martedì 29 aprile 2008

ROMA: LA CITTA' ALL'EPOCA DI COSTANTINO RIVIVE IN 3D

ROMA: LA CITTA' ALL'EPOCA DI COSTANTINO RIVIVE IN 3D
Roma, 5 giugno 2007 (Adnkronos/Adbnkronos Cultura)

- Un'antica Roma mai vista prima, la Roma di Costantino, rivive grazie al progetto di ricostruzione digitale ''Roma Reborn'', frutto di dieci anni di lavoro e della collaborazione tra Politecnico di Milano, Ucla e Universita' della Virginia, archeologi, architetti ed esperti in elaborazione elettronica provenienti da Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania. Il progetto, che sara' presentato l'11 giugno alle ore 14 a Palazzo Senatorio, alla presenza del sindaco di Roma, Walter Veltroni, e' stato realizzato con le piu' avanzate tecnologie nel campo della simulazione digitale.

''Roma Reborn'', infatti, e' un sofisticato modello 3D che funziona in tempo reale, dando la possibilita' agli utenti di entrare nella citta' all'epoca dell'impero di Costantino, visitando palazzi e costruzioni pubbliche importanti. Per gli studiosi e gli esperti che hanno lavorato al progetto, si tratta di una vera e propria sfida tecnologica portata avanti con successo. Il progetto e gli usi a cui sara' destinato saranno illustrati nel dettaglio dagli stessi studiosi.

Da sede del tempio di Ercole documentato nel Cippus Abellanus all’attuale Antiquarium

CAMPANIA
Da sede del tempio di Ercole documentato nel Cippus Abellanus all’attuale Antiquarium
08/06/2007 IL MATTINO

Il luogo dove oggi sorge Cimitile ospitò, anticamente, un tempio di Ercole, secondo alcuni identificabile probabilmente con quello che è oggetto del trattato fra la stessa Nola e Avella, riportato nel Cippus Abellanus, il più importante documento della lingua osca e sannita per l’uso comune del santuario e di un fondo adiacente. Molto importante per la storia dell’epigrafia italica, il Cippo Abellano è un blocco monolitico di pietra calcarea, alto circa due metri, largo 55 cm e spesso 27,5 cm, rinvenuto nel 1745 nel territorio dell’antica Abella e riutilizzata come soglia di una porta. Attualmente, il cippo è conservato presso il seminario arcivescovile di Nola. Il testo del cippo, abbastanza lungo, riguarda l’accordo stipulato tra le città di Abella e Nola in merito a un santuario di Ercole costruito in territorio comune; probabilmente, il trattato fu redatto in occasione di una riorganizzazione del culto. L’atto risulta stipulato fra due magistrati (meddix) e descrive i confini del santuario, le sue proprietà, la regolamentazione edilizia all’interno e all’esterno del recinto sacro, indicando anche il confine tra i territori delle due città. In epoca romana il territorio rurale, occupato da ville, ospitò quindi un nucleo originario di una necropoli destinato a espandersi. Ed è proprio dalla iniziale funzione cimiteriale che l’odierna Cimitile deriva il nome (da Coemeterium Nolanum), anche se qualcuno ipotizza che il nome potrebbe derivare da Kimetil, perché in quel luogo i padri semitici ebbero una ferriera, una fornace per lavorare il ferro: ciò che appunto significa il nome originario ebraico. Lunghe e difficili sono state le operazioni di scavo del sito e notevoli i lavori di restauro, dai quali è possibile oggi intuire la complessa stratificazione dalla basilica di San Felice in Pincis, comprendente quel che resta della basilica originaria a due navate. Attualmente, l’Antiquarium è parte del complesso archeologico delle basiliche, nel presbiterio della basilica vetus: vi si conservano epigrafi romane, un sarcofago romano riutilizzato nel V-VI sec. d.C., marmi riutilizzati, numerosi reperti ceramici, tra cui vasi e lucerne. d.t.

Le sedici colonne, «avanzi» dell'età imperiale.

LA STORIA. Le sedici colonne, «avanzi» dell'età imperiale. II sindaco Mussi voleva trasferirle al Castello
PIERLUIGI PANZA
Corriere della Sera, 10 giugno 2007

La vita delle sedici colonne fatte risalire — da Galvano Fiamma nel XVI secolo — a un tempio di Ercole, ma poi anche a bagni di Massimiano o a Nerone, non è mai stata facile. L'unica certezza è che le hanno sempre chiamate «avanzi» e che hanno quasi sempre «intralciato il traffico» anche quando il traffico non c'era.
Nel 1547 ne venne chiesta la demolizione per lasciar passare il seguito imperiale di Carlo V. Le salvò il governatore Ferdinando Gonzaga. Nel 1573, invece, quando crollò la vecchia cupola di San Lorenzo, l'architetto Martino Bassi suggerì di spostarle e utilizzarle come vestibolo per la nuova facciata. Non se ne fece nulla anche perché tra le colonne e la chiesa c'erano allora le case dei vetrai.
Se oggi fa scandalo che sulla base delle colonne finiscano i piattini dell'happy hour si consideri che nel XVII secolo lì ci appoggiavano la frutta e verdura del mercato, ci lavoravano i vetrai e, presso l'altare della Crocetta del Mercato (in testa alle colonne), si seppellivano pure i morti. Ma la civiltà è avanzata, si dirà. Forse.
Uno dei più grandi architetti del neoclassicismo lombardo, Leopoldo Pollak, le definì senza mezzi termini un «informe avanzo d'antichità» da sgombrare, proponendone la demolizione constatata l'inutilità di spendere seimila lire per il restauro. Si opposero, con lettere e appelli nel 1779 i fratelli Verri, che poi definirono brutta la facciata della Scala.
Rimaste lì, arrivarono le perizie del Cagnola e del Canonica su «questo avanzo d'antichità», che venne restaurato su proposta del 1810 della Commissione di Ornato con 12.000 lire. In questa occasione vennero avviati degli studi archeologici... e Ercole Silva avanzò la tesi che le colonne fossero state trasportate lì in età medioevale. Questo parere aprì a scenari di spostamento. Si propose infatti l'arretramento delle colonne per consentire ai vetrai di avere una migliore vista dalle case. Ma non se ne fece nulla.
Nel 1829-30 il progetto presentato dalla Delegazione provinciale per il riassetto di Corso Ticinese propose di
spostarle in mezzo alla carreggiata per agevolare il traffico. Insorsero gli storici locali e le colonne lì rimasero.
Nell'agosto del 1897 sul «Corriere della Sera», riprendendo un articolo di Enrico Valdata si scriveva: «perché lasciarle là con danno della viabilità pubblica mentre qualcuno che se ne intende... dice che erano vicino al luogo in cui oggi si trovano, ma non precisamente in quel luogo?». Fu così che il pro-sin-daco Mussi propose di spostarle nel cortile del Castello Sforzesco. Si opposero Luca Beltrami, Corrado Ricci e la Società Storica Lombarda. L'anno dopo il sindaco Gabba decise di non rimuoverle.
Ad essere demolite, invece, con delibera assunta negli anni del Bimillenario augusteo, furono a partire dal 1934 le case dei vetrai. E così, per la prima volta nella loro vita, colonne e facciata della chiesa si trovarono una di fronte all'altra, formando un'area-sagrato sulla quale, poi... venne fatto passare il tram. Poi spostato. Adesso è l'età dell'happy hour e della coca. Birra e polvere. Resisteranno ancora e, un giorno, forse ne discuteranno i marziani.

