aveva potuto godere la dinastia giulio-claudia grazie alla sua discendenza da Cesare e da Augusto; era il modo più facile per acquisire popolarità presso le masse urbane e per ottenere sostegno dai nuovi ceti plebei di estrazione municipale, in larga parte formati da quella folla di imprenditori, banchieri, affaristi e pubblicani da cui erano emersi gli stessi Flavi.
Opere d´arte e documenti esposti nei luoghi di Roma ove più evidenti sono i segni di questa dinastia danno corpo alla mostra ideata da Filippo Coarelli, grande studioso di Roma antica, per illustrare lo stato delle conoscenze sugli aspetti della politica e della cultura d´età flavia, alcuni dei quali hanno lasciato memoria indelebile. Basti pensare alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, intesa da Dante come punizione per la crocifissione di Cristo, e alla costruzione del Colosseo, finanziata con il bottino della guerra giudaica raffigurato sui rilievi dell´arco di Tito. L´impresa costruttiva dell´anfiteatro è efficacemente rappresentata con orgoglio sui bassorilievi dei Musei Vaticani provenienti dal sepolcro degli Haterii, i ricchi appaltatori di questa e di altre opere degli imperatori flavi. Scavi archeologici e studi eseguiti in anni recenti su monumenti di Roma, e in particolare nel Foro alle pendici del Campidoglio, sul Palatino nel Palazzo dei Cesari, nel Colosseo e soprattutto nell´area del Tempio della Pace, anch´esso costruito con i proventi del sacco di Gerusalemme, hanno grandemente ampliato la conoscenza dell´opera svolta dai Flavi per il rinnovamento edilizio di Roma dopo l´incendio del 64 e dopo l´abbandono degli insani programmi costruttivi di Nerone. I monumenti di età flavia tuttora connotano poderosamente il paesaggio di Roma anche quando sono latenti, come lo stadio di Domiziano, ma riconoscibili nella forma della città moderna.
In occasione dell´esposizione hanno ritrovato la propria collocazione ideale due colossali teste marmoree di Vespasiano e di Tito, della cui provenienza si era persa memoria, ora presentate nella Curia, la sede del Senato romano nel Foro. La prima, confluita con le collezioni Farnese nel Museo di Napoli, era stata raccolta intorno alla metà del Cinquecento nell´area del tempio di Vespasiano alle pendici del Campidoglio verso il Foro: apparteneva alla statua di culto di questo imperatore, così identificata da Filippo Coarelli. L´altra testa, pure conservata a Napoli, è stata riconosciuta da Eugenio La Rocca in quella di Tito rinvenuta a Roma tra il 1872 e il 1873 ov´era il grandioso Templum Gentis Flaviae, nell´area poi occupata dalle Terme di Diocleziano.

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La mostra "Divus Vespasianus. Il bimillenario dei Flavi", è curata da Filippo Coarelli in collaborazione con la stessa soprintendenza, con il Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Bimillenario e con Electa. Resterà aperta al pubblico dal 27 marzo 2009 al 10 gennaio 2010. Racconta le gesta degli imperatori flavi: di Vespasiano (69-79), del primogenito Tito (79-81) e del figlio minore Domiziano (81-96).
La mostra si articola in tre sedi: al Colosseo e, per la prima volta, alla Curia, nel Foro romano, accessibile al pubblico per quest´occasione, e al Criptoportico "neroniano", sul Palatino. Nel mese di aprile, durante la settimana dei Beni Culturali, s´inaugura un´ulteriore sezione sul Campidoglio, nei Musei Capitolini, a Palazzo Nuovo, sempre a cura di Filippo Coarelli e in collaborazione con la Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma. A queste sedi espositive si aggiunge un percorso all´interno del Foro romano e del Palatino che, attraverso nuovi pannelli didattici, guida il visitatore alla scoperta dei monumenti flavi: dall´Arco di Tito alla Domus Flavia, dal Tempio del Divo Vespasiano al Tempio della Pace, solo per citarne alcuni.
Al Colosseo invece, protagonista più che mai di questa mostra perché edificato da Vespasiano, inaugurato da Tito e terminato da Domiziano, presenta la musealizzazione di ritrovamenti relativi all´anfiteatro. All´ingresso e al II ordine del Colosseo verranno esposti in maniera permanente reperti prima non visibili al pubblico perché conservati nei sotterranei del monumento, e nuove, inedite scoperte. Il catalogo delle mostre è edito da Electa.
Orari: Dal 27 marzo al 28 marzo: 8.30-17.30 (ultimo ingresso ore 16.30). Dal 29 marzo al 31 agosto: 8.30 - 19.15 (ultimo ingresso ore 18.15). Dal 1 settembre al 30 settembre: 8.30-19.00 (ultimo ingresso ore 18.00). Dal 1 al 24 ottobre: 8.30 - 18.30 (ultimo ingresso ore 17.30). Dal 25 ottobre al 10 gennaio 2010: 8.30-16.30 (ultimo ingresso ore 15.30). Giorni di chiusura: 1 gennaio, 1 maggio, 25 dicembre. Venerdì Santo chiusura anticipata alle 14 (ultimo ingresso ore 13.00). Non si effettua chiusura settimanale. La biglietteria chiude un´ora prima.
Ingresso: Intero euro 12, ridotto euro 7,50. Informazioni e visite guidate Pierreci tel. +39.06.39967700. www.pierreci.it
E´ possibile accedere direttamente al Colosseo tramite il tickprint, che si trova sempre dentro il sito pierreci.it, un vero e proprio biglietto a tutti gli effetti che è possibile stampare comodamente a casa o nel proprio ufficio, ed accedere con esso direttamente al tornello. Il sistema di acquisto on line prevede invece soltanto il ritiro del biglietto presso la cassa dei prenotati. E´ possibile l´acquisto anche presso le altre biglietterie del Colosseo - biglietteria del Palatino e del Foro Romano � evitando così il grande flusso, la coda che perennemente registra l´ingresso del monumento principale: il sistema informatizzato dei tornelli d´accesso riconosce il biglietto. Non ci sono attese.
Da segnalare un biglietto denominato "Archeologia card" che è valido sette giorni e permette l´accesso diretto al Colosseo-Foro-Palatino, alle sedi del Museo nazionale romano (palazzo Massimo, palazzo Altemps, Terme di Diocleziano, Crypta Balbi), alle terme di Caracalla, alla Villa dei Quintili, al mausoleo di Cecilia Metella. È acquistabile presso tutte le biglietterie dei siti archeologici.

Le tecnologie favoriscono le visite; facili scoperte nel mondo dell´antichità

Le tecnologie favoriscono le visite; facili scoperte nel mondo dell´antichità
MAURIZIO BETTINI
MERCOLEDÌ, 25 MARZO 2009 la repubblica - Cultura

In quella che fu l´arena della città saranno esposti reperti che non sono mai stati visibili al pubblico perché conservati nei sotterranei, ed anche inedite scoperte archeologiche
Intitolata "Divus Vespasianus" la mostra si articola in più sedi espositive e in un percorso all´interno del Foro romano e del Palatino imperniato sui monumenti voluti dai Flavi, dall´Arco di Tito al Tempio della Pace
Vespasiano era avaro e spiritoso. Durante il suo regno rimise a posto le casse dello stato, devastate dagli anni di Nerone e dalle lotte civili
La fortuna dei Flavi si costruì sulla sconfitta degli Ebrei: la campagna iniziò per domare una rivolta e finì con la capitolazione totale dei ribelli

