L’Acquedotto Romano
Ma l’acquedotto quale lo concepiamo noi è un’invenzione romana ed ebbe origine da vari fattori; primo dei quali forse la passione pura e semplice di costruire, che fu uno degli elementi più caratteristici dell’indole romana. Vi contribui in secondo luogo la grande invenzione dell’arco, che rese possibili le lunghe catene per sostenere le condutture.
Alcuni hanno avanzato la supposizione che i Romani preferissero il sistema ad archi a quello della tubatura o condotta sotterranea, perché ignoravano la legge dei vasi comunicanti. Essi erano invece effettivamente ottimi idraulici; sia Vitruvio sia Frontino mostrarono di conoscere benissimo quasi tutte le risorse dell’idraulica moderna. La ragione per cui preferirono quasi sempre il sistema ad archi è che avevano a disposizione in grande abbondanza e a buon mercato travertino, mattoni, cemento; tutti materiali di facile impiego. I tubi metallici sarebbero riusciti costosi e malsicuri. L’acciaio non l’avevano; la ghisa non sapevano lavorarla con facilità; il bronzo costava troppo. Il piombo, largamente usato nelle loro condotte urbane, non poteva servire per una tubolatura lunga, continua e di grande calibro. Ragioni di economia e di convenienza imposero quindi all’ingegneria dei Romani il sistema ad archi. E noi dobbiamo rallegrarcene, perché quelle lunghe file d’archi sono forse la cosa più bel] a che ci abbiano lasciato i Romani.
Dei nove acquedotti che servivano Roma al tempo della sua più grande prosperità, sotto Adriano, ci dà notizie complete Frontino nel suo trattato De aquis. Frontino, dopo aver lodevolmente governato la Britannia, fu nel 97 d. C. nominato da Adriano «curator aquarum »: perciò scrive di una materia di sua diretta competenza. Nei primi tempi di Roma, c’informa, la gente attingeva acqua dal Tevere, dai pozzi, dalle cisterne e da numerose sorgenti, come la Fonte delle Ninfe e la Fonte di Giuturna ai piedi dei Sette Colli, e nelle valli che li dividono. Il primo acquedotto, l’Appio, fu dovuto ad Appio Claudio, censore nel 312 a. C.; esso portava l’acqua da una sorgente distante circa dieci miglia a sud di Roma, e che esiste ancora in fondo a certe cave di pietra sulle rive dell’Aniene. Poco prima di entrare in citi, l’acquedotto attraversava, sopra una serie di archi, una depressione del terreno; ma per quasi tutto il suo percorso era sotterraneo, seguendo la strada. Sboccava in un grande serbatoio presso l’attuale Porta Maggiore, da cui l’acqua era distribuita in città.
L’acquedotto Appio era costruito sul sistema delle fogne; invece l’Anio Vetus » (272 a. C.) era un acquedotto vero e proprio, per quanto basso. Prendeva l’acqua da una delle valli montane del bacino dell’Aniene, a una quarantina di miglia da Roma, in un punto abilmente scelto per l’altezza. La condotta utilizzava l’elevazione dei luoghi circostanti. Seguiva l’attuale linea tranviaria di Tivoli, ed era fatta di grandi massi di pietra, uniti con cemento e intonacati internamente con un mastice speciale contenente polvere di cocci finemente macinati. Venne poi l’ Aqua Marcia » (146 a. C.), che fu il primo acquedotto su arcate elevate, e prendeva l’acqua sorgiva a circa 6o metri sul livello del mare. Costruito con massi appena sgrossati, lungo circa 58 miglia, era uno dei tre più famosi. Da Tivoli passava a Gallicano, superando le valli sugli archi, e le alture enrro gallerie, fino alla via Latina. Ivi cominciava una conduttura sotto il piano stradale; a sette miglia da Roma incominciavano gli archi, dei quali si vedono attualmente i resti presso Porta Furba. L’Acqua Marcia era distribuita a tre sezioni della città.