Il ritorno a Tivoli della bella Sabina.

Il ritorno a Tivoli della bella Sabina. In mostra a Villa Adriana la statua restituita dal Museo di Boston
Antonio Venditti
Italia Sera, 1 luglio 2007

Col bel volto delicato e assorto, tutta chiusa nel gioco prezioso del panneggio che le copre anche il capo leggermente chino, Vibia Sabina è tornata in Italia, nella Villa di Tivoli che fu orgoglio e rifugio dell'imperatore Adriano, cui andò in sposa giovanissima, forse ad appena 12 anni. La statua muliebre in marmo bianco, di dimensioni maggiori dal vero, restituita assieme ad altri reperti archeologici dal Museum of Fine Arts di Boston, è stata l'occasione per la grande mostra dell'estate, fino al 4 novembre all'Antiquarium del Canopo di Villa Adriana. Figlia di L. Vibio Sabino e di Matidia, era nipote dell'imperatore Traiano (98-117 d.C.), che aveva adottato suo marito, consegnandogli le chiavi dell'impero. Non fu la nobile Sabina, destinata dalla sorte ad un uomo che non avrebbe potuto amarla, la passione di Adriano. La loro unione non diede frutti e fu "adombrata" dalla figura di Antinoo, il bellissimo e giovane amante dell'imperatore filosofo. Non sappiamo come Sabina abbia vissuto questa relazione: le voci delle donne antiche, spesso, non sono registrate nei volumi della storia ufficiale. Tuttavia, quando la donna morì nel 136, Adriano la onorò come meritava una sposa imperiale.
"Vibia Sabina da Augusta a diva" è una delle tappe di "Archeologia in festa", iniziativa promossa dalla Direzione Generale per i Beni Archeologici in collaborazione con il Gabinetto del Ministro, che ha portato in mostra a Torino, Cagliari e Ferrara i capolavori recuperati dai Museo americano. La mostra è un'ottima occasione per analizzare l'immagine pubblica dell'Imperatrice, correlata al programma politico di Adriano (117-138 d.C), attraverso le diverse testimonianze che ci sono pervenute, dalla ritrattistica, alle epigrafi, alle monete. L'arco cronologico preso in esame va dall'ascesa, al potere di Adriano, fino alla morte e alla successiva divinizzazione di Sabina, epoca a cui risale la statua di Boston.
Il percorso espositivo è articolato in tre sezioni. La prima è incentrata sulla figura di Sabina e sulla sua immagine ufficiale nell'ambito del ruolo delle Auguste fra Traiano e Adriano e illustra la genealogia dell'imperatrice e della gens dei Vibii, sua famiglia d'origine, attraverso l'analisi epigrafica e topografica. Dalla mostra emerge come fosse la casa imperiale a curare direttamente l'immagine pubblica dei propri membri, indicando i modelli da seguire, secondo un preciso programma di propaganda politica. Nella seconda sezione è illustrata la divinizzazione di
Sabina a seguito della morte avvenuta tra il 136 e la prima metà del 137 d.C. epoca a cui è da riferire la statua di Boston, che ripropone l'immagine di Sabina Diva raffigurata come Demetra Cerere nel tipo statuario cosiddetto della "Grande Ercolanese", dalla replica romana da originale greco attribuito a Prassitele, ritrovata a Ercolano e conservata al Museo di Dresda. Questo tipo statuario diverrà comune in epoca successiva nella ritrattistica funeraria sia ufficiale che privata. Fra i temi trattati in questa sezione, le vicende legate alla restituzione della scultura, in cui hanno avuto un ruolo significativo i Carabinieri TPA, le analisi effettuate sulla statua e gli interventi di pulitura a cura del Museum of Fine Arts di Boston. La terza sezione, collegata all'esposizione permanente dell'Antiquarium, ospita la base triangolare figurata neoattica, con decorazione figurata a bassorilievo, anch'essa restituita dal Museum of Fine Arts di Boston, contestualizzata nell'ambito di elementi di arredo marmorei riferibili alla Villa di Adriano.
La mostra è aperta tutti i giorni dalle 9,00 a un'ora prima del tramonto. Per informazioni telefonare allo 06 39967900 o collegarsi al sito www.pierreci.it Della mostra si parlerà nel corso dell'Intervista possibile di "Questa è Roma!", la trasmissione ideata e condotta da Maria Pia Partisani, in onda ogni sabato dalle ore 11 alle 12 su Nuova Spazio Radio (88.150 MHz).

Ara Pacis: l'altare "sacrificato" al cattivo gusto

Ara Pacis: l'altare "sacrificato" al cattivo gusto
Enea Baldi
Rinascita 10/07/2007