Quando Vespasiano morì, nel 79 d. C., i suoi funerali furono solenni, ma anche bizzarri. Svetonio racconta infatti che in quella occasione "l´archimimo Favor aveva indossato la persona dell´imperatore e andava imitando, secondo il costume, i fatti e i detti di lui vivo". Dice il biografo che questo singolare rito funebre faceva parte del mos, del costume tradizionale. Eppure, almeno per noi, tutto ciò è molto sorprendente.
Ci troviamo di fronte a un imitatore (un Fiorello? un Crozza?) che si aggira intorno al feretro dell´uomo più potente del mondo riproducendone i tic e le frasi più tipiche. I Romani, si sa, avevano il culto di "raddoppiare" i nobili defunti in occasione delle loro esequie: ne ponevano i ritratti sul feretro, e soprattutto mettevano insieme una lunga processione di figuranti che avanzavano indossando le maschere funebri degli antenati. Una cerimonia davvero perturbante. Polibio, che era greco, la descrisse con meraviglia, e nei secoli successivi si arriverà addirittura a costruire una statua in cera dell´imperatore defunto, che veniva trattata come persona viva: con medici, dignitari e matrone che si aggiravano premurosi attorno a quel "doppio" come se si fosse trattato di un malato dal colorito, ovviamente, cereo.
Con tutto ciò la presenza di Favor, l´imitatore, al funerale di Vespasiano, è davvero sconcertante. E quali saranno stati poi i "fatti e detti" del morto che il mimo andava imitando? Svetonio ci dice anche questo. Favor infatti "interrogava i procuratori davanti a tutti, chiedendo loro quanto costava la cerimonia funebre. E sentendo che costava centomila sesterzi, esclamava: «datemi cento sesterzi e poi buttatemi pure nel Tevere!»" Ovviamente in quel momento era Vespasiano che parlava, non Favor. Possiamo essere sicuri che questa battuta costituiva un´imitazione del carattere e dei dicta del vivo. Ancora Svetonio, infatti, ci dice che Vespasiano era famoso per la sua avidità di danaro; e che egli "amava molto le battute di spirito, anche se erano sordide e scurrili" soprattutto "a proposito dei propri inconfessabili guadagni, che metteva in scherzo attraverso giochi di parole". Basta ricordare il celebre commento che riservò al figlio Tito quando costui lo rimproverava perché aveva messo una tassa sugli orinatoi. Per quanto ciò possa sembrare strano, infatti, l´urina era all´epoca una materia preziosa, non un semplice escremento, perché i fullones ne facevano largo uso nel trattamento delle stoffe. Dunque Vespasiano "aveva preso del danaro dalla prima riscossione e aveva chiesto a Tito se fosse infastidito dall´odore. E siccome lui diceva di no, aveva commentato: eppure vengono dal piscio!". La frase di Favor, "datemi cento sesterzi e poi buttatemi pure nel Tevere!", sembra proprio di quelle che Vespasiano avrebbe potuto pronunziare da vivo. C´è tutto, il carattere volgare della battuta, la materia sordida, il cinismo. Perché l´uomo era così, avaro e spiritoso. Avaro, ovviamente, anche nel senso che durante il proprio regno rimise in sesto le casse dello stato, devastate dagli ultimi anni di Nerone e dalle lotte civili che precedettero la sua assunzione all´impero, nel 69 d. c. E si sa che i governanti severi, quelli che impongono tasse e soprattutto le fanno pagare, non hanno difficoltà a guadagnarsi cattiva fama.
Che poi, a pensarci bene, gli scherzi di Favor costituivano forse l´accompagnamento più adatto per un imperatore che, nel momento del trapasso, aveva pronunziato non frasi poetiche o sentenze filosofiche, ma (ancora una volta) una battuta di spirito. Sentendo aggravarsi le sue condizioni, infatti, Vespasiano aveva detto: "ahimé, credo che sto per diventare un dio!". Un dio ci divenne davvero, ovviamente, dopo la morte. E pensare che era nato, di famiglia modesta, in un piccolo villaggio della Sabina, Falacrine. L´educazione gliel´aveva impartita la nonna paterna, che certo non gli avrà insegnato la grammatica come la imparavano i giovani patrizi di città. Per questo nel parlare latino Vespasiano rimase sempre un po´ goffo. Però era spiritoso. Si raccontava che il consolare Mestrius Florus lo avesse rimproverato perché aveva detto plostra e non plaustra, come si doveva. Era una pronunzia popolare, degna di un Sabino che aveva passato la vita nell´esercito. Vespasiano non batté ciglio ma il giorno dopo, incontrando Florus, lo salutò così: Salve Flaure! E flauros, in greco, significa "sciocco".
Sarà stato anche poco erudito, Vespasiano, ma forse proprio per questo amò sinceramente la cultura. Fu lui infatti il primo imperatore a stanziare una somma annua di centomila sesterzi da destinare all´insegnamento della retorica greca e latina. Si tratta di una novità fondamentale nella storia dell´educazione occidentale. Con questa decisione di Vespasiano, infatti, nasceva l´istruzione superiore a carattere pubblico. A coprire il primo insegnamento di retorica latina fu chiamato Quintiliano, e il risultato del suo insegnamento fu quella Istituzione dell´oratore che ha costituito per secoli uno dei pilastri dell´educazione europea.
Di un grande uomo, e Vespasiano certo lo fu, si vorrebbe sapere quali ricordi gli si affacciarono alla mente nel momento del trapasso. Il che non è possibile. Forse però possiamo immaginare che il pensiero di Vespasiano andasse alla Giudea, la terra dove, sulle disgrazie degli Ebrei, era nata la fortuna dei Flavi: la sua, prima di tutto, e quella dei due figli che gli succedettero nell´impero, Tito e Domiziano. Nerone aveva spedito Vespasiano in quelle terre, nel 66 d. c., per domare una rivolta che rischiava di farsi pericolosa. La campagna fu travolgente, le città e le roccheforti dei ribelli caddero rapidamente nelle mani dei Romani, e il loro stesso comandante, Giuseppe, passò dall´altra parte: accettando il poco nobile compito di interrogare i prigionieri e di persuaderli ad arrendersi. In seguito, e dopo aver assunto il nome gentilizio del nuovo padrone, Flavio Giuseppe diventerà anzi l´autore della Guerra giudaica, in cui fra l´altro teorizzò il carattere provvidenziale dell´impero Flavio, che sarebbe stato voluto anche dal dio dei Giudei. Ma più ancora delle armi vittoriose, in quella guerra contarono i presagi. A quel tempo, infatti, circolava una profezia secondo la quale "chi fosse venuto dalla Giudea, sarebbe divenuto il padrone del mondo". Gli Ebrei la riferirono a se medesimi, come se dio li invitasse a scatenare la rivolta. Invece finirono suicidi a Iotapada e Masada. Mentre Vespasiano, che anche lui "veniva dalla Giudea", seppe volgere quel presagio nella direzione giusta, assumendo l´impero dopo che Galba, Otone e Vitellio se l´erano conteso inutilmente.
Di lui ci resta l´immagine di un uomo anziano, calvo, dal viso schiacciato e dalla fronte solcata di rughe profonde. E soprattutto ci resta il monumento che, forse più di ogni altro, ha assunto il ruolo di icona di Roma nel mondo: il Colosseo. Vespasiano lo volle proprio nel cuore della Domus Aurea, la scandalosa dimora che Nerone aveva voluto costruirsi per esaltare il suo proprio prestigio - mentre Vespasiano destinò quell´area al pubblico divertimento e al fasto non di un solo uomo, ma di un´intera città. Non vide la fine del suo anfiteatro, morì infatti l´anno prima che lo inaugurasse suo figlio, nell´80 d. c. Ma certo, contemplando il fiume di spettatori che andava ad occupare i 50.000 posti dell´arena (alcuni dicono che si potesse arrivare addirittura a 75.000), Vespasiano non si sarebbe trattenuto dal fare qualcuna delle sue battute.

martedì 24 marzo 2009

Asclepio a Roma

Asclepio a Roma

Una «pestilenza» che infuriava durante la terza guerra Sannitica indusse i Romani a consultare i Libri Sibillini: il responso suggeri loro di far venire Asclepio da Epidauro (Livio, X, 47, 7). Anche Ovidio riferisce la vicenda della trasmigrazione del dio, descrivendola in tono solenne (Metamorfosi, XV, 622 e ss.): l’ambasceria romana, guidata da Q. Ogulnio, si rivolse dapprima all’oracolo di Delfi, che, biasimando tale esitazione, rinviò la delegazione a Epidauro; qui gli anziani della città apparvero riluttanti a inviare il loro dio in una terra straniera; ma fu lo stesso Asclepio a voler precederli nella scelta; in forma di un possente serpente egli lasciò il tempio e salì a bordo della nave romana che era venuta a prenderlo. La vicenda fa chiaramente riferimento all’Asklepieion, ma Ovidio incentra la narrazione sulla città di Epidauro, forse per risparmiare al serpente sacro una poco decorosa “camminata” attraverso la penisola argiva. La spontaneità costituiva un momento importante nei casi di trasmigrazione del culto.
Nel corso del viaggio di ritorno la delegazione compì ancora una breve sosta al tempio di Apollo ad Anzio, risalendo poi per nave il Tevere; all’altezza dell’isola Tiberina il serpente scivolò fuori bordo, raggiungendo poi a nuoto l’isola che aveva prescelto a sede del proprio santuario. Nei primi giorni fu una palma (sacra ad Apollo, il padre di Asclepio secondo il mito) ad ospitare il serpente; quanto alla pestilenza, si estinse immediatamente.
Il santuario fu edificato nella parte meridionale dell’isola, la cui estremità, affinché si conservasse il ricordo della storia del trasferimento del dio, venne successivamente trasformata in modo da assumere la forma della prora di una nave, decorata con la testa di Esculapio e con il bastone sul quale si avvolgeva il serpente. L’unica traccia rimasta di quegli edifici consiste nella tradizione secondo cui nella chiesa di San Bartolomeo, ubicata nel medesimo luogo, si curavano gli ammalati e gli appestati. Cionondimeno il culto si radicò profondamente, tanto è vero che dal letto del Tevere intorno all’isola è stato recuperato un gran numero di ex voto anatomici e di iscrizioni votive (…), che stanno a testimoniare come anche in quel luogo Asclepio prestasse soccorso agli ammalati e ai sofferenti. Alcuni elementi caratteristici dei culti italici si riversarono nella forma delle offerte votive, che spesso riproducono organi interni del corpo umano. In epoca imperiale i Romani più abbienti si liberavano dei loro schiavi malati inviandoli sull’isola, con la scusa di affidarli alla cura del dio; poiché questa esposizione equivaleva a un tentativo di omicidio, l’imperatore Claudio dispose che in tal caso essi dovessero essere considerati liberi (Svetonio, Claudio, 25).

Antje Krug, Medicina nel mondo classico, Giunti, Firenze, 1990, pp. 172-173

Medici nell’Esercito Romano

Medici nell’Esercito Romano

Nell’esercito permanente dell’epoca romana il ruolo del medico era fisso: il patrimonio delle fonti relative a questo argomento è cospicuo grazie al gran numero di iscrizioni che si sono conservate. Responsabile degli infermi e dei medici che dovevano curarli era il praefectus castrorum, un ufficiale di rango equestre. Oltre ai medici esistevano anche dei subordinati, i capsarii, addetti alla cassetta delle bende (capsa). Sui capsarii e sull’infermeria vigilava un soldato scelto (optio) che godeva i privilegi degli immunes, cioè di quei soldati che, a causa dei loro compiti speciali, erano esentati dai consueti doveri della truppa. Sulla Colonna Traiana, ove è raffigurato lo svolgimento della spedizione contro i Daci del 106 d.C., compare un posto di medicazione presso il quale i feriti vengono medicati da altri soldati forniti della stessa loro armatura e soprattutto armati non meno di loro; si trattava dunque di soldati che prestavano le prime cure ai loro commilitoni, e non di immunes.
Le testimonianze sui medici romani raccolte da R. W. Davies offrono un quadro oltremodo vario. Colpisce anzitutto il fatto di trovare in mezzo a loro anche un veterinario, L. Crassico (medicus veterinarius). Le unità militari avevano infatti in dotazione anche degli animali da soma e da tiro, oltre alle bestie da macello necessarie al sostentamento delle truppe; la cura di tutti questi capi era affidata ad un pecuarius. Le truppe a cavallo e i reparti che costituivano una ala o cohors equitata avevano bisogno di un hippiatròs, quale era appunto quel tale C. Aufidio che prestò servizio nell’Africa settentrionale. Una qualifica speciale era quella di Ti. Claudio Giuliano e C. Terenzio Sinforo, che svolgevano le loro mansioni nelle coorti pretoriane, rispettivamente come medicus clinicus e chirurgus. I medici sulle navi della flotta erano chiamati duplicarii, perché ricevevano il doppio della paga a causa della gravosità del loro servizio. Resta di difficile interpretazione invece se i medici, ad esempio i medici ordinarii, detenessero un grado nell’organico della truppa. Tra i loro nomi moltissimi sono di origine greca, anche in quelle legioni in cui servivano soltanto cittadini romani: un medico, anche se non era romano per nascita, aveva più facile accesso al diritto di cittadinanza che non altre persone.

Antje Krug, Medicina nel mondo classico, Giunti, Firenze, 1990, Pagina 219

IL PONTE COSTRUITO DA CESARE SUL RENO

IL PONTE COSTRUITO DA CESARE SUL RENO

Il disegno del ponte fu questo. Due travi per parte, dello spessore di un piede e mezzo, un poco appuntite all’estremità inferiore, misurate in proporzione alla profondità del fiume, venivano accoppiate fra loro alla distanza di due piedi una dall’altra. Per mezzo di macchine venivano poi immerse nel fiume; indi confitte e assicurate a colpi di battipali, ma non perpendicolari, bensì inclinate, con una pendenza simile a quella del tetto di una casa, in modo che piegavano secondo il senso della corrente. Di fronte a queste due palafitte ne venivano collocate altre due, ugualmente assicurate fra loro, alla distanza di quaranta piedi piLi a valle, ma con la pendenza rivolta contro la pressione e l’urto della corrente. Queste due coppie, dopoché vi s’era fatta passare sopra una trave larga due piedi (quanto cioè. erano distanti una dall’altra), venivano tenute a rispettiva distanza a cominciare da sopra per mezzo di due chiavi di legno per parte.
E poiché erano forzate e tenute ferme in senso opposto, tanto era la solidità del lavoro e tale la sua natura, che, quanto più la corrente infuriava, tanto più i travicelli di sostegno si tringevano. Queste pile erano poi collegate con traverse poste per il lungo, ricoperte di travi e fascine, inoltre, dalla parte a valle, erano piantati sostegni in obliquo, i quali, protesi a modo di arieti e collegati con l’intera opera dovevano sostenere l’impeto della corrente, mentre, a monte, a breve distanza dalle pile, erano piantati altri sostegni, talché, se i barbari avessero mandato giù tronchi o barche per rovinare la costruzione, queste opere di difesa ne avrebbero attutito il colpo e il ponte sarebbe stato salvo.

