domenica 6 aprile 2008

Mantova, la bella Grecia che catturò Roma

l’Unità 6.4.08
A «Palazzo Te» i reperti dell’Ellade classica importati in Italia dai conquistatori romani in seguito destinati a diventare «collezionisti»
Mantova, la bella Grecia che catturò Roma
di Ibio Paolucci

«La forza del bello», che è il titolo di una stupenda mostra in corso a Mantova, è talmente forte che il poeta Orazio scrisse che «una volta conquistata, la Grecia conquistò i suoi selvaggi vincitori e portò le arti fra i contadini del Lazio». Che poi, tanto selvaggi i romani non erano, anche se faticarono un po’ a capire l’estrema bellezza dei maestri ateniesi. In un primo tempo, difatti, i generali conquistatori si servivano delle opere d’arte come altrettanti trofei da mostrare durante le grandi parate nelle strade di Roma. Poi, però, grazie a personaggi più sensibili al bello, ne compresero l’importanza tanto da diventare accaniti collezionisti e da richiamare, per la crescente richiesta, parecchie botteghe greche nella capitale.
La rassegna in questione, che presenta opere originali e copie romane, è esposta nella sede ideale di Palazzo Te, creazione di Giulio Romano. Così molti capolavori dell’arte greca figurano accanto alle rinascimentali decorazioni dell’allievo preferito di Raffaello.
La mostra ha per sottotitolo «L’arte greca conquista l’Italia», ed è nata da un’idea di Salvatore Settis e Paul Zanker, realizzata col sostegno di Lucia Franchi e dello staff del Centro Internazionale di arte e cultura di Palazzo Te. Il professor Settis, inoltre, ha anche curato, come meglio non si poteva, la mostra, accompagnata da un bel catalogo di Skira, assieme a Maria Luisa Catoni. Marmi, bronzi, ceramiche, terrecotte, affreschi: 120 pezzi in tutto, prestati da collezioni private e da musei di tutto il mondo e, fra questi, anche il celeberrimo vaso di Eufronio, del 515 a.C, restituito di recente dal Metropolitan Museum di New York all’Italia.
Atene e Roma, dunque. «L’appropriazione della cultura greca da parte dei romani - osserva Paul Zanker - è un fenomeno essenzialmente privo di analogie dal punto di vista storico: una società culturalmente inferiore (quella romana) si appropria in modo così assoluto della cultura di coloro che ha sconfitto (i Greci), che quest’ultima diventa parte integrante della sua identità». Un processo che, grosso modo, ha inizio nel terzo secolo a.C, quando Roma conquista la Magna Grecia e l’Oriente greco. Sempre più diventano presenti nelle abitazioni e nelle ville le opere dei maestri greci. Fra i maggiori collezionisti Lucullo e il pretore Verre, accusato da Cicerone, pure lui collezionista, di avere rapinato opere d’arte, abusando delle propria autorità, una specie di Goering di quei tempi. A partire dal II secolo a.C, arrivano a Roma i primi scultori greci, ben pagati. Ma le opere originali non erano bastanti a soddisfare la richiesta. Da qui il moltiplicarsi delle copie, importantissime, peraltro, quelle che si sono conservate, perché la stragrande maggioranza degli originali sono andati distrutti.
L’ampio percorso della rassegna, che si apre col Torso di Kouros, concesso dal Museo Archeologico di Firenze, ricomposto per la prima volta con la pertinente testa di Osimo, si divide in tre sezioni, che abbracciano un periodo pressochè millenario. Molti i capolavori assoluti, fra cui il ben noto Torso del Belvedere firmato dall’ateniese Apollonio, tanto ammirato da Michelangelo. E molte le repliche romane di Prassitele, Fidia, Policleto, tutte perdute e alcune delle quali, probabilmente, se di bronzo, fuse per fare armi o altri utensili, se di marmo, bruciate per farne calcina. Incantevole, fra i pezzi presenti, la statua bronzea di Apollo del I secolo a.C., prestata dal Louvre. Magnifica la stele funeraria di atleta con fanciullo in marmo del 430 a.C, che viene dal Museo vaticano. Di eccezionale interesse la statua di Zeus, in bronzo, di età arcaica, concessa dal Museo archeologico di Taranto, del 530 a.C. Affascinante il bacino marmoreo di Ascoli Satriano con le figure di Nereidi di straordinaria raffinatezza, che conserva preziosi pigmenti colorati. Quest’ultimo pezzo è esposto con altri, riavuti dal Getty Museum. Tantissime, come si è detto, le distruzioni, continuate, fra l’altro, anche in secoli più vicini a noi, fra il Quattro e il Cinquecento. Valga, in proposito, una lettera di Raffaello al Papa Leone X, che nel 1515 lo aveva nominato Conservatore delle antichità romane. È un grandissimo dolore quello che si prova - scriveva il grande artista - «vedendo quasi il cadavero di quest’alma nobile cittate, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerata». E ancora, facendosi sempre più aspra l’accusa: «Quanti pontefici, padre santo (.. .) hanno permesso le ruine e disfacimenti delli templi antichi, delle statue, delli archi e altri edifici, gloria delli lor fondatori?». E tuttavia, nonostante tutto, malgrado fino a noi sia arrivato ben poco, talmente grande è la forza dell’arte greca, che resta più che mai come modello ineguagliato di bellezza. La rassegna di Mantova ne è una evidente dimostrazione.