ROMA
"Il cuore della Città Eterna pulsa di bellezza: immaginatevi 300 capi che raccontano la storia della maison nella impareggiabile cornice del museo che ospita uno dei capolavori scolpiti della Roma augustea, in una cornice confezionata dall'architetto Richar Meier, una delle più importanti firme dell'architettura mondiale", così è stata definita da gran parte dell'informazione, la kermesse di Valentino che ha letteralmente occupato per tre giorni il monumento dell'Ara Pacis e non solo. Richard Meier sarà pure un architetto bravo nel suo Paese, ma i risultati della sua opera che racchiude uno dei monumenti più antichi e più importanti del mondo, inducono a supporre che egli, pur avendo studiato in Europa, e pur essendo un estimatore di Le Corbusier, non sia a conoscenza delle origini culturali e urbanistiche di Roma. La sua idea, che sarebbe apparsa eccelsa nel contesto civico della "Grande Mela", è in contrasto con il mausoleo di Augusto, con il porto di Ripetta e crea un impatto estetico aberrante quasi, con il Tevere che gli scorre accanto. Non ebbe torto Vittorio Sgarbi nel definire l'opera "simile ad una stazione di servizio". La mastodontica architettura, rispetto alla semplice copertura del 1938 dell'architetto Ballio Morpurgo, abbattuta per compiacere i sogni di gloria dell'allora sindaco Francesco Rutelli, occupa uno spazio esagerato, con volumi inespressivi e sterili, con murature di travertino grezzo che occultano la visione del monumento. La città soffre, nel cuore del centro storico, un intollerabile insulto attraverso un edificio indegno persino di un'informe periferia suburbana, il cui modello è ispirato ad un garage multipiano o una vetrina per esposizioni di automobili o di manichini. Durante lo scorso fine settimana infatti, chi si è trovato a passare per l'Ara Pacis, ha potuto ammirare, oltre all'occultamento monumentale dello scatolone di Meier, una scritta: "Chiusura straordinaria". Tutto intorno un insieme di allucinati e spettrali manichini affacciati alle vetrate; "un nuovo rosso" mentre la gente intorno sembrava impazzita, in un clima decisamente carnevalesco: "La maison di Valentino ha spento le sue 45 candeline a Roma dal 6 luglio all'8 luglio presso l'Ara Pacis, Tempio di Venere, il complesso di Santo Spirito in Sassia, e infine il Parco dei Daini di Villa Borghese. Una mostra con 300 abiti esposti dentro e fuori l'Ara Pacis, sezioni distinte, divise per colore. All'entrata il settore di "Ali Babà", quasi una grotta misteriosa ricca di abiti indossati da manichini color oro e appesi come quadri alle pareti. Pòi gli abiti bianchi, neri e rossi, che "sfumano" nella sala successiva nei colori accesi del rosa, viola e verde. Al centro della sala l'abito della "pace", bianco candido impreziosito da ricami argentati, realizzato da Valentino durante la guerra del Golfo nel 1991. Ma non è finita qui, al Tempio di Venere, affacciato sul Colosseo, è stata organizzata la cena di gala per gli ospiti italiani e stranieri in onore dello stilista, con l'installazione temporanea creata dallo scenografo, premio Oscar, Dante Ferretti. Grazie all'artista, per la prima volta, e in via esclusiva per tutto il corso dell'estate 2007, sarà possibile ammirare il sito archeologico nella sua struttura antica con la collocazione di colonne in vetroresina erette sui basamenti originari con i relativi capitelli corinzi. Un evento celebrato all'insegna dell'eleganza, è stato al contrario l'immagine della volgarità e del cattivo gusto, tenuto all'unisono a battesimo dagli ultimi due sindaci capitolini, anche in questo caso, veri dioscuri della pacchianeria capitolina. L'Ara Pacis dal 6 all'8 luglio è rimasta chiusa al pubblico perché Valter Veltroni se l'è affittata per la festa dei 45 anni (di attività naturalmente) dello stilista Valentino che si sono svolte all'interno del museo con migliaia di invitati. Finis coronat opus.

Dardi di ferro, lunghi anche venti centimetri, a Pompei

POMPEI : Dardi di ferro, lunghi anche venti centimetri, a Pompei
Carlo Avvisati
10/07/2007 IL MATTINO

Viaggiavano con una velocità che poteva raggiungere anche i cento chilometri all’ora ed erano capaci di passare da parte a parte il malcapitato che si fosse trovato sulla loro strada. Di più. Se riuscivano a infilarsi in un camminamento delle mura, erano in grado di fare una vera e propria carneficina infilzando, letteralmente, più e più uomini.

Dardi di ferro, lunghi anche venti centimetri; appendici assassine scagliate dalle catapulte romane e dirette ai difensori di Pompei duemila e cento anni fa.

Li hanno trovati, per la prima volta, gli archeologi del Suor Orsola Benincasa di Napoli che a Pompei, lungo il lato sud e all’esterno della cinta difensiva della città antica, stanno studiando le strutture e lo sviluppo architettonico della Casa di Fabio Rufo, una bella costruzione dell’Insula Occidentalis. Un ritrovamento significativo, quello che gli allievi del corso di laurea in Conservazione dei Beni culturali, coordinati dai loro professori, Umberto Pappalardo e Mario Grimaldi, hanno effettuato; perché se da un lato induce gli specialisti a riconsiderare le ipotesi di sviluppo dell’assedio a Pompei, che non avvenne quindi solo dal lato Nord, dall’altro consente di studiare per la prima volta un tipo specifico di proiettili che venne usato in quella guerra. Gli altri, le ghiande-missile e le sfere di pietra, pur rinvenute nello stesso saggio, erano già stati trovat’ sia all’interno della città sia all’esterno, in particolare nella zona tra Porta Vesuvio e Porta Ercolano, appunto a Nord. Tiri sbagliati, questi ultimi, che, dicono gli archeologi, si erano andati a infrangere sulla cortina difensiva producendo solo danni alla muratura: buchi profondi anche dieci centimetri. In effetti, anche se i guasti materiali erano di poca entità, gli echi dei colpi e il ritrovamento di quei proiettili così grandi serviva a terrorizzare ulteriormente i civili inermi, tra i quali si contavano centinaia di morti e feriti. Il fatto è che in quell’assedio dell’89 avanti Cristo, Roma, che doveva dare una lezione ai ribelli pompeiani (si erano uniti a popolazioni sannite, oltre che agli abitanti di Stabiae e a quelli di Ercolano), aveva usato il meglio che la tecnologia bellica del tempo poteva offrire. Silla, il dittatore, aveva portato attorno alla città l’eccellenza delle legioni. Armate di tutto punto, con batterie da campagna terrificanti per potenza di fuoco: c’erano catapulte che sparavano proiettili di pietra pesanti anche 25 chilogrammi. E poi i dardi, appunto come quelli ritrovati, che potevano vedere triplicata la potenza distruttrice quando venivano armati con stoppa incendiata e in quel modo appiccavano il fuoco ai camminamenti e alle case. «Le ghiande-missile, tra le altre - sottolinea Grimaldi -, una volta restaurate, visto che sulla loro superficie veniva inciso il nome della legione d’appartenenza, potranno indicarci con certezza quali schiere attaccarono la città dal lato Sud e da chi erano guidate». L’indagine sulla Casa di Fabio Rufo tuttavia non ha dato solo informazioni sull’assedio alla città. I reperti che a mano a mano emergono dallo scavo stanno dando indicazioni sulla presenza di un tempio esterno alle mura cittadine. L’edificio dovrebbe essere dedicato a una dea e non a una divinità maschile come invece si ipotizzò quando Giovanna Bonifacio, archeologa della Soprintendenza di Pompei, trovò nella Casa del Bracciale d’oro, un’abitazione situata in prossimità di quell’area, delle lastre sacre con dediche e invocazioni al dio Apollo. Dallo scavo si stanno infatti recuperando statuine fittili di divinità femminili, intere e con vesti splendidamente panneggiate, ceramica miniaturistica, lucerne votive e pesi da telaio, il tutto ben conservato. Contestualmente, dalle indagini stanno emergendo anche numerose ossa di animali, in prevalenza ovini e suini. Intercettate, ancora, delle vasche per l’uso industriale dell’acqua, che arrivava nei contenitori mediante delle canalette. A quale produzione servissero, le vasche, ancora non è stato accertato. «Di certo - sottolinea l’archeologo - quando Fabio Rufo si fece costruire il bel portico con vista sul Golfo, già c’erano. Abbiamo bisogno di altri elementi. Alla fine, però, tutto quadrerà e potremo conoscere meglio Pompei e i suoi abitanti».

