Affreschi romani in serie. Le pitture della Tomba di via Prenestina a Roma
di Bruno Zanardi
02-09-2007, IL SOLE 24 ORE
Le pitture della Tomba di via Prenestina a Roma, osservate a luce radente, rivelano una serie di impronte identiche di cartoni sul muro. Una tecnica ripresa nel Medioevo - Di queste sagome parlavano già le fonti antiche. Plinio le chiamava «catagrapha»
Bruno Zanardi
Per liberalità del Soprintendente ai Beni archeologici di Roma, professor Angelo Bottini, ho avuto accesso agli affreschi del II secolo dopo Cristo che decorano le pareti della cosiddetta Tomba della via Prenestina, rinvenuta a Roma nel 1951. L'osservazione diretta della materia ha dimostrato l'uso nella pittura murale antico-romana di sagome da cui trarre "forme standard" per la realizzazione di figurazioni. Ne sono prova positiva due figure affrontate di caproni al cui interno si leggono (a luce radente) una serie di avvallamenti che ne delimitano la generale dimensione, mentre l'intonaco biancastro di fondo è, al contrario, del tutto liscio: avvallamenti con ogni probabilità ottenuti ponendo la sagoma sull'intonaco fresco e calcandola con uno strumento stondato in legno o in pietra. Ed è una scoperta che dimostra come anche in antico esistessero delle tecniche di razionalizzazione del lavoro artistico in forma di disegno paragonabili a quegli antibola e patroni ampiamente descritti in epoca medievale e moderna nella trattatistica tecnica e nei documenti di cantiere.
Molti lettori de «Il Sole-24 Ore» si staranno però chiedendo come mai si possa parlare di "scoperta" per un fatto apparentemente ovvio com'è la centrale importanza del disegno in ogni attività artistica figurativa. Domanda legittima la cui risposta ci porta a toccare temi lontani dalla Tomba della via Prenestina. Restauri in cui la conoscenza dell'organizzazione del lavoro artistico in cantiere e in bottega si esaurisce in inutili indagini chimico-fisiche; ed è un ennesimo tradimento del pensiero di Brandi. E lo stretto ambito tassonomico degli studi italiani di storia dell'arte (contro cui spesso inveiva Federico Zeri), pur se spesso, e soprattutto in passato, narrati in una prosa d'arte di alto valore letterario: su tutte le pagine di D'Annunzio sull'arte veneta ne' Il fuoco.
Dunque una "scoperta", le sagome nella Tomba della via Prenestina, dovuta a un ritardo culturale (già nell'Ottocento, Pietro Rosa aveva invano indicato la presenza d'una traccia simile in alcuni dipinti antico-romani forse oggi perduti), ma che come tutte le scoperte pone alcuni non semplici problemi interpretativi. Per citarne solo uno, se esistano o meno attestazioni dell'esistenza di disegni – di progetto, di modello o esecutivi – nell'arte antica, come invece da molti negato.
Possono le fonti antiche dare risposta al quesito? Forse.
Nella Historia Naturalis (I secolo dopo Cristo), Plinio racconta che il pittore greco Cimone di Cleone (VI-V secolo avanti Cristo) aveva inventato la tecnica dei catagrapha; tecnica a tutt'oggi misteriosa nonostante la precisazione di significato che lo stesso Plinio ne dà: «hoc est obliquas imagines». Infatti, per chi sia esperto di tecniche artistiche, la locuzione «immagini oblique» non ha significato alcuno, né viene mai ripresa nella trattatistica successiva. Tanto che le pliniane «obliquas imagines» vengono rese, nella metà del Quattrocento, dallo scultore Lorenzo Ghiberti in «l'atteggiare delle figure e li posari d'esse» e, poco più d'un secolo dopo, dall'umanista Giovan Battista Adriani in «figure in iscorcio»; con ogni probabilità entrambi i traduttori fiorentini deducendo quel significato dal proseguire del racconto di Plinio, dove Cimone è chi per primo disegna articolazioni e vene dei corpi umani e altro ancora inventa.
Possono allora le sagome della pittura antico-romana essere le misteriose «obliquas imagines» di Plinio? Un quesito cui si può rispondere solo risalendo alla parola, cioè al senso originario dato al termine catagrapha nella Grecia antica. Anche perché oltre mezzo secolo fa Bernhard Schweitzer ha dimostrato la derivazione delle incursioni di Plinio nel campo artistico da un perduto trattato d'un artista greco del III secolo avanti Cristo, Senocrate di Atene. Leggiamo perciò due frammenti tra i mille possibili nelle fonti greche.