La «Tepula », condotta a Roma nel 1255 a. C. con un acquedotto di cemento, proveniva da certe sorgenti tiepide, di origine vulcanica, 1uesso Frascati. Nell’anno 33 a. C., Agrippa costruiva il nuovo acquedotto, dell’e Aqua Julia », traendola da certe sorgenti fredde più abbondanti, non lungi dalle precedenti. D’allora in poi, le due acque furono riunite. Procedevano insieme per parecchie miglia, e alfine entravano in Roma per due canali sovrastanti a quelli della Marcia, a Porta Tiburtina, scaricandosi in un serbatoio prossimo all’attuale Ministero delle Finanze. Quando Aureliano, nel 272 dell’èra nostra, inalzò in fretta la cinta delle mura che dovevano difendere la città, le arcate della Marcia, della Tepula e della Julia furono tutte e tre incorporate nella nuova struttura, come si può ancora oggi osservare.
Un altro acquedotto famoso, costruito al tempo d’Augusto, quello dell’Acqua Vergine (19 a. C.) — cosi detta, secondo la tradizione, perché fu appunto una giovinetta colei che primamente ne mostrò la fonte a certi militi romani assetati — partiva da certe sorgenti nei pressi di Salone, a circa otto miglia da Roma. Seguiva la stessa linea degli altri fino a mezzo miglio da Porta Maggiore; qui voltava a nord, passava sotto la via Salaria, entrava in città presso il Pincio, a nord di Piazza di Spagna. Era un acquedotto a basso livello; alimenta ancora la fontana della «Barcaccia » in Piazza di Spagna, e va alla celebre Fontana di Trevi. Ad Augusto era anche dovuta l’e Alsietina a (anno 2 dell’era cristiana), destinata a riempire per gli spettacoli di naumachie il grandioso circo che egli costrui sotto il Gianicolo. Proveniva da un lago a venti miglia da Roma, ed era di cattiva qualità. Vennero infine la e Claudia a, e l’e Anio Novus » (38 d. C.), le due maggiori opere romane in questo campo, che costarono fra tutte e due venticinque milioni di sesterzi. La Claudia nasceva da certe sorgenti prossime a quelle della Marcia, e traversava la Campagna sopra archi di pietra, sormontati da quelli di mattoni dell’Anio Novus a. Al giungere a Roma, presso Porta Maggiore, le due acque si mescolavano, ed erano condotte sugli archi neroniani, molti dei quali rimangono ancor oggi, al Celio, e si gettavano, con una grandiosa mostra d’acqua, nel lago che esisteva nella dimora imperiale, la «Domus Aurea » di Nerone, e precisamente nella valle dove sorse poi il Colosseo.
Questi nove acquedotti, completati dalla « Traiana e dall’« Alexandria a, di tempi posteriori a Frontino, si calcola che portassero a Roma oltre un milione e 8oo mila ettolitri d’acqua al giorno. I poveri attingevano alle fontane pubbliche; i ricchi avevano le condutture di piombo, impiantate a spese loro e con l’impronta del nome del possessore, che portavano loro l’acqua nelle case. C’era una categoria di schiavi della comunità, organizzata per la prima volta da Agrippa, per i servizi pubblici delle acque; un’altra era destinata al trasporto nelle case private. Calcolando una popolazione di circa un milione, ciascuno avrebbe avuto più di 180 litri d’acqua al giorno; cifra molto alta, ma non improbabile, se si considera lo sciupio prodotto dal sistema di far correre l’acqua continuamente, e dal gran tempo che i Romani dedicavano ai bagni. Era il loro trattenimento favorito; sotto l’Impero sorsero non meno di sei grandi stabilimenti, in uno dei quali, le Terme di Diocleziano, potevano bagnarsi duemila, e forse più, persone alla volta.
E fin qui non abbiamo parlato che di Roma. Ma, oltre Roma, si calcola che esistano ancora nel mondo le rovine di almeno duecento acquedotti romani.