Colombario del tempo di Augusto affiora nella piazza di Ostia Antica

IL SEPOLCRO RITROVATO Colombario del tempo di Augusto affiora nella piazza di Ostia Antica
RENATA MAMBELLI
GIOVEDÌ, 12 LUGLIO 2007 - IL MESSAGGERO - Roma

Scoperto durante i lavori dell´Acea. Sarà protetto da una teca trasparente. Sui resti nelle urne di vetro avviata una ricerca antropologica

Intatto perché coperto da una piena del fiume e poi usato come discarica di anfore. Ma i colori, all´aria, hanno iniziato a ossidarsi

Un colombario del I secolo dopo Cristo molto ben conservato è venuto alla luce nella piazza centrale di Ostia Antica durante lavori di riqualificazione dello spazio. La scoperta è stata fatta in uno scavo dell´Acea nell´autunno del 2006, e, prima sorpresa, si è capito che circa trent´anni fa, quando è stato piantato il palo della luce con i relativi cavi che illuminavano la piazza, chi ha fatto i lavori era venuto evidentemente a conoscenza dell´esistenza dell´antico sepolcro. Ma, a quel tempo, forse si è preferito non dire nulla. Di quella fortuita prima scoperta resta la traccia della base del palo in cemento armato disinvoltamente collocata proprio sopra una delle tombe. La seconda sorpresa che lo scavo ha riservato è il buono stato in cui è stato trovato il colombario: le urne di ceramica e di vetro erano ancora al loro posto, con le ceneri dei defunti, le pareti dipinte di rosso e di verde con i loro colori e, accanto alle nicchie per le urne funerarie, due scheletri ben conservati, inumati probabilmente tra il II e il III secolo d. C., coperti da una lastra di mosaico in cui sono scritte le iniziali di uno dei defunti e la sua età al momento della morte: 28 anni.
«È un edificio funerario romano per sepolture ad incinerazione» spiega Simona Pannuzi, della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Ostia, «costruito in opera reticolata, con volta a botte, pianta rettangolare e le pareti rivestite di intonaco bianco acromo, decorato con fasce di colore verde. Nel colombario ci sono due edicole funerarie di epoca diversa, mentre il pavimento è in cocciopesto. Il colombario fa parte della grande necropoli che si estende in tutta questa parte di Ostia Antica, ma il suo valore dipende soprattutto dal buono stato di conservazione sia del manufatto che dei resti che custodiva. Proprio per questo la Soprintendenza ha anche avviato una ricerca con l´antropologo Walter Pantano per conoscere l´età e lo stato di salute dei corpi cremati. Come è noto allora la cremazione era diversa da oggi, sono stati conservati pezzi di ossa consistenti che permettono questo tipo di studi».
Il buono stato del colombario deriva dal fatto che, probabilmente, una piena del fiume in epoca molto antica l´ha ricoperto di fango. Poi, nei secoli, era diventato una discarica. Qui sono stati trovati frammenti dello stesso tipo che hanno formato il Monte dei Cocci di Testaccio: resti di anfore da olio di provenienza spagnola. «Erano ancora intatti i cardini in ferro della porta d´entrata», aggiunge l´archeologa, «e il ritrovamento delle urne di vetro è straordinario. Anche i colori si sono ben conservati, anche se stanno già iniziando a ossidarsi: il verde, alla luce, sta già volgendo in azzurro».
Proprio per questo, per salvaguardare lo stato del colombario e i tesori che custodisce, il presidente del Municipio XIII, Paolo Orneli, d´accordo con la Soprintendenza ha deciso di ricoprire di terra lo scavo, in attesa che venga approvato il progetto per proteggerlo con un lastra di plexiglas trasparente o di vetro. «Abbiamo un milione di euro stanziati per la pedonalizzazione di quest´area», spiega Orneli, «faremo una perizia di variante per aumentare le risorse e poter lasciare a vista, sotto una teca trasparente, il colombario di piazza Gregoriopoli. Credo che i lavori potranno partire tra circa sei mesi. Questa sistemazione farà parte del progetto che prevede che le due piazze del borgo di Ostia antica siano congiunte da un unico spazio percorribile solo da pedoni».

Nel museo archeologico di San Basilio (Ariano Polesine) un tesoretto di età repubblicana

Nel museo archeologico di San Basilio (Ariano Polesine) un tesoretto di età repubblicana
Giannino Dian
Venerdì, 13 Luglio 2007 IL GAZZETTINO

Nel piccolo museo archeologico di San Basilio, importante frazione del comune di Ariano Polesine, vi è un "tesoretto di età repubblicana". "Il tesoretto consistente in 124 monete d'argento di cui 98 sono denari e 26 quinari, che si datano entro un arco cronologico compreso tra il 207 e il 74 a.C. - ha detto Giovanni Gorini, ordinario di numismatica dell'Università degli studi di Padova al convegno promosso dall'Ente Parco Regionale Veneto Delta del Po "Verso la realizzazione di un parco naturalistico-archeologico del Delta del Po" - contenute in un ripostiglio di denari repubblicani trovati a seguito degli scavi effettuati a San Basilio. Dalla riscoperta del ripostiglio - ha continuato Gorini - si apprende che nella sua composizione originaria esso risultata composta da circa 700 esemplari, accumulati da una o due generazioni ma, per una serie di vicende accadute prima di effettuare gli scavi, moltissimi sono spariti". In apertura del convegno, coordinato da Roberto Grossele, responsabile del "Potenziamento apparato didattico, riallestimento del centro di San Basilio", presenti tra gli altri ilprtesidente del Parco, Federico Saccardin, i sindaci di Corbola, Marina Bovolenta, di Taglio di Po, Margaret Crivellari e l'assessore alla cultura di Porto Tolle, Silvana Mantovani, il vice sindaco di Ariano Polesine, Carlo Orlandini, ha portato il saluto dell'amministrazione comunale. Elia Lubian, consigliere della Fondazione della Cariparo, che l'ente è il terzo intervento che effettua sul territorio "per conservare e preservare la ricchezza storico-culturale del territorio, migliorare le strutture e quindi migliorare l'aspetto occupazionale". L'archietto Daria Viviani ha illustrato le azioni intraprese per l'acquisizione del terreno archeologico e la realizzazione della campagna di scavo. La direttrice del museo archeologico nazionale di Adria, Simonetta Bononi, oltre ad illustrare il lavoro svolto a San Basilio, ha ringraziato le varie amministrazioni comunali di Ariano Polesine che si sono succedute nel tempo per "gli impegni assunti per la continuazione degli scavi e la valorizzazione del sito". Dopo l'intervento di Maricarmen Pepe che ha illustrato le varie monete ritrovate durante gli scavi che ora fanno parte del "tesoretto di San Basilio" e di Antonella Guidazzoli, del laboratorio "Visit Cineca" di Bologna che ha che ha parlato sull'obiettivo di realizzare "uno scenario virtuale per far emergere il sito archeologico e il territorio", il presidente Saccardin ha concluso i lavori annunciando l'intenzione di effettuare nel prossimo mese di settembre, altre interessanti iniziative di visitazione e conoscenza degli scavi di S. Basilio.

lunedì 28 aprile 2008

Il Pantheon visto dal satellite segreti di un tempio inedito

Il Pantheon visto dal satellite segreti di un tempio inedito
FRANCESCA GIULIANI
DOMENICA, 15 LUGLIO 2007 la repubblica - Roma