CESARE

IL PONTE COSTRUITO DA CESARE SUL RENO

IL PONTE COSTRUITO DA CESARE SUL RENO

Il disegno del ponte fu questo. Due travi per parte, dello spessore di un piede e mezzo, un poco appuntite all’estremità inferiore, misurate in proporzione alla profondità del fiume, venivano accoppiate fra loro alla distanza di due piedi una dall’altra. Per mezzo di macchine venivano poi immerse nel fiume; indi confitte e assicurate a colpi di battipali, ma non perpendicolari, bensì inclinate, con una pendenza simile a quella del tetto di una casa, in modo che piegavano secondo il senso della corrente. Di fronte a queste due palafitte ne venivano collocate altre due, ugualmente assicurate fra loro, alla distanza di quaranta piedi piLi a valle, ma con la pendenza rivolta contro la pressione e l’urto della corrente. Queste due coppie, dopoché vi s’era fatta passare sopra una trave larga due piedi (quanto cioè. erano distanti una dall’altra), venivano tenute a rispettiva distanza a cominciare da sopra per mezzo di due chiavi di legno per parte.
E poiché erano forzate e tenute ferme in senso opposto, tanto era la solidità del lavoro e tale la sua natura, che, quanto più la corrente infuriava, tanto più i travicelli di sostegno si tringevano. Queste pile erano poi collegate con traverse poste per il lungo, ricoperte di travi e fascine, inoltre, dalla parte a valle, erano piantati sostegni in obliquo, i quali, protesi a modo di arieti e collegati con l’intera opera dovevano sostenere l’impeto della corrente, mentre, a monte, a breve distanza dalle pile, erano piantati altri sostegni, talché, se i barbari avessero mandato giù tronchi o barche per rovinare la costruzione, queste opere di difesa ne avrebbero attutito il colpo e il ponte sarebbe stato salvo.

CESARE

Province (provinciae).

Province (provinciae).

Territori situati fuori d’ltalia e governati da magistrati romani, il cui terreno era considerato proprietà del popolo romano ed era soggetto all’imposta fondiaria in natura (vectigal) o in denaro (stipendium). La prima provincia romana fu la Sicilia (241 a.C.).
1. Periodo repubblicano.
Il generale che aveva conquistato una nuova provincia, assistito da dieci rappresentanti del senato (decem legati), fissava la carta della provincia (lex data provinciae), eventualmente completata dagli editti dei governatori. Il principio di base della politica romana nei confronti delle varie città di provincia era di evitare l’uniformazione, tenendo conto dei particolarismi e moltiplicando le categorie distinte, in modo da contrapporre gli interessi; e ciò nell’intento di tenerle meglio in pugno. Si distinguevano così da una parte le città libere e le città federate (civitates liberae, foederatae), che teoricamente godevano dell’autonomia amminitrativa, erano esenti da imposte e battevano moneta; e dall’altra, le città a costituzione municipale: colonie romane e municipi di diritto romano o latino. Lo statuto di queste diverse città era paragonabile a quello delle corrispondenti città d’Italia, con la differenza che il suolo era soggetto all’imposta fondiaria; infine le città soggette (civitates stipendariae) che ricevevano dal governatore la loro costituzione (lex civitatis). Lo statuto di queste varie categorie era soggetto ad evoluzione in senso favorevole o sfavorevole; tra l’altro ciascuna di esse comprendeva popolazioni assimilate in modo ineguale, soggette e libere. Alla testa della provincia, il governatore era un magistrato o un promagistrato. Secondo l’importanza della provincia e la dignità del magistrato governatore si distinguono le province consolari e quelle pretorie. Il governatore era accompagnato da legati e amici, da un questore, dalle truppe e da ausiliari. La carica era annuale, non retribuita ma in realtà lucrativa. Il potere del governatore era limitato soltanto dalla lex provinciae e dai privilegi concessi a talune città.
2.Periodo imperiale.
La condizione delle città provinciali evolse nel senso dell’uniformazione: tale tendenza era correlati-va alla romanizzazione accentuata dell’Impero; d’altra parte, a partire dall’editto di Caracalla (212) non vi furono più che cittadini soggetti all’imperatore. In ogni provincia fu creato un centro in cui, ogni anno, intorno all’altare di Roma e di Augusto servito da un sacerdote della provincia (sacerdos provinciae), si riuniva un’assemblea (concilium provinciae) sotto la presidenza del governatore. Essa votava un elogio o un biasimo nei riguardi del governatore che era comunicato all’imperatore, il quale ne teneva conto. In età imperiale vi erano due grandi categorie di province: 1 le province senatorie, considerate pacificate, sguarnite di truppe ed affidate a un promagistrato nominato dal senato; due erano consolari (Asia ed Africa); le altre pretorie, ma i governatori avevano tutti il titolo di proconsoli; 2 le province imperiali, in genere più recenti, che richiedevano la presenza di truppe; esse dipendevano direttamente dall’imperatore che governava per interposta persona. Da qui, il titolo dei governatori delle province imperiali (consolari e pretorie): legati Augusti pro praetore, che restavano in carica per un periodo deciso dall’imperatore stesso. Queste province erano disposte in tre categorie per ordine d’importanza: a) le province consolari, governate da un consolare, accompagnato da tre legati ed un questore, che comandava diverse legioni; b) le province pretorie, governate da un pretoriano, accompagnato da un legato e un questore, e che comandava una sola legione; infine le province procuratorie, considerate dominio dell’imperatore, amministrate da intendenti, i procuratores pro legato, o praesides, con poteri civili e militari: queste ultime province erano considerate temporaneamente inassimilabili e formavano una categoria a parte.
Il governatore di una provincia riceveva, come il personale che l’accompagnava, uno stipendio proporzionale all’importanza della provincia stessa. Egli aveva attributi finanziari, giudiziari, politici e, nelle province imperiali, militari. Ma l’esercizio di queste funzioni era strettamente sorvegliato dall’imperatore. La condizione e l’organizzazione delle province furono generalmente buone.
Diocleziano riorganizzò le province dividendo l’Impero in quattro prefetture (Italia, Gallia, Illiria, Oriente), suddivise in dodici diocesi, a loro volta suddivise in 96 province.

Dizionario della Civiltà Romana, Gremese, Roma, 1990, pp. 200-201

La battaglia di Arausione

La battaglia di Arausione

Fu questa una catastrofe che materialmente e moralmente superò di molto la battaglia di Canne. Le sconfitte toccate a Carbone, a Silano, a Longino erano passate senza lasciare durevole impressione sugli Italici. Si erano già abituati a vedere incominciata ogni guerra con avversa fortuna; la invincibilità delle armi romane era tanto indubbia, che pareva superfluo por mente alle eccezioni che pur erano numerose. Ma la battaglia di Arausione, la vicinanza in cui il vittorioso esercito cimbrico si trovava agli sguarniti passi delle Alpi, l’insurrezione scoppiata di nuovo e più violenta nel paese romano transalpino ed anche nella Lusitania, lo stato inerme dell’Italia scossero formidabilmente i Romani da questi sogni.
Si ravvivò nella loro mente la memoria non mai assopita interamente, delle procelle suscitate nel quarto secolo dai Celti, della battaglia sulle rive dell’Allia e dell’incendio di Roma; con la doppia violenza dell’antica memoria e della più recente angoscia per tutta l’Italia si sparse lo spavento dei Galli; pareva che tutto l’Occidente si avvedesse che il dominio dei Romani cominciava a vacillare. Come dopo la giornata di Canne fu ridotto con senato-consulto il tempo di vestire di bruno ~. I nuovi arruolamenti svelarono la più dolorosa diminuzione nella popolazione. Tutti gli Italici atti alle armi dovettero giurare di non lasciare l’Italia; ai capitani delle navi che si trovavano nei porti italici, fu ingiunto di non ricevere a bordo nessun uomo soggetto a coscrizione.
Non parleremo di ciò che sarebbe potuto accadere se i Cimbri subito dopo la loro duplice vittoria, passate le Alpi, fossero calati in Italia. Intanto, essi cominciarono coll’innondare il territorio degli Alverniati, che a fatica si difendevano dai loro nemici nelle fortezze, e stanchi degli assedi procedettero oltre, non verso l’Italia, ma verso l’Occidente ed i Pirenei.

Th. Mommsen, Storia di Roma antica, II, Sansoni, Firenze, 1965, pp. 212-213.

Gli avvenimenti del 113-101 a.c.

Gli avvenimenti del 113-101 a.c.

Costretti ad abbandonare, insieme alla gente degli Ambroni, per ragioni che non conosciamo bene, le loro sedi originarie nella Germania settentrionale, i Cimbri avevano emigrato verso sud, comparendo, nell’anno 113, sui valichi delle Alpi orientali, dove avevano sconfitto, presso Noreia , il console Papirio Carbone. Avevano quindi retroceduto per ricomparire qualche anno più tardi, in unione al popolo celtico dei Tigurini nelle regioni della Gallia, al di qua del Reno I Romani dovettero di nuovo affrontarli per difendere la provincia Narbonese e i popoli della Gallia loro amici; ma subirono una gravissima disfatta e due loro eserciti furono distrutti, ad Arausio (sul Rodano inferiore), nell’ottobre del 105, con la perdita di sessantamila uomini. Sembrava che ormai più nulla potesse salvare l’Italia dall’invasione dei barbari. Per fortuna essi indugiarono, incerti sul da farsi; e i Romani si affrettarono a eleggere di nuovo console, per l’anno 104, Mario, l’unico generale in cui allora si avesse fiducia, reduce dai trionfi africani ~ Mario, approfittando dell’indecisione dei barbari, che si erano allontanati dalle Alpi per indugiarsi a saccheggiare la Gallia e la Spagna, attese a riordinare con ogni cura l’esercito, introducendovi riforme sostanziali. Rieletto console anche per il 103, Mario occupò l’inverno a istruire le sue numerosissime reclute e ad abituarle alla più rigorosa disciplina: fece anche scavare un nuovo canale di sbocco alle foci del Rodano, la fossa Mariana, destinato a facilitare le comunicazioni con l’Italia per via di mare (Strabone, IV, 183). Recatosi a Roma nell’autunno per le elezioni consolari, Mario riuscì eletto per la quarta volta alla suprema magistratura. Tornato in Gallia (102 a. C.), apprese che le quattro genti barbare avevano deciso di tentare l’invasione dell’Italia per due vie separate: i Teutoni con gli Ambroni per la via del litorale ligure, i Cimbri e i Tigurini per il Brennero e per i passi delle Alpi Giulie. Mentre Mario, portatosi sul basso Rodano, sbarrava la strada ai Teutoni, il suo collega Lutazio Catulo si faceva incontro ai Cimbri, che scendevano dal Brennero. Ad Aquae Sextiae (l’odierna Aix) i Teutoni venivano distrutti dall’esercito di Mario che prendeva prigioniero il loro re Teutobodo (autunno del 102). Indi Mario, riuniti i suoi soldati con quelli di Catulo, nel luglio del 101 batteva i Cimbri ai Campi Riudii, presso Vercelli, annientandoli.