Dall’Italia movendo a levante, troveremo poco in Grecia: ad Atene Adriano fece un acquedotto che presta servizio anche ai nostri giorni. Ma nell’Asia Minore le rovine sono numerosissime: le più notevoli sono quelle della più grande Antiochia, di Mitilene e di Metropoli. Antiochia, col suo ameno sobborgo di Dafne, era rinomata per l’abbondanza dell’acqua; vi si vedono ancora le rovine di un acquedotto, costituito d’un muro continuo, in basso, e in alto di archi su colonne: raggiunge l’altezza di oltre 6o metri, nei punti di maggior depressione del terreno. Altrettanto imponente è il ponte dell’acquedotto, cinque chilometri a nord-ovest di Mitilene, con le sue colonne massicce di marmo grigio e i tre ordini di arcate sovrapposte. Ricordiamo in Oriente anche gli acquedotti di Pergamo, Laodicea, Tralle, Smirne e Afrodisia.
Ma per quanto stupore ci destino tali avanzi fra lo squallore attuale dei luoghi, quelli dell’Africa settentrionale sono anche più meravigliosi. Presso Cartagine, per esempio, c’è la splendida linea d’archi dell’acquedotto di Zaguan, costruito da Adriano per recare acqua sorgiva dalle montagne tunisine al capoluogo della provincia africana. Gli archi si susseguono per chilometri e chilometri, inutili ora e abbandonati per le pianure di Oued-Milian e di Manuba. Sulle colline sotto il fianco nudo del monte Zaguan si vede ancora il serbatoio di pietra costruito con tutta la grazia dei templi antichi.
Cartagine non è che un esempio fra molti. Sotto la dominazione romana, l’Africa settentrionale ebbe numerose città fiorentissime; e molte dovevano far venire l’acqua da alture lontane trenta e più chilometri. L’opera degli archeologi francesi va rivelando le meraviglie di Timgad, Dugga, Lambessa e Tebessa: intorno a questi luoghi furon trovate rovine di acquedotti, fra cui sono notevoli: il viadotto con piloni massicci arrotondati, a Sbèitla; la graziosa arcata a tre piani, che traversa la valle di Cesarea (Cherchell); e il piccolo arco schiacciato, che supera quel precipizio desolato presso Khamissa.
Passando dall’Africa alla Spagna, e specialmente quella meridionale, arida e petrosa, troviamo acquedotti romani in gran numero. Un centinaio ne contava uno storico dell’arte in Spagna, J. A. Ceàn Bermùdez, al principio del secolo scorso, fra maggiori e minori, tali comunque che i loro resti consentivano di riconoscerli per romani. Mérida e Tarragona conservano file di pilastri ed archi. Trentasette sono ancora in piedi nella prima, e sostengono a tratti tre serie di archi, e prendono sul posto il nome di «Los Milagros» (I Miracoli). A Segovia si trova uno dei lavori romani meglio conservati, un acquedotto chiamato «El Puente del Diablo a, costruito in realtà da Traiano, e che serve ancora egregiamente a portare in città, da sedici chilometri, l’acqua del Rio Frio, nella Sierra Guadarrama. E costruito con grandi massi granitici appena sgrossati, senza cemento, lungo 775 metri, largo due e mezzo, con arcate che vanno oltre i 30 metri.
In Francia troviamo nel Pont du Gard, presso Nimes, il più celebre rivale del Puente del Diablo. Fa parte di un acquedotto costruito probabilmente da Agrippa, intorno al 18 a. C., e il serbatoio in cui scaricava è stato scoperto dentro Nimes, presso la Tour Magne. Il Pont du Gard è lungo 274 metri, alto 48, e largo tre al piano più alto. Ha sei archi nell’ordine più basso, undici nel secondo, trentacinque nel terzo, ed è anch’esso costruito in grossi blocchi di pietra, senza cemento, tranne il canale in cima. Un ricordo merita ancora quello di Lione, che attraversa il Monte Pilato e le Valli della Garonna e di Sant’Ireneo. Il ponte su cui passa la strada non è che un’aggiunta medievale.
La tirannia dello spazio ci permette appena di nominare l’acquedotto di Jouy aux Arcbes, presso Metz, che si conserva in gran parte e consta di ben centoquattordici archi, e quello di Magonza. Cosi il nostro giro dell’Impero Romano è terminato.