Per la prima volta un rilievo tridimensionale del monumento è stato realizzato grazie all´incrocio tra tecnologie gps e modelli matematici

Uno strumento utile alla tutela e un modello ideale per le aree di grande superficie. Stesso lavoro in corso sulla Domus Aurea

Nel Pantheon - alla lettera, la casa di tutti gli dei - è entrato un gps di tipo Leica System 1200 e il monumento, tra i meglio conservati del mondo romano ma ancora privo di una sua "editio princeps" e per larga parte inedito, è stato avvolto da centinaia di milioni di piccoli punti che hanno portato alla definizione, secondo un modello matematico, di una immagine tridimensionale praticamente perfetta. È così che si possono vedere da vicino tutti i dettagli di questo spazio immenso, i marmi, le cornici, la cupola capolavoro assoluto di architettura, grazie a uno strumento di altissima tecnologia che sarà utile alla tutela del monumento, ai restauratori, a chi deve proteggerlo e quindi servire come analisi preliminare, una sorta di status quo immortalato per sempre, senza dover più fare ricorso, per esempio, ai ponteggi preliminari ad ogni intervento di recupero.
Satelliti, milioni di punti, occhi elettronici e modelli matematici: un´alchimia preziosa per questa testimonianza della Roma antica, scrigno di tesori e custode di una stratigrafia ancora tutta da scoprire, grazie alla quale il Pantheon di Adriano, trasformato dal VII secolo in chiesa, potrà finalmente essere meglio studiato e protetto. Un lavoro senza precedenti, ad altissima tecnologia finito all´interno di un semplice cd che sarà lo strumento fondamentale ad ogni ulteriore ricerca. "Pantheon storia e futuro. Nuove tecnologie applicate ai beni culturali" è il titolo (accompagnato anche dalla pubblicazione di un bel volume ricco di illustrazioni, con testi di Giovanni Belardi e Andrea Carandini edito da Gangemi) e nasce grazie a una convenzione stipulata dalla direzione regionale dei Beni culturali e paesaggistici del Lazio con la società Pdm Gheos che si è occupata della realizzazione del rilievo fotografico all´interno e all´esterno del "tempio" con una tecnologia scanner-laser.
È andato bene il lavoro del Pantheon e infatti sarà utilizzato come prototipo per un progetto più ampio che sta proseguendo con analoghe operazioni effettuate sulla Domus Aurea, rivelandosi come particolarmente indicato per i monumenti di grande superficie ed estensione. Al tempo stesso si tratta di uno strumento gradevole anche per i semplici appassionati di arte o per i turisti: il dvd verrà messo in vendita nel bookshop del monumento, accessibile a tutti. Chiunque potrà portarsi il Pantheon a casa, navigare liberamente a volo d´uccello dentro la chiesa e avvicinarsi ai dettagli che ritiene più interessanti.
All´interno del Pantheon, molti interventi di manutenzione sono stati realizzati nell´ambito di questo ultimo progetto e negli anni recenti. Tra questi, la manutenzione dell´intradosso della cupola realizzato grazie ad una macchina alta oltre 44 metri che ha lavorato nei tempi stessi di apertura del monumento al pubblico. Un accurato restauro è stato effettuato su una delle due ante della colossale porta d´ingresso, bloccata sugli antichi cardini ripristinati dopo il restauro.
Giovedì 19 luglio alle ore 19 nel monumento in piazza della Rotonda la presentazione (ad inviti) del volume e del dvd alla presenza del cardinale Paul Poupard e del ministro per i Beni culturali, Francesco Rutelli.

ROMA - riemersi gli ambienti termali e una parte di quelli residenziali della Villa delle Vignacce, nel Parco degli Acquedotti.

ROMA - riemersi gli ambienti termali e una parte di quelli residenziali della Villa delle Vignacce, nel Parco degli Acquedotti.
di LUCA BRUGNARA
Venerdì 20 Luglio 2007 ,IL MESSAGGERO

Duemila anni nascosta sotto terra, ma ora è venuta alla luce. Grazie agli scavi iniziati un anno fa, sono riemersi gli ambienti termali e una parte di quelli residenziali della Villa delle Vignacce, nel Parco degli Acquedotti. Si tratta di un'area archeologica finora poco conosciuta, se non nelle parti in superficie: la villa venne scoperta nel 1780, con ricerche volute da Papa Pio VI, ma all'epoca erano emerse solo sculture, come le statue di Tyche e Ganimede, oggi ai Musei Vaticani. Ora, gli scavi hanno permesso di considerare almeno una parte della villa del I secolo dopo Cristo e non di età adrianea (II secolo), come finora si riteneva e soprattutto una delle più ampie e ricche di epoca imperiale. «La villa - spiegano i condirettori degli scavi, Darius A. Arya e Dora Cirone - ha avuto diversi proprietari, tra cui Quinto Servilio Pudente, ricco proprietario di fabbriche di laterizi del II secolo d.C. E' uno dei più importanti ritrovamenti del suburbio romano degli ultimi anni».
Le terme presentano due o tre piani e gli esperti ipotizzano che fossero di ampie dimensioni e sontuosamente decorate: durate le operazioni, sono riemersi marmi, tra cui capitelli, colonne, capitelli di lesena, frammenti di statue e rilievi. Ancora ben conservati i mosaici pavimentali, in tessere bianche e nere, con decori geometrici, che si aggiungono al ritrovamento di un crollo di volta, rivestita da un mosaico in paste vitree, con motivi di piccole palme colorate di verde e giallo. Gli scavi sono a ridosso di via Lemonia e rientrano nelle due campagne condotte tra il 2006 e il 2007 dalla Sovrintendenza comunale ai Beni culturali, con l'American Institute for Roman Culture e la sponsorizzazione di 75.000 euro di American Express. «L'impianto termale - precisa Cirone - è stato utilizzato per molti secoli, dal I al VI, ha avuto successive ristrutturazioni tra il II e III secolo d.C. Sono presenti decori mai scoperti finora, come il pavimento della latrina, fatto solo con frammenti di anfore».
Ma la villa testimonia anche le tappe della storia romana. «In età successiva - aggiunge l'archeologa - le terme furono spostate in un'altra area, più a sud e questa parte divenne una sorta di deposito. La struttura venne poi trasformata in una sorta di fortilizio, con la chiusura di numerose porte e finestre: è probabile che ciò avvenne durante l'assedio di Roma da parte dei Goti, stanziati a Torre del Fiscale. Il toponimo "Vignacce" può derivare dalle vigne dell'800, quando il parco era della famiglia Torlonia o da "pignacce" con cui si chiamavano i cocci di anfore rotte usati per alleggerire le strutture delle volte». Le operazioni dureranno, complessivamente, 5 anni. «La collaborazione con l'American Institute for Roman Culture - sostiene Paola Virgili, della Sovrintendenza comunale - è frutto di una convenzione in base alla quale è stato concesso il sito del Parco degli Acquedotti mediante una sponsorizzazione no-profit. Gli scavi, approvati e supervisionati dalla Sovrintendenza comunale, sono a spese dell'American Institute, che si occuperà delle operazioni di restauro, copertura e messa in sicurezza dell'area». Gli scavi sono visitabili, fino al 27 luglio, il mercoledì e il giovedì, dalle 16 alle 17.