Pausania (110-180 dopo Cristo) usa la forma katagraphai per il disegno (con ogni evidenza di progetto) che, nel V secolo avanti Cristo, Parrasio aveva realizzato per lo scudo d'una perduta statua in bronzo di Atena eseguita da Fidia; disegno con la battaglia dei Lapiti contro i Centauri poi reso a cesello da Mys. Quindi il lavoro artistico era già in antico diviso tra vari specialisti – un pittore (Parrasio), un orafo (Mys) e uno scultore (Fidia) – secondo una prassi che sarà poi normalmente attestata in bottega e in cantiere dal Medioevo in poi, compresa l'esecuzione di disegni di progetto "per conto terzi"; infatti così millenovecento anni dopo scrive di se stesso il Ghiberti: «Ancora a molti pictori e scultori e statuarii ò fatto grandissimi honori ne' loro lavorii, fatto moltissimi provedimenti cioè modelli di cera e di creta et a' pittori disegnato moltissime cose». E ciò conferma una volta di più la storica inerzia dei modi organizzativi del fare artistico.
Il siriano Luciano di Samostata (120-180 dopo Cristo) trasforma un suo ricordo in un racconto fantastico (in tutti i sensi) su un formidabile cialtrone, tale Alessandro, che organizza con il socio Coccòna una truffa ai danni degli abitanti di Abonutico, una città dell'Asia minore, «in maggioranza superstiziosi e ricchi».
I due fondano un santuario dedicato a un dio-serpente di loro invenzione, «Glicone, di Giove terzo sangue, per tutti gli uomini la luce», dove Alessandro, sacerdote di quel dio, risponde in una stanza buia a preghiere e implorazioni. A parlare è Glicone in persona. In forma di serpente vero, quello che Alessandro tiene sulle ginocchia: un serpente «di Pella, città dove vivono degli enormi serpenti molto docili e mansueti (...), al punto di succhiare il latte dalla mammella come neonati». In forma di sagoma, forse tridimensionale, la testa parlante di Glicone che Alessandro fa spuntare da sotto una sua ascella: una «testa di serpente su tela di lino, che mostrava un qualcosa di umano, tutta disegnata (katagraphos), molto somigliante; apriva e richiudeva la bocca mediante crini di cavallo, e ne sporgeva fuori, anch'essa tirata da crini, una lingua nera e bifida».
E di nuovo katagraphos sta per disegno (dipinto?), tuttavia in forma di sagoma. Ma disegni in sagoma sono anche i già citati patroni e gli antibola. Domanda: a ulteriore conferma della storica inerzia delle tecniche artistiche?
di Bruno Zanardi
02-09-2007, IL SOLE 24 ORE
Le pitture della Tomba di via Prenestina a Roma, osservate a luce radente, rivelano una serie di impronte identiche di cartoni sul muro. Una tecnica ripresa nel Medioevo - Di queste sagome parlavano già le fonti antiche. Plinio le chiamava «catagrapha»
Bruno Zanardi
Per liberalità del Soprintendente ai Beni archeologici di Roma, professor Angelo Bottini, ho avuto accesso agli affreschi del II secolo dopo Cristo che decorano le pareti della cosiddetta Tomba della via Prenestina, rinvenuta a Roma nel 1951. L'osservazione diretta della materia ha dimostrato l'uso nella pittura murale antico-romana di sagome da cui trarre "forme standard" per la realizzazione di figurazioni. Ne sono prova positiva due figure affrontate di caproni al cui interno si leggono (a luce radente) una serie di avvallamenti che ne delimitano la generale dimensione, mentre l'intonaco biancastro di fondo è, al contrario, del tutto liscio: avvallamenti con ogni probabilità ottenuti ponendo la sagoma sull'intonaco fresco e calcandola con uno strumento stondato in legno o in pietra. Ed è una scoperta che dimostra come anche in antico esistessero delle tecniche di razionalizzazione del lavoro artistico in forma di disegno paragonabili a quegli antibola e patroni ampiamente descritti in epoca medievale e moderna nella trattatistica tecnica e nei documenti di cantiere.
Molti lettori de «Il Sole-24 Ore» si staranno però chiedendo come mai si possa parlare di "scoperta" per un fatto apparentemente ovvio com'è la centrale importanza del disegno in ogni attività artistica figurativa. Domanda legittima la cui risposta ci porta a toccare temi lontani dalla Tomba della via Prenestina. Restauri in cui la conoscenza dell'organizzazione del lavoro artistico in cantiere e in bottega si esaurisce in inutili indagini chimico-fisiche; ed è un ennesimo tradimento del pensiero di Brandi. E lo stretto ambito tassonomico degli studi italiani di storia dell'arte (contro cui spesso inveiva Federico Zeri), pur se spesso, e soprattutto in passato, narrati in una prosa d'arte di alto valore letterario: su tutte le pagine di D'Annunzio sull'arte veneta ne' Il fuoco.
