Asclepio a Roma
Una «pestilenza» che infuriava durante la terza guerra Sannitica indusse i Romani a consultare i Libri Sibillini: il responso suggeri loro di far venire Asclepio da Epidauro (Livio, X, 47, 7). Anche Ovidio riferisce la vicenda della trasmigrazione del dio, descrivendola in tono solenne (Metamorfosi, XV, 622 e ss.): l’ambasceria romana, guidata da Q. Ogulnio, si rivolse dapprima all’oracolo di Delfi, che, biasimando tale esitazione, rinviò la delegazione a Epidauro; qui gli anziani della città apparvero riluttanti a inviare il loro dio in una terra straniera; ma fu lo stesso Asclepio a voler precederli nella scelta; in forma di un possente serpente egli lasciò il tempio e salì a bordo della nave romana che era venuta a prenderlo. La vicenda fa chiaramente riferimento all’Asklepieion, ma Ovidio incentra la narrazione sulla città di Epidauro, forse per risparmiare al serpente sacro una poco decorosa “camminata” attraverso la penisola argiva. La spontaneità costituiva un momento importante nei casi di trasmigrazione del culto.
Nel corso del viaggio di ritorno la delegazione compì ancora una breve sosta al tempio di Apollo ad Anzio, risalendo poi per nave il Tevere; all’altezza dell’isola Tiberina il serpente scivolò fuori bordo, raggiungendo poi a nuoto l’isola che aveva prescelto a sede del proprio santuario. Nei primi giorni fu una palma (sacra ad Apollo, il padre di Asclepio secondo il mito) ad ospitare il serpente; quanto alla pestilenza, si estinse immediatamente.
Il santuario fu edificato nella parte meridionale dell’isola, la cui estremità, affinché si conservasse il ricordo della storia del trasferimento del dio, venne successivamente trasformata in modo da assumere la forma della prora di una nave, decorata con la testa di Esculapio e con il bastone sul quale si avvolgeva il serpente. L’unica traccia rimasta di quegli edifici consiste nella tradizione secondo cui nella chiesa di San Bartolomeo, ubicata nel medesimo luogo, si curavano gli ammalati e gli appestati. Cionondimeno il culto si radicò profondamente, tanto è vero che dal letto del Tevere intorno all’isola è stato recuperato un gran numero di ex voto anatomici e di iscrizioni votive (…), che stanno a testimoniare come anche in quel luogo Asclepio prestasse soccorso agli ammalati e ai sofferenti. Alcuni elementi caratteristici dei culti italici si riversarono nella forma delle offerte votive, che spesso riproducono organi interni del corpo umano. In epoca imperiale i Romani più abbienti si liberavano dei loro schiavi malati inviandoli sull’isola, con la scusa di affidarli alla cura del dio; poiché questa esposizione equivaleva a un tentativo di omicidio, l’imperatore Claudio dispose che in tal caso essi dovessero essere considerati liberi (Svetonio, Claudio, 25).
Antje Krug, Medicina nel mondo classico, Giunti, Firenze, 1990, pp. 172-173
Una «pestilenza» che infuriava durante la terza guerra Sannitica indusse i Romani a consultare i Libri Sibillini: il responso suggeri loro di far venire Asclepio da Epidauro (Livio, X, 47, 7). Anche Ovidio riferisce la vicenda della trasmigrazione del dio, descrivendola in tono solenne (Metamorfosi, XV, 622 e ss.): l’ambasceria romana, guidata da Q. Ogulnio, si rivolse dapprima all’oracolo di Delfi, che, biasimando tale esitazione, rinviò la delegazione a Epidauro; qui gli anziani della città apparvero riluttanti a inviare il loro dio in una terra straniera; ma fu lo stesso Asclepio a voler precederli nella scelta; in forma di un possente serpente egli lasciò il tempio e salì a bordo della nave romana che era venuta a prenderlo. La vicenda fa chiaramente riferimento all’Asklepieion, ma Ovidio incentra la narrazione sulla città di Epidauro, forse per risparmiare al serpente sacro una poco decorosa “camminata” attraverso la penisola argiva. La spontaneità costituiva un momento importante nei casi di trasmigrazione del culto.
Nel corso del viaggio di ritorno la delegazione compì ancora una breve sosta al tempio di Apollo ad Anzio, risalendo poi per nave il Tevere; all’altezza dell’isola Tiberina il serpente scivolò fuori bordo, raggiungendo poi a nuoto l’isola che aveva prescelto a sede del proprio santuario. Nei primi giorni fu una palma (sacra ad Apollo, il padre di Asclepio secondo il mito) ad ospitare il serpente; quanto alla pestilenza, si estinse immediatamente.
Il santuario fu edificato nella parte meridionale dell’isola, la cui estremità, affinché si conservasse il ricordo della storia del trasferimento del dio, venne successivamente trasformata in modo da assumere la forma della prora di una nave, decorata con la testa di Esculapio e con il bastone sul quale si avvolgeva il serpente. L’unica traccia rimasta di quegli edifici consiste nella tradizione secondo cui nella chiesa di San Bartolomeo, ubicata nel medesimo luogo, si curavano gli ammalati e gli appestati. Cionondimeno il culto si radicò profondamente, tanto è vero che dal letto del Tevere intorno all’isola è stato recuperato un gran numero di ex voto anatomici e di iscrizioni votive (…), che stanno a testimoniare come anche in quel luogo Asclepio prestasse soccorso agli ammalati e ai sofferenti. Alcuni elementi caratteristici dei culti italici si riversarono nella forma delle offerte votive, che spesso riproducono organi interni del corpo umano. In epoca imperiale i Romani più abbienti si liberavano dei loro schiavi malati inviandoli sull’isola, con la scusa di affidarli alla cura del dio; poiché questa esposizione equivaleva a un tentativo di omicidio, l’imperatore Claudio dispose che in tal caso essi dovessero essere considerati liberi (Svetonio, Claudio, 25).
Antje Krug, Medicina nel mondo classico, Giunti, Firenze, 1990, pp. 172-173