FANO -Riaffiorano due antiche tombe romane

FANO -Riaffiorano due antiche tombe romane
MASSIMO FOGHETTI
Edizione del 20 luglio 2007, CORRIERE ADRIATICO

Vicino all’Arco d’Augusto durante i lavori di restauro della chiesa di San Michele

E’ una coincidenza che ha dello straordinario: mentre la città, nella settimana della Fano dei Cesari, rievoca i fasti dell’antica Roma, è riapparso un autentico abitante di quel periodo, seppur la datazione venga fatta risalire al periodo post-augusteo. Sono iniziati ormai da diversi giorni i lavori per il recupero della chiesa di San Michele, ad opera della Fondazione Carifano, sotto il controllo della Soprintendenza ai beni archeologici della Marche, essendo il luogo contiguo all’arco di Augusto, proprio sul posto dove si trovava il torrione di sinistra della principale porta della città. Appena due giorni fa è stata fatta una scoperta importante, quanto inattesa: proprio a due passi dall’arco e dal torrione, di cui sono venuti alla luce i resti conservati sotto il pavimento della chiesa, è stata rinvenuta una tomba, anzi due tombe (la seconda è ancora da scavare), con copertura “alla cappuccina”, ovvero con i caratteristici tegoloni, con tanto di bollo di fornace, con i quali gli antichi romani segnavano le tombe, ponendovi sopra un tettuccio a spioventi.

Il ritrovamento è stato subito oggetto di indagine della Soprintendenza. Gli scavi archeologici vengono compiuti a cura della società Tecne che vi sta impiegando due archeologhe: Lucia Cesarini e Alessandra Boldrini. La tomba che è stata scoperta, si trova per buona parte sotto un muro divisorio della chiesa, al di fuori comunque delle mura cittadine. Al momento è stato possibile metterne allo scoperto soltanto un terzo. La datazione della sepoltura, secondo il dirigente della Soprintendenza Gabriele Baldelli, è stata riportata al V - VI secolo dopo Cristo. Siamo dunque nella fase di passaggio tra la Fano Romana e la Fano Medioevale: un periodo buio in cui i grandi monumenti eretti nella Fanum Fortunae, iniziano a cadere in rovina.

Due secoli più tardi, in età longobarda, si realizzarono tombe anche nella cavea del teatro romano, segno che il maestoso edificio aveva perso la sua funzione di aggregazione sociale. Anche la tomba tornata alla luce nei pressi dell’arco di Augusto è relativa a un periodo di decadenza, quando la funzione di rappresentanza del maestoso arco, voluto dall’imperatore per segnare l’arrivo della Flaminia in prossimità del mare, era venuta a scemare.

“Sarebbe interessante – ha evidenziato Baldelli – riuscire a mettere in luce l’intera tomba per verificare la presenza di una moneta (l’obolo di Caronte), reperto significativo per compiere una datazione più esatta”.

Di simili sorprese comunque potrebbe riservare la tomba vicina, di cui è stata scoperta l’esistenza, ma non è stata ancora scavata. Nel frattempo il professor Mario Luni dell’Università di Urbino ha annunciato sorprendenti rivelazioni nel corso di una sua conferenza programmata per domani alle ore 10.30 nella sala Verdi, dal titolo “Riscoperta attuale di Fanum Fortunae”. Durante l’incontro, programmato dall’Ente Manifestazioni, verranno resi noti i risultati delle ultime scoperte archeologiche compiute in città e verranno dati suggerimenti anche su come valorizzare le rovine venute alla luce, specie quelle del teatro romano e dell’interrato dell’ex Luigi Rossi, dove sta iniziando l’intervento di sistemazione finanziato dal Comune di Fano con una spesa di 750.000 euro.

Casal Bertone: torna alla luce la conceria dell'antica Roma

Casal Bertone: torna alla luce la conceria dell'antica Roma
Maria Grazia Filippi
Il Messaggero, 01-08-2007

Emersi 5 colombari, un basolato e una "Monica" con ampie vasche dove venivano lavorati pelli e tessuti

Gli odori dovevano essere fortissimi, poco meno di 2000 anni fa, dalle parti di via Casal Bertone. Proprio nei paraggi dell'attuale e gigantesco centro commerciale tra la Tiburtina e la Prenestina, infatti, pellami e tessuti venivano trattati e trasformati in una grande fabbrica dalle gigantesche vasche contenenti liquidi organici di ogni tipo. Era così infatti che avveniva la lavorazione nelle grandi "fulloniche", con la stessa manualità che ancora oggi si utilizza in Marocco, nell'antica città imperiale di Fez. Ed era proprio così che avveniva anche a Roma nel II o III secolo dopo Cristo, epoca a cui si fa risalire il ritrovamento di un complesso di 97 catini e 3 enormi vasche in cocciopesto a una decina di metri di profondità sotto il livello stradale, emerse nel corso di uno scavo archeologico preventivo alla realizzazione di un tratto residuo di linea ferroviaria ad alta velocità Roma Napoli.
«Le indagini sono avvenute tra il 21 maggio e il 22 giugno - ha spiegato Stefano Musco, l'archeologo della Soprintendenza Archeologica romana responsabile del cantiere affiancato da Angela Caspio - evidenziando una serie di ritrovamenti di estremo interesse. La fullonica, appunto, un complesso pressoché unico per estensione, articolazione e condizioni, che prosegue sicuramente anche al di là dello scavo attualmente effettuato e che, anzi, contiamo di poter proseguire ad indagare allargandogli interventi in direzione della via Collatina. Accanto alla fullonica. che conferma la presenza a Roma di fabbriche di questo tipo come ritrovato anche a Santa Cecilia in Trastevere, è emerso un basolato largo all'incirca 4 metri che dovrebbe corrispondere al tracciato viario probabilmente identificabile con la via Collatina antica di cui non si conoscevano tratti in questa zona, e una serie di 5 colombari, cioè di tombe databili alla tarda età repubblicana, di cui 2 sono già stati scavati mettendo, in evidenza la presenza di due gallerie cippi marmorei».

I ritrovamenti archeologici, che rappresentano un unicum a Roma proprio per l'estensione dell'area di pertinenza che è di circa 1000 metri quadrati e lasciano ipotizzare la presenza di una delle più grandi fulloniche della città, non potranno quasi siscuramente essere lasciati nel loro luogo d’origine.
“La possibilità di conservazione del complesso confligge in maniera evidente con la presenza di
Due gallerie della linea ferroviaria che non possono assolutamenente essere deviate - ha infatti spiegato Musco - per questo abbiamo già in programma di effettuare una complessa operazione di smontaggio dell’area archeologica ritrovata e del suo riassemblaggio non molto lontano dai .luoghi del ritrovamento, in un pianoro che il piano dei lavori ha già destinato all'esposizione dei ritrovamenti archeologici. Un metodo ancora poco consueto che per la prima volta verrà utilizzato nella capitale - conclude Stefano Musco - che pre senta molte difficoltà di applicazione e che prevede lo studioaccuratissimo di tutti i dettagli prima di effettuare lo sposta mento dei reperti, ma che ga rantisce la futura conservazione e fruizione di un'area così importante da un punto di vista storico-archeologico».