Giulio Giannelli, Trattato di storia romana, I, Tumminelli, Roma, 1965, pp. 361-362,

Romani e Germani

Romani e Germani
I Romani presero coscienza dell’estensione e della relativa unità del mondo germanico verso l’epoca di Augusto. Ebbero allora bisogno di un termine per designarli, e questo fu « Germani », introdotto senza dubbio nella lingua letteraria dallo storico greco Posidonio , nel I sec. a. C. e reso comunque popolare dai Commentari di Cesare. Questo termine, sembra che in un primo tempo designasse delle tribù in gran parte celtizzate della riva sinistra del Reno, i Germani cisrhenani. Ci si può dunque chiedere se il vocabolo non sia per caso di origine celtica, a somiglianza di Cenomani, Paemani, ecc. In ogni caso, i Germani stessi non si sono mai dati un nome generico; solo tardi, (VIII secolo?) quelli rimasti sul continente dopo la migrazione anglo-sassone si sono forgiati il nome, poco significativo, di Deutsche, letteralmente « genti del popolo », che in principio servi soprattutto a sottolineare la differenza tra elementi germanici e romani nell’Impero carolingio.
La scoperta del mondo germanico da parte dell’antichità classica fu fatta dapprima per via marittima (Pitea di Marsiglia, IV secolo a. C.). Poi vi furono alcuni contatti con le avanguardie delle prime migrazioni: Bastarni e Sciti sul mar Nero (fine III sec. a. C.), Cimbri e Teutoni in Norico, Gallia, Spagna e Italia (113-101 a. C.). Ma per averne una visione complessiva occorsero le campagne di Cesare e d’Augusto. Dopo un secolo di guerre e di contatti commerciali, i Romani furono in grado di tentare delle sintesi; quelle del geografo Strabone (verso il 18 d. C.), di Plinio il Vecchio (prima del 79 d. C.), di Tacito nella sua « Germania », opera disgraziatamente troppo letteraria (nel 98), e infine di Tolomeo 16 (verso il 150 d. C.).
(L. Musset, Les invasions: les vagues germaniques.
Presses Universitaires de France, Parigi, 1965, pp. 47-48).

Azione romana Nella Cisalpina

Azione romana Nella Cisalpina
Nella Cisalpina, tutte le conquiste che i Romani vi avevano fatto dopo il 225, andarono perdute con l’invasione di Annibale: soltanto le due colonie latine di Piacenza e di Cremona opposero un’epica resistenza ai Galli, che le circondavano da ogni parte. Piacenza cadde in mano dei barbari nel 200 o nel 199. Nel 197, quando stava per concludersi la guerra con la Macedonia, i Romani iniziarono la riconquista della Cisalpina, che fu compiuta in meno di dieci anni: agli Insubri e ai Cenomani fu lasciato intatto il territorio e riconosciuta la condizione di alleati; i Boi vennero invece privati della più gran parte delle loro terre e i superstiti obbligati, come pare, ad emigrare di là dalle Alpi. Nel territorio incorporato nella Repubblica vennero fondate nuove colonie:
quella latina di Bononia (189 a. C.) e le due, romane, di Parma e di Mutina (183 a. C.), per dir solo delle maggiori. Nel 177, al confine tra la Liguria e l’Etruria, fu fondata la colonia romana di Luna.
Nel 187, essendo consoli M. Emilio Lepido e C. Flaminio Nepote, furono costruite le due grandi strade militari: la via Flaminia, da Arezzo a Bologna, la via Aemilia, da Rimini a Piacenza; più tardi, nel 171 a. C., si aprì una seconda comunicazione con la pianura padana attraverso l’Etruria, con la via Cassia. Infine, nel 148, si costruì la via Postumia, che metteva in comunicazione Genova con Piacenza. La pianura cispadana si andò così rapidamente latinizzando; e la latinizzazione proseguì rapidamente anche a nord del Po, dove seguitavano a vivere i Galli Insubri, i Cenomani e i Veneti, ma dove si andò pure diffondendo sempre più la popolazione latina, grazie anche al rafforzamento delle colonie di Piacenza e di Cremona. Al confine orientale del territorio dei Veneti, per tenere a dovere le tribù rapinatrici degli Illiri, fu fondata, nel 181, la colonia latina di Aquileia. Con le due campagne del 178 e del 177 venne assoggettata l’Istria e una ventina d’anni più tardi furon domate anche le genti illiriche della Dalmazia.
La Gallia Cisalpina non fu però costituita a provincia che assai più tardi, probabilmente al tempo di Silla.
Giulio. Giannelli, Trattato di storia romana, I, Tumminelli, Roma, 1965, pp. 286-287).

La fine della guerra contro i Celti

Polibio
La fine della guerra contro i Celti

In seguito a questi avvenimenti, i capi insubri rinunciarono a ogni speranza di salvezza e si arresero ai Romani senza condizioni. Così dunque ebbe termine quella guerra contro i Celti che, per la baldanza e l’ardimento dei contendenti, per la gravità delle battaglie, per il numero dei morti e dei combattenti, fu più terribile di ogni altra di cui parli la storia; per la condotta politica e la sconsideratezza con cui fu guidata nei particolari, finì con l’essere, invece, di ben piccolo conto, perché in ogni loro impresa i Galli si lasciano guidare più dall’impulso momentaneo che dal calcolo ragionato. Osservando a questo proposito che poco dopo essi erano espulsi da tutta la pianura padana eccettuate poche località proprio sotto le Alpi, pensammo di non dover passare sotto silenzio né la prima delle loro spedizioni, né le successive imprese, né la definitiva sconfitta; riteniamo del resto compito della storia proprio quello di conservare e trasmettere ai posteri il ricordo di tali rivolgimenti della fortuna, perché i nostri discendenti, essendone a conoscenza, non possano più essere sorpresi da improvvisi e inaspettati attacchi dei barbari ma, tenendo presente quanto l’impeto di quelle genti sia breve ed effimero, lo sostengano e mettano in gioco pure le estreme loro speranze, piuttosto che cedere su qualche punto essenziale.

(Storie, II, 35).

SOCIETÀ ED ECONOMIA DEI TERRITORI FELTRINO, BELLUNESE E CADORINO IN ETÀ ROMANA

Ezio BUCHI

SOCIETÀ ED ECONOMIA DEI TERRITORI FELTRINO, BELLUNESE E CADORINO IN ETÀ ROMANA

Verso la metà del II secolo a.C. Polibio, nell’ambito della descrizione dell’Italia esplicitamente finalizzata a una migliore comprensione dell’impresa annibalica’, offriva accanto a un «excursus» socio-economico della pianura padana una esauriente trattazione geografico-naturalistica delle Alpi, intraviste, come già in Catone, non solo nel ruolo storico-politico di barriera naturale d’Italia, ma anche come sede nelle aree collinose e basse di numerose popolazioni. Più tardi Augusto, nel registrare l’avvenuta pacificazione delle Alpi dal mare Adriatico a quello Tirreno, che rientrava in un più vasto disegno politico di organizzazione territoriale, dava un lungo elenco di gentes alpinae devictae e ormai a vario titolo afferenti alle città più prossime lo stesso Strabone in età tiberiana, facendo il punto delle conoscenze sulle Alpi e della situazione politico-amministrativa originata dalla conquista augustea, approntava un quadro fisico-ambientale, ma anche antropologico della regione alpina in cui andava ben oltre il ristretto concetto polibiano della abitabiità per far emergere invece il grado di incivilimento, la nuova «cultura», i modi di vita e perfino alcuni caratteri economici delle popolazioni.
Bisognerà però attendere la discriptio Italiae inserita da Plinio il Vecchio nella Naturalis historia e per certo dipendente da varie fonti epigrafiche, monumentali e letterarie di età augustea8 per conoscere l’oppidum retico dei Feltrini e quello veneto di Bel(1)unum; dei Catubrini, gli antichi abitanti dell’odierno Cadore, originariamente afferenti al municipium di Iulium Carnicum (Zuglio)’, secondo almeno le iscrizioni confinarie scolpite su roccia alle falde del Monte Civetta e un’epigrafe che a Nogaré nei pressi di Pieve di Cadore ricorda un certo Lucio Saufeio Clemente iscritto alla tribù Claudia, nessun cenno fino alla fortunata scoperta nel 1888 e nel 1970 di due iscrizioni molto simili fra loro e risalenti con tutta probabilità ai primi decenni del III secolo d.C., che sono venute a testimoniare come la comunità doveva già godere di una propria autonomia amministrativa.
(..)
da AA. VV. Romanità in provincia di Belluno, Editoriale Programma, s.l,, 1995

I DOCUMENTI PIU’ ANTICHI PER LA STORIA ROMANA

I DOCUMENTI PIU’ ANTICHI PER LA STORIA ROMANA

Il più antico documento, arrivato fino a noi, di scrittura romana, è rappresentato da un cippo tronco, trovato nel 1899 dal Boni, nel Comizio, al di sotto di una lastra di lava, nota col nome di lapis niger e che si ritiene segnasse. il luogo della supposta tomba di Romolo. L’iscrizione incisa sul pilastro è così frammentaria che integrazioni sicure non sono possibili; ma la parola rex vi comparisce chiaramente: d’altra parte anche l’interpretazione e la natura stessa di questo scritto, come pure la sua cronologia, non possono essere che soggetto di ipotesi .
Ma anche se a noi non è giunto quasi niente della scrittura romana del V o del IV secolo, tuttavia gli scarsi monumenti che ne abbiamo e quelli, assai più abbondanti, che se ne possedevano ancora a Roma in età storica, ci fanno sicuri che i Romani cominciarono, intorno al 500 a. C., ad usare l’alfabeto e, come sempre avviene da parte di chi non sa scrivere che poco e con grande difficoltà, l’usarono certamente, almeno per qualche decennio ancora, nel modo più parco e solo per le necessità.più impellenti: per le scritture pubbliche, cioè, di carattere documentario.
Quali siano stati i primi documenti pubblici di Roma antica possiamo dire di saperlo con sufficiente sicurezza. Fra i documenti più antichi di contenuto politico, esistenti ancora a Roma quando scrivevano gli annalisti, vengono citati alcumi trattati del tempo degli ultimi re o dei primi anni della repubblica; e cioè: la convenzione stipulata fra Roma e i Latini sul finire dell’età regia e conservata, ancora sotto Augusto, nel tempio di Diana; il trattato con Gabi, appartenente al tempo dell’ultimi) Tarquinio e il primo trattato di navigazione e commercio concluso coi Cartaginesi.
Anche il testo dell’alleanza stretta da Cassio coi Latini, si leggeva ancora, presso i Rostri, al tempo di Cicerone (pro Balbo, 23, 53): e Varrone parla della legge Furia-Pinaria, del 472 a. C., incisa su una colonna di bronzo (in Macrobio., Saturnali, I, 13, 21); e Augusto potè leggere, nel tempio di Giove Feretrio,• l’iscrizione votiva con la quale il console Cornelio Cosso dedicava al dio le spoglie del re veiente Tolumnio. Così pure il codice delle XII Tavole, risalente alla metà del V secolo, può considerarsi come uno dei più antichi documenti, al cui testo si poteva ancora risalire, più o meno direttamente, nell’ultimo secolo della repubblica .