F. A. Wright, L’acquedotto Romano
Ma l’acquedotto quale lo concepiamo noi è un’invenzione romana ed ebbe origine da vari fattori; primo dei quali forse la passione pura e semplice di costruire, che fu uno degli elementi più caratteristici dell’indole romana. Vi contribui in secondo luogo la grande invenzione dell’arco, che rese possibili le lunghe catene per sostenere le condutture.
Alcuni hanno avanzato la supposizione che i Romani preferissero il sistema ad archi a quello della tubatura o condotta sotterranea, perché ignoravano la legge dei vasi comunicanti. Essi erano invece effettivamente ottimi idraulici; sia Vitruvio sia Frontino mostrarono di conoscere benissimo quasi tutte le risorse dell’idraulica moderna. La ragione per cui preferirono quasi sempre il sistema ad archi è che avevano a disposizione in grande abbondanza e a buon mercato travertino, mattoni, cemento; tutti materiali di facile impiego. I tubi metallici sarebbero riusciti costosi e malsicuri. L’acciaio non l’avevano; la ghisa non sapevano lavorarla con facilità; il bronzo costava troppo. Il piombo, largamente usato nelle loro condotte urbane, non poteva servire per una tubolatura lunga, continua e di grande calibro. Ragioni di economia e di convenienza imposero quindi all’ingegneria dei Romani il sistema ad archi. E noi dobbiamo rallegrarcene, perché quelle lunghe file d’archi sono forse la cosa più bel] a che ci abbiano lasciato i Romani.
Dei nove acquedotti che servivano Roma al tempo della sua più grande prosperità, sotto Adriano, ci dà notizie complete Frontino nel suo trattato De aquis. Frontino, dopo aver lodevolmente governato la Britannia, fu nel 97 d. C. nominato da Adriano «curator aquarum »: perciò scrive di una materia di sua diretta competenza. Nei primi tempi di Roma, c’informa, la gente attingeva acqua dal Tevere, dai pozzi, dalle cisterne e da numerose sorgenti, come la Fonte delle Ninfe e la Fonte di Giuturna ai piedi dei Sette Colli, e nelle valli che li dividono. Il primo acquedotto, l’Appio, fu dovuto ad Appio Claudio, censore nel 312 a. C.; esso portava l’acqua da una sorgente distante circa dieci miglia a sud di Roma, e che esiste ancora in fondo a certe cave di pietra sulle rive dell’Aniene. Poco prima di entrare in citi, l’acquedotto attraversava, sopra una serie di archi, una depressione del terreno; ma per quasi tutto il suo percorso era sotterraneo, seguendo la strada. Sboccava in un grande serbatoio presso l’attuale Porta Maggiore, da cui l’acqua era distribuita in città.
L’acquedotto Appio era costruito sul sistema delle fogne; invece l’Anio Vetus » (272 a. C.) era un acquedotto vero e proprio, per quanto basso. Prendeva l’acqua da una delle valli montane del bacino dell’Aniene, a una quarantina di miglia da Roma, in un punto abilmente scelto per l’altezza. La condotta utilizzava l’elevazione dei luoghi circostanti. Seguiva l’attuale linea tranviaria di Tivoli, ed era fatta di grandi massi di pietra, uniti con cemento e intonacati internamente con un mastice speciale contenente polvere di cocci finemente macinati. Venne poi l’ Aqua Marcia » (146 a. C.), che fu il primo acquedotto su arcate elevate, e prendeva l’acqua sorgiva a circa 6o metri sul livello del mare. Costruito con massi appena sgrossati, lungo circa 58 miglia, era uno dei tre più famosi. Da Tivoli passava a Gallicano, superando le valli sugli archi, e le alture enrro gallerie, fino alla via Latina. Ivi cominciava una conduttura sotto il piano stradale; a sette miglia da Roma incominciavano gli archi, dei quali si vedono attualmente i resti presso Porta Furba. L’Acqua Marcia era distribuita a tre sezioni della città.