Milano. Rinasce sotto la Borsa teatro-museo romano con gli odor di 22 secoli fa

Milano. Rinasce sotto la Borsa teatro-museo romano con gli odor di 22 secoli fa
Annachiara Sacchi
Corriere della Sera 5/8/2007

La botola del tempo è sempre stata lì, nascosta tra le vie della Milano della finanza, coperta da strati e secoli di vita cittadina. Il viaggio inizia sotto la Borsa, basta un piano di scale per tornare indietro di duemila anni. Si parte al buio, ma è un attimo: luci, suoni e odori aggrediscono chiunque affronti questa avventura. C'è un teatro romano nelle viscere dì Milano. E visitarlo è un'ubriacatura dei sensi. Perché non si tratta di qualche muro in rovina spiegato da quattro pannelli. Questo è il primo «museo sensibile» d'Italia. Un percorso archeologico modernissimo, che trascina il visitatore nella Milano dell'età augustea, che lo accompagna in un'epoca lontana, quando gli uomini si profumavano con acqua di rose e sulle gradinate si vociava e si mangiava. Ora è tutto pronto: in autunno, dopo 22 secoli, il teatro sarà restituito ai milanesi.
L'antica Roma riaffiora dalle fondamenta di Palazzo Turati e Palazzo Mezzanotte. Con i resti di un teatro imponente e gli odori di 22 secoli fa: zafferano da diffondere durante gli spettacoli, acqua di rosa per profumarsi, vino dolce da bere tra un atto e un altro, sentori umani e animali. Un'attenta ricerca storica e le suggestioni di un'epoca lontana, spesso conosciuta solo sui banchi di scuola.
Dopo due anni di scavi, quattro di studi archeologici condotti dalla Cattolica e un milione di euro investiti, la Camera di Commercio ha ultimato gli allestimenti del museo. Riportando alla luce il teatro da quasi 9 mila posti costruito in età augustea (primo secolo avanti Cristo — primo dopo Cristo), quando Milano contava 25 mila abitanti e si estendeva su venti ettari di superficie. Pausa estiva e poi l'inaugurazione: tra settembre e ottobre sarà aperto il più antico edificio pubblico di Milano. L'ingresso, naturalmente, da via San Vittore al Teatro.
Museo gratuito, interattivo e «sensibile»: olfatto, vista e udito dei visitatori sono stimolati durante tutto il percorso. E il viaggio inizia proprio così, con un'immersione tra gli odori del tempo: zafferano, acqua di rose, vino, afrori corporali. Quattro «miscele» (emanate da altrettanti pannelli) che inebriano, stordiscono, evocano, mentre tutto intorno una musica (creata apposta per il museo dal maestro Francesco Rampichini) racconta di carretti che cigolano, cavalli che nitriscono, urla di bambini. Ettore Lariani, l'architetto che ha seguito l'allestimento, spiega: «Abbiamo voluto entrare nello spirito del tempo con varie suggestioni. Attenzione però: questo non è un luna park, ma un percorso museale dal profilo alto che si avvicina all'arte contemporanea». Il primo in Italia.
Avanti tra le rovine: la passerella trasparente conduce in mezzo alle pietre degli spalti, il viaggio nel tempo continua. Il suono attira lo sguardo verso un muro. Parte una videoproiezione «acusmetrica», su un telo viene rappresentato il sistema di fondazione del teatro. Linea dopo linea, le note che diventano più acute man mano che si sale: «Vogliamo raccontare in una forma nuova», analizza Rampichini.
Ultimo atto, il «Gigante» — così lo definì Pompeo Castelfranco, l'archeologo che per primo identificò alla fine del XIX secolo — rivela i suoi segreti. Un sensore proietta su due statue lisce, bianche, le immagini di due attori. Un uomo recita (in latino) il prologo della «Casina» di Plauto: è Giorgio Albertazzi.
L'antico e il moderno insieme. Le nuove tecnologie e migliaia di pietre antiche che per secoli sono rimaste nascoste a dieci metri di profondità. E un altro tassello della Milano romana, che si aggiunge all'anfiteatro di via De Amicis, usato per la caccia alle fiere, al museo archeologico di corso Magenta, a San Lorenzo.
La visita dura circa venti minuti, l'ingresso è libero negli orari di ufficio. Non resta che godersi il viaggio nel tempo e immaginarsi un teatro frequentato dal pubblico colto — quello che assisteva alle tragedie di Eschilo — e da quello più popolare abituato a seguire mimi, acrobati e naumachie, le battaglie navali.
Carlo Sangalli, presidente della Camera di Commercio, è soddisfatto: «II teatro romano rientra a pieno titolo nel patrimonio culturale della città. È un percorso suggestivo, culturale, un contributo in più per facilitare la visita e per renderla più piacevole a tutti».

L'ultimo spettacolo fu una battaglia navale
Il teatro romano funzionò fino agli inizi del V secolo, quando Milano, capitale dell'impero romano (lo fu dal 286 al 402), riceveva la corte. Il Palazzo dell'imperatore Massimiliano sorgeva tra via Gorani e via Santa Maria alla Porta. 11 teatro mantenne la funzione di edificio per spettacoli fino alla fine del IV secolo d. C. Nel 398 vi fu celebrata la designazione a console del Patrizio Manlio Teodoro: in quell'occasione si esibirono buffoni, mimi, musicisti. Vi si svolse anche una battaglia navale (naumachia). Fu questo, forse, uno degli ultimi spettacoli.

Fu distrutto nel 1162 da Federico Barbarossa
Sul finire del IV secolo d. C, gli spettacoli teatrali conobbero un forte declino per la condanna della Chiesa. Da due atti del Comune di Milano del 1119 e del 1130 si desume che la cavea continuò a essere in uso almeno fino al XII secolo: là si radunava il senato cittadino per deliberare su questioni di vario genere. È probabile che il teatro, come gran parte della città, sia stato distrutto nel 1162 da Federico Barbarossa. Successivamente, sui ruderi dell'edificio, furono costruite varie chiese (san Vittore al Teatro, Santa Maria Fulcorina): la zona divenne polo di edifici religiosi e privati.

