martedì 29 aprile 2008

Le sedici colonne, «avanzi» dell'età imperiale.

LA STORIA. Le sedici colonne, «avanzi» dell'età imperiale. II sindaco Mussi voleva trasferirle al Castello
PIERLUIGI PANZA
Corriere della Sera, 10 giugno 2007

La vita delle sedici colonne fatte risalire — da Galvano Fiamma nel XVI secolo — a un tempio di Ercole, ma poi anche a bagni di Massimiano o a Nerone, non è mai stata facile. L'unica certezza è che le hanno sempre chiamate «avanzi» e che hanno quasi sempre «intralciato il traffico» anche quando il traffico non c'era.
Nel 1547 ne venne chiesta la demolizione per lasciar passare il seguito imperiale di Carlo V. Le salvò il governatore Ferdinando Gonzaga. Nel 1573, invece, quando crollò la vecchia cupola di San Lorenzo, l'architetto Martino Bassi suggerì di spostarle e utilizzarle come vestibolo per la nuova facciata. Non se ne fece nulla anche perché tra le colonne e la chiesa c'erano allora le case dei vetrai.
Se oggi fa scandalo che sulla base delle colonne finiscano i piattini dell'happy hour si consideri che nel XVII secolo lì ci appoggiavano la frutta e verdura del mercato, ci lavoravano i vetrai e, presso l'altare della Crocetta del Mercato (in testa alle colonne), si seppellivano pure i morti. Ma la civiltà è avanzata, si dirà. Forse.
Uno dei più grandi architetti del neoclassicismo lombardo, Leopoldo Pollak, le definì senza mezzi termini un «informe avanzo d'antichità» da sgombrare, proponendone la demolizione constatata l'inutilità di spendere seimila lire per il restauro. Si opposero, con lettere e appelli nel 1779 i fratelli Verri, che poi definirono brutta la facciata della Scala.
Rimaste lì, arrivarono le perizie del Cagnola e del Canonica su «questo avanzo d'antichità», che venne restaurato su proposta del 1810 della Commissione di Ornato con 12.000 lire. In questa occasione vennero avviati degli studi archeologici... e Ercole Silva avanzò la tesi che le colonne fossero state trasportate lì in età medioevale. Questo parere aprì a scenari di spostamento. Si propose infatti l'arretramento delle colonne per consentire ai vetrai di avere una migliore vista dalle case. Ma non se ne fece nulla.
Nel 1829-30 il progetto presentato dalla Delegazione provinciale per il riassetto di Corso Ticinese propose di
spostarle in mezzo alla carreggiata per agevolare il traffico. Insorsero gli storici locali e le colonne lì rimasero.
Nell'agosto del 1897 sul «Corriere della Sera», riprendendo un articolo di Enrico Valdata si scriveva: «perché lasciarle là con danno della viabilità pubblica mentre qualcuno che se ne intende... dice che erano vicino al luogo in cui oggi si trovano, ma non precisamente in quel luogo?». Fu così che il pro-sin-daco Mussi propose di spostarle nel cortile del Castello Sforzesco. Si opposero Luca Beltrami, Corrado Ricci e la Società Storica Lombarda. L'anno dopo il sindaco Gabba decise di non rimuoverle.
Ad essere demolite, invece, con delibera assunta negli anni del Bimillenario augusteo, furono a partire dal 1934 le case dei vetrai. E così, per la prima volta nella loro vita, colonne e facciata della chiesa si trovarono una di fronte all'altra, formando un'area-sagrato sulla quale, poi... venne fatto passare il tram. Poi spostato. Adesso è l'età dell'happy hour e della coca. Birra e polvere. Resisteranno ancora e, un giorno, forse ne discuteranno i marziani.