Giulio Giannelli, La Repubblica Romna, Vallardi, Milano, 1944, Pagina 7

LE TERME DEI ROMANI

LE TERME DEI ROMANI
Giuseppe Lugli

LE PIÙ grandiose rovine di Roma, come di quasi tutte le città dell’Impero, sono costituite dalle terme, le quali raggiunsero nel Il e III sec. d. C. uno sviluppo tale da non poter essere paragonato con nessun altro genere di edifici dell’antichità. Ancora oggi i resti colossali delle Terme di Traiano, di Caracalla
e di Diocleziano in Roma, e quelli di tante stazioni balneari antiche, come Civitavecchia, Viterbo, Terracina, Baia, Pozzuoli, oppure di città che giunsero ad un notevole grado di importanza, come Treviri, Timgad, Dougga, Cirene, Leptis Magna, ecc., questi colossali resti destano in noi la più grande impressione e sono tra le testimonianze più importanti e più suggestive della romanità.
Seneca, che visse sotto i primi Cesari e vide appena le prime terme pubbliche di Roma costruite secondo un criterio monumentale, si meravigliava che un romano ricco e famoso come il Vecchio Scipione Africano avesse potuto aver nella sua villa un bagno così «angusto e tenebroso », dove ai suoi tempi appena un servo avrebbe osato bagnarsi. Eppure non era eccessiva frugalità quella degli Scipioni, non era stolto e vano fasto quello dei Cesari; nel corso dei secoli, non solo l’igiene si era notevolmente sviluppata, ma più ancora il concetto che i Romani avevano di questi edifici, lo scopo cui essi erano destinati.
Infatti, per tutta la Repubblica il bagno era considerato come una necessità corporale, come un comodo delle famiglie di una certa agiatezza, i bagni pubblici avendo una funzione molto modesta e molto limitata; esistevano piuttosto bagni privati messi a disposizione del pubblico dietro pagamento, come vediamo in Pompei e come sappiamo essere esistiti anche in Roma, anziché bagni pubblici eretti a spese dello Stato.
Lo Stato non aveva ancora assunto a questo riguardo una speciale iniziativa, una politica, diremo cosi, del bagno. Agrippa fu il primo che nel rinnovamento del Campo Marzio, compiuto da lui e da Augusto, ideò uno stabilimento termale e lo costruì nelle adiacenze del Pantheon; di questo stabilimento non sappiamo nulla, ma certamente non doveva essere una gran cosa, perché un secolo dopo Adriano senti il bisogno di ricostruirlo interamente, tanto che del primitivo edificio non resta più nulla.
A poca distanza, dalla parte opposta del Pantheon, Nerone costruì un nuovo stabilimento balneare per il popolo, il quale durò circa due secoli, ma anche questo in una certa età si mostrò inadeguato e fu più o meno ricostruito da Severo Alessandro, secondo una pianta che ci è pervenuta attraverso i disegni di alcuni studiosi del Rinascimento, ogni avanzo di esso essendo interamente scomparso.
Quindi fino a Nerone non possiamo dire esattamente come fossero concepite le terme pubbliche in una grande città e soli esempi sono quelle di Pompei, cioè le Terme Stabiane, le Terme del Foro, e le Terme Centrali.
Le prime sono le più antiche, costruite fino dall’età sannitica, cioè nel II sec. a. C., e restaurate poi nel secolo seguente sotto la dominazione romana, per opera dei duumviri 5. Ulio e P. Aninio che vi aggiunsero un laconicum, cioè una sala più intensamente riscaldata per il bagno di sudore, e un districtariurn, cioè un luogo per il massaggio dopo il bagno e la lotta; essi apportarono inoltre notevoli modificazioni alla palestra e al portico.
Per la necessità di tenere il portico il più soleggiato possibile, le stanze adibite ai bagni si svolgevano specialmente verso levante e verso settentrione, mentre negli altri due lati soltanto basse botteghe recingevano l’edificio: dall’ingresso principale sulla via degli Hocolnii si entrava nel peristilio o palestra: a destra erano i bagni caldi e a sinistra i bagni freddi; ambedue i gruppi erano preceduti da un vestibolo (apodyterium), riccamente decorato con stucchi e fornito di tante nicchie nelle pareti, chiuse da sportelli di legno per custodire gli abiti dei bagnanti. Dal vestibolo di destra si passava in una sala detta tepidarium, perché ben riparata e giustamente riscaldata, ove chi voleva prendere il bagno caldo si svestiva interamente e poi entrava nelle sale particolari, alcune capaci di contenere parecchie persone, altre riservate a poche di maggiore riguardo, tutte elegantemente decorate con soffitti a cassettoni in stucco e fornite di vasche di marmo e di mobili di legno, con rivestimento di avorio e di bronzo.
(...)

L’Acquedotto Romano

L’Acquedotto Romano

Ma l’acquedotto quale lo concepiamo noi è un’invenzione romana ed ebbe origine da vari fattori; primo dei quali forse la passione pura e semplice di costruire, che fu uno degli elementi più caratteristici dell’indole romana. Vi contribui in secondo luogo la grande invenzione dell’arco, che rese possibili le lunghe catene per sostenere le condutture.
Alcuni hanno avanzato la supposizione che i Romani preferissero il sistema ad archi a quello della tubatura o condotta sotterranea, perché ignoravano la legge dei vasi comunicanti. Essi erano invece effettivamente ottimi idraulici; sia Vitruvio sia Frontino mostrarono di conoscere benissimo quasi tutte le risorse dell’idraulica moderna. La ragione per cui preferirono quasi sempre il sistema ad archi è che avevano a disposizione in grande abbondanza e a buon mercato travertino, mattoni, cemento; tutti materiali di facile impiego. I tubi metallici sarebbero riusciti costosi e malsicuri. L’acciaio non l’avevano; la ghisa non sapevano lavorarla con facilità; il bronzo costava troppo. Il piombo, largamente usato nelle loro condotte urbane, non poteva servire per una tubolatura lunga, continua e di grande calibro. Ragioni di economia e di convenienza imposero quindi all’ingegneria dei Romani il sistema ad archi. E noi dobbiamo rallegrarcene, perché quelle lunghe file d’archi sono forse la cosa più bel] a che ci abbiano lasciato i Romani.
Dei nove acquedotti che servivano Roma al tempo della sua più grande prosperità, sotto Adriano, ci dà notizie complete Frontino nel suo trattato De aquis. Frontino, dopo aver lodevolmente governato la Britannia, fu nel 97 d. C. nominato da Adriano «curator aquarum »: perciò scrive di una materia di sua diretta competenza. Nei primi tempi di Roma, c’informa, la gente attingeva acqua dal Tevere, dai pozzi, dalle cisterne e da numerose sorgenti, come la Fonte delle Ninfe e la Fonte di Giuturna ai piedi dei Sette Colli, e nelle valli che li dividono. Il primo acquedotto, l’Appio, fu dovuto ad Appio Claudio, censore nel 312 a. C.; esso portava l’acqua da una sorgente distante circa dieci miglia a sud di Roma, e che esiste ancora in fondo a certe cave di pietra sulle rive dell’Aniene. Poco prima di entrare in citi, l’acquedotto attraversava, sopra una serie di archi, una depressione del terreno; ma per quasi tutto il suo percorso era sotterraneo, seguendo la strada. Sboccava in un grande serbatoio presso l’attuale Porta Maggiore, da cui l’acqua era distribuita in città.
L’acquedotto Appio era costruito sul sistema delle fogne; invece l’Anio Vetus » (272 a. C.) era un acquedotto vero e proprio, per quanto basso. Prendeva l’acqua da una delle valli montane del bacino dell’Aniene, a una quarantina di miglia da Roma, in un punto abilmente scelto per l’altezza. La condotta utilizzava l’elevazione dei luoghi circostanti. Seguiva l’attuale linea tranviaria di Tivoli, ed era fatta di grandi massi di pietra, uniti con cemento e intonacati internamente con un mastice speciale contenente polvere di cocci finemente macinati. Venne poi l’ Aqua Marcia » (146 a. C.), che fu il primo acquedotto su arcate elevate, e prendeva l’acqua sorgiva a circa 6o metri sul livello del mare. Costruito con massi appena sgrossati, lungo circa 58 miglia, era uno dei tre più famosi. Da Tivoli passava a Gallicano, superando le valli sugli archi, e le alture enrro gallerie, fino alla via Latina. Ivi cominciava una conduttura sotto il piano stradale; a sette miglia da Roma incominciavano gli archi, dei quali si vedono attualmente i resti presso Porta Furba. L’Acqua Marcia era distribuita a tre sezioni della città.
La «Tepula », condotta a Roma nel 1255 a. C. con un acquedotto di cemento, proveniva da certe sorgenti tiepide, di origine vulcanica, 1uesso Frascati. Nell’anno 33 a. C., Agrippa costruiva il nuovo acquedotto, dell’e Aqua Julia », traendola da certe sorgenti fredde più abbondanti, non lungi dalle precedenti. D’allora in poi, le due acque furono riunite. Procedevano insieme per parecchie miglia, e alfine entravano in Roma per due canali sovrastanti a quelli della Marcia, a Porta Tiburtina, scaricandosi in un serbatoio prossimo all’attuale Ministero delle Finanze. Quando Aureliano, nel 272 dell’èra nostra, inalzò in fretta la cinta delle mura che dovevano difendere la città, le arcate della Marcia, della Tepula e della Julia furono tutte e tre incorporate nella nuova struttura, come si può ancora oggi osservare.
Un altro acquedotto famoso, costruito al tempo d’Augusto, quello dell’Acqua Vergine (19 a. C.) — cosi detta, secondo la tradizione, perché fu appunto una giovinetta colei che primamente ne mostrò la fonte a certi militi romani assetati — partiva da certe sorgenti nei pressi di Salone, a circa otto miglia da Roma. Seguiva la stessa linea degli altri fino a mezzo miglio da Porta Maggiore; qui voltava a nord, passava sotto la via Salaria, entrava in città presso il Pincio, a nord di Piazza di Spagna. Era un acquedotto a basso livello; alimenta ancora la fontana della «Barcaccia » in Piazza di Spagna, e va alla celebre Fontana di Trevi. Ad Augusto era anche dovuta l’e Alsietina a (anno 2 dell’era cristiana), destinata a riempire per gli spettacoli di naumachie il grandioso circo che egli costrui sotto il Gianicolo. Proveniva da un lago a venti miglia da Roma, ed era di cattiva qualità. Vennero infine la e Claudia a, e l’e Anio Novus » (38 d. C.), le due maggiori opere romane in questo campo, che costarono fra tutte e due venticinque milioni di sesterzi. La Claudia nasceva da certe sorgenti prossime a quelle della Marcia, e traversava la Campagna sopra archi di pietra, sormontati da quelli di mattoni dell’Anio Novus a. Al giungere a Roma, presso Porta Maggiore, le due acque si mescolavano, ed erano condotte sugli archi neroniani, molti dei quali rimangono ancor oggi, al Celio, e si gettavano, con una grandiosa mostra d’acqua, nel lago che esisteva nella dimora imperiale, la «Domus Aurea » di Nerone, e precisamente nella valle dove sorse poi il Colosseo.
Questi nove acquedotti, completati dalla « Traiana e dall’« Alexandria a, di tempi posteriori a Frontino, si calcola che portassero a Roma oltre un milione e 8oo mila ettolitri d’acqua al giorno. I poveri attingevano alle fontane pubbliche; i ricchi avevano le condutture di piombo, impiantate a spese loro e con l’impronta del nome del possessore, che portavano loro l’acqua nelle case. C’era una categoria di schiavi della comunità, organizzata per la prima volta da Agrippa, per i servizi pubblici delle acque; un’altra era destinata al trasporto nelle case private. Calcolando una popolazione di circa un milione, ciascuno avrebbe avuto più di 180 litri d’acqua al giorno; cifra molto alta, ma non improbabile, se si considera lo sciupio prodotto dal sistema di far correre l’acqua continuamente, e dal gran tempo che i Romani dedicavano ai bagni. Era il loro trattenimento favorito; sotto l’Impero sorsero non meno di sei grandi stabilimenti, in uno dei quali, le Terme di Diocleziano, potevano bagnarsi duemila, e forse più, persone alla volta.
E fin qui non abbiamo parlato che di Roma. Ma, oltre Roma, si calcola che esistano ancora nel mondo le rovine di almeno duecento acquedotti romani.
Dall’Italia movendo a levante, troveremo poco in Grecia: ad Atene Adriano fece un acquedotto che presta servizio anche ai nostri giorni. Ma nell’Asia Minore le rovine sono numerosissime: le più notevoli sono quelle della più grande Antiochia, di Mitilene e di Metropoli. Antiochia, col suo ameno sobborgo di Dafne, era rinomata per l’abbondanza dell’acqua; vi si vedono ancora le rovine di un acquedotto, costituito d’un muro continuo, in basso, e in alto di archi su colonne: raggiunge l’altezza di oltre 6o metri, nei punti di maggior depressione del terreno. Altrettanto imponente è il ponte dell’acquedotto, cinque chilometri a nord-ovest di Mitilene, con le sue colonne massicce di marmo grigio e i tre ordini di arcate sovrapposte. Ricordiamo in Oriente anche gli acquedotti di Pergamo, Laodicea, Tralle, Smirne e Afrodisia.
Ma per quanto stupore ci destino tali avanzi fra lo squallore attuale dei luoghi, quelli dell’Africa settentrionale sono anche più meravigliosi. Presso Cartagine, per esempio, c’è la splendida linea d’archi dell’acquedotto di Zaguan, costruito da Adriano per recare acqua sorgiva dalle montagne tunisine al capoluogo della provincia africana. Gli archi si susseguono per chilometri e chilometri, inutili ora e abbandonati per le pianure di Oued-Milian e di Manuba. Sulle colline sotto il fianco nudo del monte Zaguan si vede ancora il serbatoio di pietra costruito con tutta la grazia dei templi antichi.
Cartagine non è che un esempio fra molti. Sotto la dominazione romana, l’Africa settentrionale ebbe numerose città fiorentissime; e molte dovevano far venire l’acqua da alture lontane trenta e più chilometri. L’opera degli archeologi francesi va rivelando le meraviglie di Timgad, Dugga, Lambessa e Tebessa: intorno a questi luoghi furon trovate rovine di acquedotti, fra cui sono notevoli: il viadotto con piloni massicci arrotondati, a Sbèitla; la graziosa arcata a tre piani, che traversa la valle di Cesarea (Cherchell); e il piccolo arco schiacciato, che supera quel precipizio desolato presso Khamissa.
Passando dall’Africa alla Spagna, e specialmente quella meridionale, arida e petrosa, troviamo acquedotti romani in gran numero. Un centinaio ne contava uno storico dell’arte in Spagna, J. A. Ceàn Bermùdez, al principio del secolo scorso, fra maggiori e minori, tali comunque che i loro resti consentivano di riconoscerli per romani. Mérida e Tarragona conservano file di pilastri ed archi. Trentasette sono ancora in piedi nella prima, e sostengono a tratti tre serie di archi, e prendono sul posto il nome di «Los Milagros» (I Miracoli). A Segovia si trova uno dei lavori romani meglio conservati, un acquedotto chiamato «El Puente del Diablo a, costruito in realtà da Traiano, e che serve ancora egregiamente a portare in città, da sedici chilometri, l’acqua del Rio Frio, nella Sierra Guadarrama. E costruito con grandi massi granitici appena sgrossati, senza cemento, lungo 775 metri, largo due e mezzo, con arcate che vanno oltre i 30 metri.
In Francia troviamo nel Pont du Gard, presso Nimes, il più celebre rivale del Puente del Diablo. Fa parte di un acquedotto costruito probabilmente da Agrippa, intorno al 18 a. C., e il serbatoio in cui scaricava è stato scoperto dentro Nimes, presso la Tour Magne. Il Pont du Gard è lungo 274 metri, alto 48, e largo tre al piano più alto. Ha sei archi nell’ordine più basso, undici nel secondo, trentacinque nel terzo, ed è anch’esso costruito in grossi blocchi di pietra, senza cemento, tranne il canale in cima. Un ricordo merita ancora quello di Lione, che attraversa il Monte Pilato e le Valli della Garonna e di Sant’Ireneo. Il ponte su cui passa la strada non è che un’aggiunta medievale.
La tirannia dello spazio ci permette appena di nominare l’acquedotto di Jouy aux Arcbes, presso Metz, che si conserva in gran parte e consta di ben centoquattordici archi, e quello di Magonza. Cosi il nostro giro dell’Impero Romano è terminato.