Dunque una "scoperta", le sagome nella Tomba della via Prenestina, dovuta a un ritardo culturale (già nell'Ottocento, Pietro Rosa aveva invano indicato la presenza d'una traccia simile in alcuni dipinti antico-romani forse oggi perduti), ma che come tutte le scoperte pone alcuni non semplici problemi interpretativi. Per citarne solo uno, se esistano o meno attestazioni dell'esistenza di disegni – di progetto, di modello o esecutivi – nell'arte antica, come invece da molti negato.
Possono le fonti antiche dare risposta al quesito? Forse.
Nella Historia Naturalis (I secolo dopo Cristo), Plinio racconta che il pittore greco Cimone di Cleone (VI-V secolo avanti Cristo) aveva inventato la tecnica dei catagrapha; tecnica a tutt'oggi misteriosa nonostante la precisazione di significato che lo stesso Plinio ne dà: «hoc est obliquas imagines». Infatti, per chi sia esperto di tecniche artistiche, la locuzione «immagini oblique» non ha significato alcuno, né viene mai ripresa nella trattatistica successiva. Tanto che le pliniane «obliquas imagines» vengono rese, nella metà del Quattrocento, dallo scultore Lorenzo Ghiberti in «l'atteggiare delle figure e li posari d'esse» e, poco più d'un secolo dopo, dall'umanista Giovan Battista Adriani in «figure in iscorcio»; con ogni probabilità entrambi i traduttori fiorentini deducendo quel significato dal proseguire del racconto di Plinio, dove Cimone è chi per primo disegna articolazioni e vene dei corpi umani e altro ancora inventa.
Possono allora le sagome della pittura antico-romana essere le misteriose «obliquas imagines» di Plinio? Un quesito cui si può rispondere solo risalendo alla parola, cioè al senso originario dato al termine catagrapha nella Grecia antica. Anche perché oltre mezzo secolo fa Bernhard Schweitzer ha dimostrato la derivazione delle incursioni di Plinio nel campo artistico da un perduto trattato d'un artista greco del III secolo avanti Cristo, Senocrate di Atene. Leggiamo perciò due frammenti tra i mille possibili nelle fonti greche.
Pausania (110-180 dopo Cristo) usa la forma katagraphai per il disegno (con ogni evidenza di progetto) che, nel V secolo avanti Cristo, Parrasio aveva realizzato per lo scudo d'una perduta statua in bronzo di Atena eseguita da Fidia; disegno con la battaglia dei Lapiti contro i Centauri poi reso a cesello da Mys. Quindi il lavoro artistico era già in antico diviso tra vari specialisti – un pittore (Parrasio), un orafo (Mys) e uno scultore (Fidia) – secondo una prassi che sarà poi normalmente attestata in bottega e in cantiere dal Medioevo in poi, compresa l'esecuzione di disegni di progetto "per conto terzi"; infatti così millenovecento anni dopo scrive di se stesso il Ghiberti: «Ancora a molti pictori e scultori e statuarii ò fatto grandissimi honori ne' loro lavorii, fatto moltissimi provedimenti cioè modelli di cera e di creta et a' pittori disegnato moltissime cose». E ciò conferma una volta di più la storica inerzia dei modi organizzativi del fare artistico.
Il siriano Luciano di Samostata (120-180 dopo Cristo) trasforma un suo ricordo in un racconto fantastico (in tutti i sensi) su un formidabile cialtrone, tale Alessandro, che organizza con il socio Coccòna una truffa ai danni degli abitanti di Abonutico, una città dell'Asia minore, «in maggioranza superstiziosi e ricchi».
I due fondano un santuario dedicato a un dio-serpente di loro invenzione, «Glicone, di Giove terzo sangue, per tutti gli uomini la luce», dove Alessandro, sacerdote di quel dio, risponde in una stanza buia a preghiere e implorazioni. A parlare è Glicone in persona. In forma di serpente vero, quello che Alessandro tiene sulle ginocchia: un serpente «di Pella, città dove vivono degli enormi serpenti molto docili e mansueti (...), al punto di succhiare il latte dalla mammella come neonati». In forma di sagoma, forse tridimensionale, la testa parlante di Glicone che Alessandro fa spuntare da sotto una sua ascella: una «testa di serpente su tela di lino, che mostrava un qualcosa di umano, tutta disegnata (katagraphos), molto somigliante; apriva e richiudeva la bocca mediante crini di cavallo, e ne sporgeva fuori, anch'essa tirata da crini, una lingua nera e bifida».
E di nuovo katagraphos sta per disegno (dipinto?), tuttavia in forma di sagoma. Ma disegni in sagoma sono anche i già citati patroni e gli antibola. Domanda: a ulteriore conferma della storica inerzia delle tecniche artistiche?