di Ibio Paolucci

«La forza del bello», che è il titolo di una stupenda mostra in corso a Mantova, è talmente forte che il poeta Orazio scrisse che «una volta conquistata, la Grecia conquistò i suoi selvaggi vincitori e portò le arti fra i contadini del Lazio». Che poi, tanto selvaggi i romani non erano, anche se faticarono un po’ a capire l’estrema bellezza dei maestri ateniesi. In un primo tempo, difatti, i generali conquistatori si servivano delle opere d’arte come altrettanti trofei da mostrare durante le grandi parate nelle strade di Roma. Poi, però, grazie a personaggi più sensibili al bello, ne compresero l’importanza tanto da diventare accaniti collezionisti e da richiamare, per la crescente richiesta, parecchie botteghe greche nella capitale.
La rassegna in questione, che presenta opere originali e copie romane, è esposta nella sede ideale di Palazzo Te, creazione di Giulio Romano. Così molti capolavori dell’arte greca figurano accanto alle rinascimentali decorazioni dell’allievo preferito di Raffaello.
La mostra ha per sottotitolo «L’arte greca conquista l’Italia», ed è nata da un’idea di Salvatore Settis e Paul Zanker, realizzata col sostegno di Lucia Franchi e dello staff del Centro Internazionale di arte e cultura di Palazzo Te. Il professor Settis, inoltre, ha anche curato, come meglio non si poteva, la mostra, accompagnata da un bel catalogo di Skira, assieme a Maria Luisa Catoni. Marmi, bronzi, ceramiche, terrecotte, affreschi: 120 pezzi in tutto, prestati da collezioni private e da musei di tutto il mondo e, fra questi, anche il celeberrimo vaso di Eufronio, del 515 a.C, restituito di recente dal Metropolitan Museum di New York all’Italia.
Atene e Roma, dunque. «L’appropriazione della cultura greca da parte dei romani - osserva Paul Zanker - è un fenomeno essenzialmente privo di analogie dal punto di vista storico: una società culturalmente inferiore (quella romana) si appropria in modo così assoluto della cultura di coloro che ha sconfitto (i Greci), che quest’ultima diventa parte integrante della sua identità». Un processo che, grosso modo, ha inizio nel terzo secolo a.C, quando Roma conquista la Magna Grecia e l’Oriente greco. Sempre più diventano presenti nelle abitazioni e nelle ville le opere dei maestri greci. Fra i maggiori collezionisti Lucullo e il pretore Verre, accusato da Cicerone, pure lui collezionista, di avere rapinato opere d’arte, abusando delle propria autorità, una specie di Goering di quei tempi. A partire dal II secolo a.C, arrivano a Roma i primi scultori greci, ben pagati. Ma le opere originali non erano bastanti a soddisfare la richiesta. Da qui il moltiplicarsi delle copie, importantissime, peraltro, quelle che si sono conservate, perché la stragrande maggioranza degli originali sono andati distrutti.
L’ampio percorso della rassegna, che si apre col Torso di Kouros, concesso dal Museo Archeologico di Firenze, ricomposto per la prima volta con la pertinente testa di Osimo, si divide in tre sezioni, che abbracciano un periodo pressochè millenario. Molti i capolavori assoluti, fra cui il ben noto Torso del Belvedere firmato dall’ateniese Apollonio, tanto ammirato da Michelangelo. E molte le repliche romane di Prassitele, Fidia, Policleto, tutte perdute e alcune delle quali, probabilmente, se di bronzo, fuse per fare armi o altri utensili, se di marmo, bruciate per farne calcina. Incantevole, fra i pezzi presenti, la statua bronzea di Apollo del I secolo a.C., prestata dal Louvre. Magnifica la stele funeraria di atleta con fanciullo in marmo del 430 a.C, che viene dal Museo vaticano. Di eccezionale interesse la statua di Zeus, in bronzo, di età arcaica, concessa dal Museo archeologico di Taranto, del 530 a.C. Affascinante il bacino marmoreo di Ascoli Satriano con le figure di Nereidi di straordinaria raffinatezza, che conserva preziosi pigmenti colorati. Quest’ultimo pezzo è esposto con altri, riavuti dal Getty Museum. Tantissime, come si è detto, le distruzioni, continuate, fra l’altro, anche in secoli più vicini a noi, fra il Quattro e il Cinquecento. Valga, in proposito, una lettera di Raffaello al Papa Leone X, che nel 1515 lo aveva nominato Conservatore delle antichità romane. È un grandissimo dolore quello che si prova - scriveva il grande artista - «vedendo quasi il cadavero di quest’alma nobile cittate, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerata». E ancora, facendosi sempre più aspra l’accusa: «Quanti pontefici, padre santo (.. .) hanno permesso le ruine e disfacimenti delli templi antichi, delle statue, delli archi e altri edifici, gloria delli lor fondatori?». E tuttavia, nonostante tutto, malgrado fino a noi sia arrivato ben poco, talmente grande è la forza dell’arte greca, che resta più che mai come modello ineguagliato di bellezza. La rassegna di Mantova ne è una evidente dimostrazione.