F. A. Wright, L’acquedotto Romano

lunedì 23 marzo 2009

Non c’è attesa soltanto per il Lisippo La città rivuole anche il dio Mithra

Non c’è attesa soltanto per il Lisippo La città rivuole anche il dio Mithra
di MARCO GIOVENCO
Lunedì 21 Agosto 2006 Il Messaggero, Pesaro

FANO Il Comune di Marsala ha saputo conservare e valorizzare il “Satiro danzante”, bronzo di eccezionale pregio e di incalcolabile valore che ha fatto balzare la città alla ribalta del mondo quasi più dello sbarco dei Mille. Fano (incrociando le dita) potrebbe fin da ora preprare il terreno per accogliere, un domani, la statua del Lisippo. Decisivo il passo da parte dell'amministrazione comunale di costituirsi parte civile al processo sul traffico clandestino internazionale di oggetti d'arte che si sta celebrando a Roma. Del resto sono gli stessi atti del processo a confermare che è stata stroncata una sorta di “cupola” fatta di intrecci tra tombaroli, mercanti d'arte e personaggi di spicco dell'alta finanza.
I primi risultati non si sono fatti attendere: al Metropolitan museum di New York, per esempio, sotto la targhetta esplicativa del Vaso di Eufronio è riportata la dicitura “in prestito dallo Stato italiano”. Altri importanti musei americani, come quello di Boston o di Toledo, nell'Ohio, hanno contattato le autorità italiane per restituire altri pezzi di dubbia provenienza. Dagli Usa, di nuovo in Italia, a Fano, dove in questi ultimi anni si sta combattendo un'altra “crociata” legata all'arte: quella per il bassorilievo mitraico rinvenuto nel 1948, insieme ad altri reperti, nell'area dell'Episcopio di Fano. Dopo che, per decenni, se ne erano perse le tracce, si è scoperto che l'opera (una lastra di marmo di 75x45 centimetri) è custodita non visibile al pubblico nei depositi del museo archeologico di Ancona. Il professor Giuseppe Papagni, in collaborazione con altri studiosi fanesi, Archeoclub e assessorato alla cultura, ha intrapreso una battaglia per far tornare il bassorilievo a Fano (oltre alla statua della Fortuna), presso la sezione archeologica del museo civico dov’è stata allestita una parete per ospitare l'opera. «Prosegue la raccolta di firme per sollecitare la Soprintendenza e il museo di Ancona a riportare il manufatto a Fano - spiega Papagni - e mi auguro che arrivi al più presto una risposta positiva». Il bassorilievo è importante dal punto di vista storico e archeologico perché testimonia che anticamente, a Fano, era praticata una “religione di stato” con il culto del dio Sole (Mithra).

Eur, strada romana sotto la "torre"

Eur, strada romana sotto la "torre"
PAOLO BOCCACCI
29/08/2006, La Repubblica, Roma

Nell'area di Castellaccio, a poche centinaia di metri dal Fungo, dove si sta realizzando un nuovo insediamento di case e uffici

I resti affiorati nella piazza dove sorgerà il "grattacielo " di Purini

UN'ANTICA strada romana sui terreni a destra della Colombo, dove la via corre, dopo il Fungo, verso Ostia. Sessanta metri di basolato corroso dal passare dei carri, e, vicino, le testate di un ponte che oltrepassava un fosso. I resti sono stati portati alla luce durante la costruzione dei parcheggi del mega-centro commerciale di Castellaccio, in una grande piazza, più ampia di piazza Navona, dove si affacceranno anche il nuovo ministero della Sanità, già in costruzione, ma soprattutto Eurosky, un grattacielo di 120 metri di altezza. A firmare la bianca "torre" per abitazioni è Franco Purini, uno degli architetti italiani di fama mondiale, che sarà anche protagonista del disegno dell'intero insediamento, battezzato Euro-parco, sugli ettari dei costruttori Parnasi.
«La strada romana» spiega Purini «è affiorata proprio al centro della futura grandissima piazza. Ed ora il progetto di questo spazio sarà arricchito dalla sua presenza, che cercheremo di valorizzare insieme ai resti dell'antico ponte. Una cosa è certa: saranno sicuramente visibili e godibili. Per un progettista scoperte simili, come è successo a Renzo Piano durante i lavori per l'Auditorium, sono una fonte di spunti e di possibilità. L'archeologia è un elemento che conferisce più poesia ad un luogo».
Europarco è un "business park" e consiste anche in un'altra "torre", anch'essa alta 120 metri, ma questa volta per uffici. Ci saranno poi parcheggi multipiano e soprattutto la piazza e la torre disegnate da Purini. «L'edificio» dice l'architetto, che sarà affiancato nella progettazione dallo studio Transit e da Maurizio Marcelloni «sarà formato da due corpi legati da ponti e in cima avrà f approdo per gli elicotteri e pannelli solari che forniranno l'energia. Non solo: si prevederà anche il riutilizzo delle acque piovane».
La piazza sarà arricchita da fontane, padiglioni, ristoranti, bar e sculture. «La tipologia di spazi di questo tipo» conclude Purini «è un'invenzione italiana. Basta pensare a quelli della pittura Metafisica. Ora con l'archeologia diventerà anche più bella».