La «Tepula », condotta a Roma nel 1255 a. C. con un acquedotto di cemento, proveniva da certe sorgenti tiepide, di origine vulcanica, 1uesso Frascati. Nell’anno 33 a. C., Agrippa costruiva il nuovo acquedotto, dell’e Aqua Julia », traendola da certe sorgenti fredde più abbondanti, non lungi dalle precedenti. D’allora in poi, le due acque furono riunite. Procedevano insieme per parecchie miglia, e alfine entravano in Roma per due canali sovrastanti a quelli della Marcia, a Porta Tiburtina, scaricandosi in un serbatoio prossimo all’attuale Ministero delle Finanze. Quando Aureliano, nel 272 dell’èra nostra, inalzò in fretta la cinta delle mura che dovevano difendere la città, le arcate della Marcia, della Tepula e della Julia furono tutte e tre incorporate nella nuova struttura, come si può ancora oggi osservare.
Un altro acquedotto famoso, costruito al tempo d’Augusto, quello dell’Acqua Vergine (19 a. C.) — cosi detta, secondo la tradizione, perché fu appunto una giovinetta colei che primamente ne mostrò la fonte a certi militi romani assetati — partiva da certe sorgenti nei pressi di Salone, a circa otto miglia da Roma. Seguiva la stessa linea degli altri fino a mezzo miglio da Porta Maggiore; qui voltava a nord, passava sotto la via Salaria, entrava in città presso il Pincio, a nord di Piazza di Spagna. Era un acquedotto a basso livello; alimenta ancora la fontana della «Barcaccia » in Piazza di Spagna, e va alla celebre Fontana di Trevi. Ad Augusto era anche dovuta l’e Alsietina a (anno 2 dell’era cristiana), destinata a riempire per gli spettacoli di naumachie il grandioso circo che egli costrui sotto il Gianicolo. Proveniva da un lago a venti miglia da Roma, ed era di cattiva qualità. Vennero infine la e Claudia a, e l’e Anio Novus » (38 d. C.), le due maggiori opere romane in questo campo, che costarono fra tutte e due venticinque milioni di sesterzi. La Claudia nasceva da certe sorgenti prossime a quelle della Marcia, e traversava la Campagna sopra archi di pietra, sormontati da quelli di mattoni dell’Anio Novus a. Al giungere a Roma, presso Porta Maggiore, le due acque si mescolavano, ed erano condotte sugli archi neroniani, molti dei quali rimangono ancor oggi, al Celio, e si gettavano, con una grandiosa mostra d’acqua, nel lago che esisteva nella dimora imperiale, la «Domus Aurea » di Nerone, e precisamente nella valle dove sorse poi il Colosseo.
Questi nove acquedotti, completati dalla « Traiana e dall’« Alexandria a, di tempi posteriori a Frontino, si calcola che portassero a Roma oltre un milione e 8oo mila ettolitri d’acqua al giorno. I poveri attingevano alle fontane pubbliche; i ricchi avevano le condutture di piombo, impiantate a spese loro e con l’impronta del nome del possessore, che portavano loro l’acqua nelle case. C’era una categoria di schiavi della comunità, organizzata per la prima volta da Agrippa, per i servizi pubblici delle acque; un’altra era destinata al trasporto nelle case private. Calcolando una popolazione di circa un milione, ciascuno avrebbe avuto più di 180 litri d’acqua al giorno; cifra molto alta, ma non improbabile, se si considera lo sciupio prodotto dal sistema di far correre l’acqua continuamente, e dal gran tempo che i Romani dedicavano ai bagni. Era il loro trattenimento favorito; sotto l’Impero sorsero non meno di sei grandi stabilimenti, in uno dei quali, le Terme di Diocleziano, potevano bagnarsi duemila, e forse più, persone alla volta.
E fin qui non abbiamo parlato che di Roma. Ma, oltre Roma, si calcola che esistano ancora nel mondo le rovine di almeno duecento acquedotti romani.