Belve, elefanti e gladiatori Così gli scavi «scoprono» l'Arena del passato

Belve, elefanti e gladiatori Così gli scavi «scoprono» l'Arena del passato
Camilla Bertoni
Corriere del Veneto 22/03/2009

VERONA — Ciò che gli scavi stanno mettendo in luce nei sotterranei dell'Arena di Verona, con la liberazione dai detriti dei cunicoli sotterranei e del pozzo, aprirà a nuove conoscenze. Se fosse confermata l'origine romana del pozzo situato al centro della cavea dell'Arena, del quale era già nota l'esistenza fin dal '500 ma che si pensava medievale, ciò renderebbe il nostro anfiteatro- uno dei maggiori esistenti, concepito nei primi decenni del I secolo, dunque prima del Colosseo di Roma- un unicum. A spiegarlo è Patrizia Basso, docente di storia e di antichità romane all'Università di Verona, autrice di un ampio studio sull'utilizzo degli anfiteatri romani. «Il sistema di cunicoli a cui oggi si lavora per il ripristino - spiega - costituivano un sistema di scolo delle acque piovane. L'acqua inoltre serviva per ripulire i piani sotterranei dove si raccoglievano gli animali e gli uomini che poi venivano portati in scena con un sistema ad effetto di saliscendi». Quali erano gli spettacoli che vi avevano luogo? «Gli spettacoli di cacce tra uomini e belve risalgono al III secolo a.C. in seguito ad un vittoria africana per cui si conduce a Roma un gran numero di elefanti. È successiva invece, del I secolo a.C., l'idea di costruire edifici appositi perché tali cacce potessero andare in scena. Vi venivano impiegati anche condannati a morte privi di strumenti di difesa». Quali altri spettacoli esistevano? «Escludendo le battaglie navali, che molto più probabilmente avevano luogo in Adige o comunque sui fiumi, salvo forse qualche raro caso nel Colosseo, si facevano combattere gli animali tra loro o anche gli uomini tra loro, suddivisi per categorie di peso e tipologie di armatura. Si perdeva per morte o per arresa, nel qual caso il pubblico decretava se concedere o no la grazia al perdente. Rispetto agli spettacoli teatrali, alle commedie, più elitarie, gli spettacoli in anfiteatro che attiravano le folle erano truci e sanguinosi. Ma erano talmente amati da prevedere anche figure di sponsor (le spese per organizzarli erano molto elevate), privati facoltosi che attraverso questo strumento si facevano pubblicità magari ai fini della carriera politica». Come venne utilizzata nei secoli successivi l'Arena? «Da quando viene inserito nella cinta muraria comunale, il monumento viene sempre sentito come qualcosa da conservare e utilizzare. Se l'interno viene spogliato dei gradoni (utilizzati come materiale edilizio insieme alle pietre dell'anello esterno crollato ancora prima del famoso tremendo terremoto del 1117), l'esterno viene visto come luogo abitativo e dal 1200 fino al 1500 ospita le prostitute. Solo dal XIX secolo i "covali" o "arcovali" (nome di origine medievale) saranno destinati alle attività commerciali e artigianali». Se il pozzo in Arena fosse romano a cosa poteva servire e quali nuovi elementi di conoscenza potrebbe aggiungere? «Sarebbe un caso unico a quanto è a mia conoscenza. Escluderei comunque gli allagamenti che sono accertati solo in tarda età, verso IV o V secolo, in molti teatri dove si diffonde la moda di spettacoli in acqua con partecipazione di donne in costumi succinti, cosa che scatena le reazioni avverse dei padri della chiesa, critici sia nei confronti dell'atrocitas degli spettacoli di lotta che dell'impudicizia di questa nuova moda che coinvolgeva per la prima volta attrici femminili. Attendiamo comunque gli esiti degli accertamenti in corso: era tempo che si riprendesse a lavorare su un edificio romano di così grande importanza e finora così poco studiato».

domenica 22 marzo 2009

Sotto l’Arena un pozzo romano

Sotto l’Arena un pozzo romano
Sabato 21 Marzo 2009 CRONACA Pagina 17 L'ARENA

ARCHEOLOGIA. Ritrovato nei lavori di manutenzione dei cunicoli sotterranei sotto la cavea, è stato ripulito fino a una profondità di otto metri riservando sorprese

Vittorio Di Dio, assessore ai Lavori pubblici, sogna un percorso museale nella vasta rete dei sotterranei di Verona

La Verona sotterranea, quella che sta pochi metri sotto l’attuale livello di superficie, continua a riservare sorprese. L’ultima viene dal monumento più maestoso e importante della città, l’anfiteatro romano. Nel corso dei lavori sotto la cavea dell’Arena, infatti, è emerso un grande pozzo, di un paio di metri di diametro e che al termine delle operazioni di ripulitura è risultato profondo circa una decina di metri. Si tratta probabilmente del pozzo di raccolta delle acque piovane all’interno del monumentale anfiteatro e potrebbe essere stato realizzato dagli stessi romani all’epoca della sua costruzione, ossia nel primo secolo dopo Cristo, forse - secondo alcuni studi - negli stessi anni in cui Gesù in Palestina iniziava la sua predicazione.
Della presenza di un tombino o della bocca di un pozzo in quel punto c’è traccia nelle fotografie dell’interno dell’Arena della seconda metà dell’Ottocento. In uno degli scatti più celebri di Moritz Lotze, il grande fotografo di origini tedesche che creò l’immagine fotografica di Verona e di cui quest’anno ricorre nella dimenticanza quasi generale il secondo centenario della nascita (concomitante con il centenario della morte del figlio Riccardo, che continuò l’attività paterna sino a inizio Novecento), si può notare (come si vede cerchiato nella foto qui accanto, ndr), la forma quadrata di un pozzetto, che è esattamente sopra il punto in cui è stato trovato il pozzo. La ripresa è sicuramente attribuibile a Lotze senior e per l’abbigliamento dei due personaggi che vi compaiono è precedente all’unificazione con l’Italia, avvenuta nell’ottobre 1866.
Questo manufatto compare nelle fotografie d’epoca almeno sino alla fine degli anni ’80 del XIX secolo. Scompare infatti nelle riprese dell’interno dell’anfiteatro fatte dagli Alinari e da Giacomo Brogi nelle loro campagne fotografiche degli anni ’90. In mezzo c’è stata la grande alluvione del settembre 1882, che riempì d’acqua l’intera piazza e ovviamente anche l’Arena, che si trova a un livello più basso. La conferma che nel frattempo c’erano stati dei lavori la si ha proprio in un camminamento bordeggiato di mattoni a due passi dal pozzo ritrovato, su uno dei quali è riportata la data 1889.
«Il ritrovamento», dice l’assessore ai Lavori pubblici Vittorio Di Dio, «è estremamente interessante. Il pozzo si trova si trova al centro di una rete di cunicoli sotterranei che dal cuore dell’Arena si spingono in varie direzioni, tanto verso piazza Bra, quanto verso piazzetta Scale Rubiani, giungendo, almeno nei tracciati finora noti, perché non sono ancora stati esplorati tutti, sino all’altezza dell’imbocco di via Mazzini».
L’assessore non esita a manifestare un sogno che egli avrebbe riguardo proprio questa serie di corridoi e slarghi che percorrono il sottosuolo cittadino. «Se ci fossero i fondi», sostiene, «si potrebbe pensare alla creazione di un museo sotterraneo della città, offrendo così ai turisti, che già vengono per visitare l’Arena, una nuova opportunità».
Verona è unica anche per questo e non mancano punti in cui i livelli romani della città sono stati portati alla luce, come a Porta Leoni o via Dante. Mentre negli scantinati di alcuni ristoranti del centro, come il 12 Apostoli o il Maffei, si possono visitare i basamenti dell’antico Campidoglio, o addirittura prenotare cene romantiche a due in mezzo a essi.
«Di comune accordo con la sovrintendenza ai Beni archeologici», conclude Di Dio, «i tecnici comunali hanno prelevato alcuni mattoni per sottoporli a un’indagine con la tecnica della termoluminescenza, utilizzata in archeologia per la datazione dei reperti. Ne sapremo presto di più».

giovedì 19 marzo 2009

Due donne romane: immagini del matrimonio antico

Marcello Salvadore
Due donne romane: immagini del matrimonio antico
Sellerio, Palermo, 1990
Le donne del titolo sono Marcia e Porcia, rispettivamente moglie e figlia di Catone Uticense, e sono ambedue esempi tanto significativi quanto marginali di certi aspetti della storia e della cultura romana. Di entrambe sappiamo poco altro rispetto a quanto è discusso in queste pagine: la prima, figlia di console, alcuni anni dopo il matrimonio con l’Uticense, fu da questo prestata all’amico Ortensio, che desiderava figli da una donna della famiglia di Catone: figura silenziosa, ella si trova coinvolta nella vicenda che la riguarda. Dell’altra fu lodata dagli antichi la fedeltà e fu presentata all’immaginario come caso esemplare di affetto coniugale, suicida per non sopravvivere al marito. Se da una parte è credibile la storia della cessione di Marcia — mi sembrerebbe altrimenti favola troppo ben costruita —, il modo della morte dell’altra forse non è altrettanto vero; tuttavia ciò poco importa: o per meriti suoi o per essere figlia di Catone o, ancora, per essere stata moglie di Bruto se ne costruì, anche attraverso un falso palese — la sua verginità al momento delle nozze con il cesaricida —, una immagine in parte irreale ma comunque sincera di un modo eroico di vivere.
In queste pagine mi sono occupato di diritto matrimoniale in quanto ciò si è reso inevitabile nell’esame del singolare passaggio della prima delle due donne da Catone ad Ortensio; le osservazioni che seguono si riferiscono comunque ad aspetti particolari del fidanzamento e del matrimonio romani.
(…)
Dalla premessa

IL PANTHEON

IL PANTHEON

Al centro del Campo Marzio a Roma venne costruito nel 27-25 a. C., da Agrippa, come riferisce l’iscrizione incisa sul fregio del pronao.
L’edificio fu più volte preda delle fiamme e quello attuale risale all’epoca di Adriano, al 120 d. C. Il vecchio Spurina aveva disposto tutte le ore del suo tempo — l’informazione è del Bettini — in accordo col sole, facendole succedere in una serie costante e per così dire circolare.
Traducendo questa forma ideale del tempo umano nelle strutture dell’arte, avremo il Pantheon: questa forma che è sì di spazio, ma definita dal « continuum », senza principio né fine, senza limiti predisposti, di superfici circolari — le pareti, i cassettoni a somiglianza delle screziature poligonali della corteccia d’un vetusto pino, la cupola — che sembrano ruotare « ad inflnitum », intorno al punto centrale del soggetto, dell’uomo che sta dentro questo spazio .
E al centro della cupola è il lucernario, dal quale irrompe la luce del giorno: una luce che non è inclusa nella figura, come in Grecia, ma viene dall’infinito: è insieme naturale e divina: è anch’essa epifania del tempus: la continuità circolare dello spazio, che è pure tempo, dei cieli, accordato al tempo dell’uomo come esistenza e come destino.
La sua pianta è un cerchio perfetto ed un cerchio perfetto, dello stesso diametro (cm 4430), si può idealmente iscrivere dentro l’aula, la cui metà superiore costituisce l’intradosso della cupola.
L’unità poi tra la pianta e l’alzato e la disposizione delle nicchie che allargano la superficie spaziale della parete sfuggente senza accentuazioni eccessive, evidenzia una razionalità ordinata di misure ed una universalità di pensiero che sono alla base della funzionalità stessa dell’edificio.
Infatti leggiamo in Plinio che il Pantheon fu dedicato a Marte e Venere, antenati divinizzati dei Giulii. Il suo asse orientato a 175°,
ricorda l’apparizione d’una cometa in questo settore di cielo alla nascita di Cesare ed inoltre quest’asse corrisponde al sorgere del sole il 1° d’aprile, giorno della festa di Venere, dea madre dei Giuli, e il 16 settembre, giorno dei Ludi romani ~
Il tempio è diviso in 16 zone; la cupola è formata di ventotto spicchi, numero astrologico composto di sette pianeti, moltiplicando poi per quattro. Dal centro alla sommità piove la luce come nel tempio di Sebadio in Tracia, secondo quanto scrive Alessandro Poliistore (I secolo a. C.): era stato costruito sui colle Zilmisso un tempio (a Sebadio) di forma rotonda con il tetto forato al centro. La rotondità richiama la forma di questo astro (il Sole) e la luce entra dalla sommità del tetto affinché sia chiaro che il Sole illumina ogni cosa dall’alto del cielo mediante immissione di luce e perché tutto diventa visibile al suo sorgere.
La cupola del Pantheon è chiaramente un simbolo uranico, il più ricco dell’antichità pagana – quanto sarà quello della cupola di S. Sofia di epoca giustinianea per l’antichità cristiana che trova nel Pantheon il suo precedente.

F. Passuello – M. G. Disegna
I Mausole imperiali romani
Templi del Sole
La Rotonda di Tessalonica
Le Monnier, Firenze, 1976
Pagine 64,65,66

IL COLOSSEO, TEMPIO DEL SOLE

IL COLOSSEO, TEMPIO DEL SOLE

Secondo quanto riferisce il Hautcoeur anche il Colosseo sarebbe stato un tempio del Sole. Costruito da Vespasiano nel 75 d. C. nella valle tra il Palatino, l’Esquilino e il Celio, sull’area della Domus Aurea, è caricato di simbologia cosmica dai « Mirabilia Romae ».
L’arena infatti misura 365 piedi, numero uguale a quello dei giorni dell’anno.
Inoltre il perimetro della Roma dei Flavi conterrebbe 36 volte, numero corrispondente ai « decani », la misura dell’arena.
Su alcune monete di Vespasiano è raffigurata la Tyche che porta la Vittoria, dea invocata da Tiridate e che personificava il Hvarena Mazdeo: in tutto questo c’è almeno una sfumatura di astrologia.

I “concilia piebis”

I “concilia piebis”

I concilia piebis sono una assemblea distinta dai comizi tributi: essi rappresentano l’assemblea propria della plebe nata al tempo delle secessioni. Sebbene i plebei siano stati ammessi ai comizi centuriati o tributi, i patrizi non furono mai ammessi ai concilia piebis.
I concilia piebis eleggono i tribuni e gli edili della plebe. Essi votano i plebisciti, che, in origine vincolavano i soli plebei, ma, dopo la lex Hortensia (287 a.Cr.), furono assimilati alle leggi: cioè patrizi e plebei dovevano sottomettersi alle prescrizioni dei plebisciti

I comizi curiati

I comizi curiati

La loro origine risale al tempo dei re: esistono in tempo repubblicano, ma non esercitano alcuna funzione politica importante. I cittadini li disertano e vi si fanno sostituire da trenta littori. I comizi curiati votano la lex curiata de imperio che conferisce l’imperium ai magistrati superiori eletti dai comizi centuriati: questo voto è solo una formalità. Essi conservano funzioni religiose poiché vengono convocati, sotto la presidenza del pontifex maximus, per procedere all’inauguratio del rex sacrorum e dei flamini maggiori. Sono competenti per l’approvazione del testamentum comiziale, che ben presto cade in disuso. Autorizzano l’adrogatio perché questa adozione, trasferendo una persona sotto la patria potestas di un altro capo di famiglia, porta alla sparizione di una famiglia e dei suoi sacra.

Istituzioni Romane: la Pretura

Istituzioni Romane: la Pretura

La tradizione romana fa risalire alle leggi Licinie (367 a. Cr.) l’istituzione del pretore, cioè di un magistrato giudiziario, incaricato specialmente dell’organizzazione dei processi. Già dal 337 a. Cr. un plebeo ebbe accesso a questa carica. Il pretore è collega minor dei consoli, pur avendo l’imperium dei consoli. La sua specifica competenza è ius dicere inter cives Romanos: è il praetor urbanus. La moltiplicazione degli affari, l’affluenza di stranieri a Roma portò, nel 242 a. Cr., a creare un secondo pretore, incaricato di esercitare a Roma la giurisdizione inter cives et peregrinos, cioè tra cittadini e stranieri: egli fu chiamato impropriamente praetor pere grinus. Per l’amministrazione delle due prime province, la Sicilia e la Sardegna, si crearono nel 227 a. Cr. altri due pretori: questi pretori erano principalmente destinati ai processi civili in cui erano parte cittadini romani che non potevano essere rinviati a Roma né rimessi ai tribunali locali.
Il numero dei pretori oscillò spesso. Prima di Silla annualmente si elessero 6 pretori, dopo le sue riforme 8, con Cesare fino a 16, durante l’impero fino a 18, spesso però anche meno. Nella gerarchia la pretura occupa l’ultimo posto tra le magistrature supreme, ma precede tutte le cariche senza irnperium.
L’attività del pretore non si limita all’attività giudiziaria; egli ha, come i consoli, la possibilità di esercitare il comando militare, come avvenne spesso nel III e II sec, a. Cr. Detiene il ius agendi cum populo e può presiedere i comizi tributi per la nomina dei magistrati inferiori. Quando i consoli sono assenti da Roma, il praetor urbanus tiene la presidenza del senato e disimpegna le altre funzioni consolari. La creazione di nuove province fece crescere, come si è visto, il numero dei pretori: l’assegnazione veniva mediante sorteggio (sortitio provinciarum). I diritti onorifici del pretore sono, in generale, gli stessi che quelli del console: il pretore può giungere, come il console, al trionfo e partecipa, almeno originariamente e per poco tempo, all’eponimia. Ha diritto a 6 littori, alla sella curulis, alla toga praetexta.

mercoledì 18 marzo 2009

Napoli — Ercolano, ritrovata lastra marmorea del primo secolo a.C.

Napoli — Ercolano, ritrovata lastra marmorea del primo secolo a.C.
Corriere del Mezzogiorno - SALERNO - 2009-03-18

Il nuovo rilievo marmoreo con scene dionisiache, venuto alla luce a Ercolano in una villa dell'insula nord-occidentale lo scorso 18 febbraio, è già un caso. Perché la preziosa lastra di stile neoattico e di fattura campana, risalente al primo secolo a. C., presenta tratti iconografici inconsueti, tutti ancora da decifrare. «Per questo abbiamo voluto mostrarlo al più presto — ha spiegato la dottoressa Maria Paola Guidobaldi, direttore degli Scavi di Ercolano, nel corso della presentazione di ieri al Museo Archeologico Nazionale di Napoli — proprio nella speranza che i vari esperti di iconografie sacre greco-romane possano aiutarci a cogliere meglio il senso dell'intera composizione».
Perché se sulla matrice dionisiaca dell'immagine non sembrano esserci dubbi, per le due figure poste agli estremi (una menade danzante a destra e quella di una statua di Dioniso a sinistra, raffigurato alla greca con barba e su un piedistallo mentre porge un kantharus) piuttosto misteriose appaiono le altre tre. «Si tratta — spiega ancora la Guidobaldi — di un'anziana sagoma, probabilmente lo stesso Dioniso, anche se in abiti e fattezze del tutto inconsuete, e di due giovani vestiti in maniera femminile, volti ambigui, androgini, di cui sarebbe interessante accertare la vera sessualità: uomini travestiti per i baccanali o piuttosto donne dai tratti virili?».
L'interrogativo non si ferma qui. Una di queste due figure impugna infatti un attrezzo, probabilmente un martello, anche se stranamente appuntito nella coda di legno, con il quale tocca il vaso di Dioniso.
Un riferimento sessuale? Un contatto di energie allusive ai fondamenti del rito o cos'altro? In attesa di saperne di più, intanto, il pubblico potrà apprezzare il notevole manufatto fino al 13 aprile all'interno della mostra "Ercolano. Tre secoli di scoperte" al Museo Nazionale. Un'opera che dovrebbe poi essere restituita al sito originario dell'Antiquarium. «Questo ritrovamento — ha commentato il sovrintendente Guzzo — è stato reso possibile dal lavoro degli assistenti tecnico-scientifici del laboratorio di restauro Antonio Rinaldi, Giuseppe Farella e Antonio Russo, coordinati e diretti dal restauratore conservatore Giuseppe Zolfo, e sono la prova di una straordinaria vitalità ed efficienza contrapposta alle difficoltà gestionali culminate con due nomine commissariali».
Stefano de Stefano

martedì 17 marzo 2009

Spunta nel porto una nave romana

Spunta nel porto una nave romana
La Stampa, 1 settembre 2006

Il relitto di una nave romana che trasportava anfore presumibilmente risalente al periodo tra il primo secolo aC. e il primo dC., è stato scoperto a una sessantina di metri al largo del porto di Aregai, a Santo Stefano al mare (Imperia) da due istruttori sub. La nave, lunga una trentina di metri e larga 10, trasportava con ogni probabilità anfore deltipo "Dressel 1A", alte 110 centimetri, utilizzate per il trasporto di vino. Si stima che la nave ne trasportasse circa 3.500.

Un tesoro dì anfore romane scoperto negli abissi di Imperia

Un tesoro dì anfore romane scoperto negli abissi di Imperia
03-SET-2006, Il Secolo XIX

Archeologia subacquea in Liguria: un nuovo relitto romano riaffiora dalla sabbia. E' trascorso già qualche giorno dalla scoperta. Ma Davide Mottola e Luigi Borghi, rispettivamente titolare e collaboratore del Nautilus technical divine center di Marina degli Aregai dì Imperia, non nascondono l'emozione nel ripercorrere quell'indimenticabile esperienza del 25 agosto.
«Eravamo impegnati a cercare dei nuovi punti dii immersione per i nostri amici e clienti subacquei, ma invece di scoprire pareti e secche ricche di vita marina ci siamo imbattuti in quello che, con lo scandaglio dalla barca, a noi pareva uno scoglio - raccontano i due sub -Abbiamo indossato le apparecchiature e ci siamo immersi, intenzionati ad andare a far visita a quello che aveva attirato la nostra attenzione. Soltanto quando siamo giunti a una decina di metri dal fondo abbiamo capito che quella macchia scura che contrastava con la sabbia e il limo, non era roccia, ma una distesa di anfore». Una pausa e Mottola e Borghi riprendono: «Eravamo di fronte ad un nuovo tesoro, che il mare ha custodito per duemila anni. Un tesoro sconosciuto. L'emozione provata resta indescrivibile. Prima di noi, questo carico aveva conosciuto la mano dell'uomo in epoca romana, poi nulla più. Fino al nostro arrivo».
L'emozione è autentica. Gli occhi di Davide luccicano ancora di gioia. Come il relitto romano appena scoperto anche i due sub entrano a pieno titolo nella storia dell'archeologia ligure e nazionale, perché d'ora in avanti i loro nomi si legano al reperto in modo indissolubile. Ma il cammino da fare è ancora lungo e quello del rinvenimento, a cui è succeduta l'immediata segnalazione alle Fiamme Gialle di Imperia, che hanno fatto la segnalazione alla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria, è solo l'inizio. Ora ci saranno indagini e rilievi fotografici per avere informazioni dettagliate e dare il via ai primi recuperi, uno dei quali è già avvenuto davanti alla troupe di Linea Blu.
Dai primi e sommari sopralluoghi si è potuto stabilire che la causa dell'affondamento dell'antico mercantile possa imputarsi con molta probabilità a una burrasca e al relativo sbilanciamento del carico, dato che a una simile distanza dalla costa non si trova alcuna roccia semi -affiorante contro la quale lo scafo avrebbe potuto urtare. Spiega G.P. Martino, direttore del Nucleo organico archeologia subacquea della Soprintendenza di Genova: «Per la posizione dello scafo che probabilmente si trova insabbiato sotto il cumulo di anfore e la loro disposizione concentrate tutte in un sol punto, possiamo supporre che il mercantile abbia imbarcato acqua e sia colato a picco mantenendo la posizione di navigazione. Se lo scalo si fosse rovesciato, i reperti si sarebbero sparpagliati ricoprendo un'area più vasta».
Adriano Perico