Dall’Italia movendo a levante, troveremo poco in Grecia: ad Atene Adriano fece un acquedotto che presta servizio anche ai nostri giorni. Ma nell’Asia Minore le rovine sono numerosissime: le più notevoli sono quelle della più grande Antiochia, di Mitilene e di Metropoli. Antiochia, col suo ameno sobborgo di Dafne, era rinomata per l’abbondanza dell’acqua; vi si vedono ancora le rovine di un acquedotto, costituito d’un muro continuo, in basso, e in alto di archi su colonne: raggiunge l’altezza di oltre 6o metri, nei punti di maggior depressione del terreno. Altrettanto imponente è il ponte dell’acquedotto, cinque chilometri a nord-ovest di Mitilene, con le sue colonne massicce di marmo grigio e i tre ordini di arcate sovrapposte. Ricordiamo in Oriente anche gli acquedotti di Pergamo, Laodicea, Tralle, Smirne e Afrodisia.
Ma per quanto stupore ci destino tali avanzi fra lo squallore attuale dei luoghi, quelli dell’Africa settentrionale sono anche più meravigliosi. Presso Cartagine, per esempio, c’è la splendida linea d’archi dell’acquedotto di Zaguan, costruito da Adriano per recare acqua sorgiva dalle montagne tunisine al capoluogo della provincia africana. Gli archi si susseguono per chilometri e chilometri, inutili ora e abbandonati per le pianure di Oued-Milian e di Manuba. Sulle colline sotto il fianco nudo del monte Zaguan si vede ancora il serbatoio di pietra costruito con tutta la grazia dei templi antichi.
Cartagine non è che un esempio fra molti. Sotto la dominazione romana, l’Africa settentrionale ebbe numerose città fiorentissime; e molte dovevano far venire l’acqua da alture lontane trenta e più chilometri. L’opera degli archeologi francesi va rivelando le meraviglie di Timgad, Dugga, Lambessa e Tebessa: intorno a questi luoghi furon trovate rovine di acquedotti, fra cui sono notevoli: il viadotto con piloni massicci arrotondati, a Sbèitla; la graziosa arcata a tre piani, che traversa la valle di Cesarea (Cherchell); e il piccolo arco schiacciato, che supera quel precipizio desolato presso Khamissa.
Passando dall’Africa alla Spagna, e specialmente quella meridionale, arida e petrosa, troviamo acquedotti romani in gran numero. Un centinaio ne contava uno storico dell’arte in Spagna, J. A. Ceàn Bermùdez, al principio del secolo scorso, fra maggiori e minori, tali comunque che i loro resti consentivano di riconoscerli per romani. Mérida e Tarragona conservano file di pilastri ed archi. Trentasette sono ancora in piedi nella prima, e sostengono a tratti tre serie di archi, e prendono sul posto il nome di «Los Milagros» (I Miracoli). A Segovia si trova uno dei lavori romani meglio conservati, un acquedotto chiamato «El Puente del Diablo a, costruito in realtà da Traiano, e che serve ancora egregiamente a portare in città, da sedici chilometri, l’acqua del Rio Frio, nella Sierra Guadarrama. E costruito con grandi massi granitici appena sgrossati, senza cemento, lungo 775 metri, largo due e mezzo, con arcate che vanno oltre i 30 metri.
In Francia troviamo nel Pont du Gard, presso Nimes, il più celebre rivale del Puente del Diablo. Fa parte di un acquedotto costruito probabilmente da Agrippa, intorno al 18 a. C., e il serbatoio in cui scaricava è stato scoperto dentro Nimes, presso la Tour Magne. Il Pont du Gard è lungo 274 metri, alto 48, e largo tre al piano più alto. Ha sei archi nell’ordine più basso, undici nel secondo, trentacinque nel terzo, ed è anch’esso costruito in grossi blocchi di pietra, senza cemento, tranne il canale in cima. Un ricordo merita ancora quello di Lione, che attraversa il Monte Pilato e le Valli della Garonna e di Sant’Ireneo. Il ponte su cui passa la strada non è che un’aggiunta medievale.
La tirannia dello spazio ci permette appena di nominare l’acquedotto di Jouy aux Arcbes, presso Metz, che si conserva in gran parte e consta di ben centoquattordici archi, e quello di Magonza. Cosi il nostro giro dell’Impero Romano è terminato.
F. A. Wright, L’acquedotto Romano