La flotta di Neapolis scavata nell’abete

CAMPANIA La flotta di Neapolis scavata nell’abete
Carlo Avvisati
06/08/2007 IL MATTINO

Perché potessero tenere meglio il mare, anche se il lavoro che dovevano fare era solo quello di trasbordare fino al porto dell’antica Neapolis i carichi dalle navi di grosso pescaggio ancorate al largo, i maestri carpentieri quei barconi li avevano costruiti quasi interamente con legno d’abete. Conoscenza delle proprietà del materiale, impermeabile e resistente all’aggressione dell’acqua salmastra, oltre a facilità di reperire la materia prima, furono gli elementi che indirizzarono la scelta verso quella materia prima. La scoperta è stata fatta dagli scienziati della facoltà di Agraria della Federico II, a Portici, che hanno avuto dalla Soprintendenza archeologica di Napoli il compito di analizzare i materiali di cui erano fatti i natanti, trovati durante gli scavi del cantiere del Metrò di Piazza Municipio, nel 2003. «In pratica - racconta Gaetano di Pasquale, docente di Tecnologia del legno - attraverso lo studio abbiamo avuto la possibilità di osservare uno spaccato di quelle che dovettero essere le risorse territoriali e le tecnologie possedute in epoca romana». Uno dei tre natanti, difatti, è unico nel suo genere - altri due simili si trovano a Tolone, in Francia, e comunque non si sono conservati come quello di Napoli - e per quest’area del Mediterraneo: presenta una chiglia molto larga, con bordi poco alti e la prua piatta in modo da favorire l’attracco al molo e il carico e scarico merci, come sottolineò all’epoca del rinvenimento Daniela Giampaola, l’archeologa responsabile di scavi e recupero. Va considerato, ancora, che la costruzione della barca, con lo scheletro di base al quale si sovrapponeva il fasciame, è del tutto differente dalle architetture successive. Dato, questo, che contribuisce a confermare ipotesi su particolari tecniche di costruzione in uso nella carpenteria marittima del I secolo dopo Cristo. Così come dagli scavi si è avuta la possibilità di ricostruire l’antica linea di costa con l’impianto portuale di Neapolis, poggiante in una insenatura posta all’interno di un cratere vulcanico che arrivava fino all’attuale piazza Municipio. Le analisi eseguite alla facoltà di Agraria, però, essenzialmente hanno permesso di accertare quale fosse la diffusione in Campania e in prossimità dell’area vesuviana, in particolare, delle diverse specie vegetali. «L’abete, ad esempio - sottolinea il professore - quello che volgarmente chiamiamo albero di Natale e che oggi non solo è scomparso in Campania ma è molto raro in tutto l’appennino meridionale, costituiva per più del 70 per cento il fasciame interno di due delle tre barche». Il dato è sicuramente interessante anche perché quella fu la specie usata dai falegnami ercolanesi per approntare tutti gli infissi di porte e finestre della loro città. Oltre all’abete per le barche venne usato anche il cipresso, legno che ha origine nel Mediterraneo orientale e in genere è utilizzato per riti sacri, il noce e il larice, proveniente, quest’ultimo, dal riutilizzo di fasciame appartenuto ad altri natanti, visto che il larice è specie alpina. Per i «cavicchi», poi, usati al posto dei chiodi, si sceglievano legni del tipo: ulivo e corbezzolo, durissimi e resistenti all’acqua. Particolare interessante è il rinvenimento, unico per ora, di un frutto della «palma dum» di origine africana, nota anche come «avorio vegetale» per l’uso che se ne fa in falegnameria. I dati raccolti, poi, saranno confrontati con gli altri ricavati da genetisti napoletani della Federico II e specialisti in Scienze forestali di Firenze in maniera da verificare l’esattezza delle conclusioni anche attraverso il Dna delle specie vegetali.

Adriano, un colosso difendeva l'impero. Trovata in Turchia, ai confini degli antichi tenitori di Roma, una statua in marmo alta cinque metri

Adriano, un colosso difendeva l'impero. Trovata in Turchia, ai confini degli antichi tenitori di Roma, una statua in marmo alta cinque metri
ANTONIO ANGELI
Il Tempo, 11 agosto 2007

Archeologi entusiasti: «Un ritratto bellissimo» L'opera risale al secondo secolo dopo Cristo

E’ IL PIÙ conosciuto e studiato degli imperatori romani, eppure il più misterioso: Adriano è il simbolo stesso di Roma Imperiale. Magnanimo e spietato, riflessivo e irrequieto, di Publio Elio Traiano Adriano sappiamo quasi tutto, a cominciare dal suo aspetto, rivelato da numerosissime statue che ci sono giunte praticamente intatte. E poi monete e busti, bellissimi, come quello conservato nella Capitale, al Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps. Volendo vedere immagini di Adriano si può viaggiare per mesi: dalle tante città italiane al Louvre di Parigi, fino ad Istanbul. Adriano era cosmopolita e instancabile: durante la sua vita viaggiò moltissimo. E dove andava veniva accolto da trionfali inaugurazioni delle sue effigi. Se non ne trovava si accordava subito con i reggenti locali per erigere sue grandi statue. Dove non arrivavano le statue giungevano le monete: anche di quelle Adriano inondò l'impero. Eppure l'immagine più bella e trionfale dell'imperatore ancora dovevamo vederla. È. rimasta nascosta, per secoli, ed è stata ritrovata in questi giorni.
Una gigantesca, raffinatissima, statua in marmo dell'imperatore Adriano sta emergendo dallo scavo archeologico di Sagalassos nella Turchia del sud. Le ricerche sono tuttora in corso perché la statua è spezzata in diversi frammenti che non sono ancora stati tutti trovati. All'inizio del secondo secolo dopo Cristo Sagalassos era una grande città romana dove si sentiva foltissimo l'influsso della cultura ellenica. Tra le rovine, dal 1990, ha preso il via una grande ricerca scientifica dell'Università cattolica di Lovanio, in Belgio.
Gli archeologi, alcuni giorni fa, hanno trovato per primo un colossale piede destro, che ha subito entusiasmato gli studiosi, invogliandoli a continuare le ricerche nella zona. Il piede, di ottanta centimetri di lunghezza, ha un raffinato calzare e questo, unito alle dimensioni della scultura, ha convinto gli studiosi che stavano «dando la caccia» a un personaggio importantissimo. Finora, oltre al piede, sono stati ritrovati la testa, alta settanta centimetri, e una gamba di un metro e mezzo. Gli archeologi belgi sono certi di riuscire a recuperare tutti i frammenti rimanenti, finiti sotto terra, probabilmente, a causa di un terremoto.
«La statua era alta da 4 a 5 metri e la testa è uno dei più bei ritratti mai trovati dell'imperatore Adriano», ha detto emozionato e felicissimo il direttore degli scavi, l'archeologo belga Mare Waelkens, dell'Università cattolica di Lovanio.
Dopo queste entusiasmanti scoperte gli studiosi stanno proseguendo i lavori con tutta l'energia possibile, in questo sito archeologico dove già sono stati effettuati importanti interventi. La missione dell'Università di Lovanio ha restaurato, di recente, un grande edifìcio termale, un Macellum, l'emporio alimentare della città dove affluivano merci locali e d'importazione, ed un tempio dedicato allo stesso Adriano e al suo successore Antonino Pio.
L'imperatore Adriano, che regnò tra il 117 e l'anno della sua morte, il 138, compì un lungo viaggio in Asia Minore che, allora, nel 130, era una delle frontiere dell'impero. Di Adriano sappiamo tanto, ma non tutto, e ad alimentare un alone di mistero ha contribuito una sua autobiografia, andata perduta. Adriano era ossessionato dai confini: voleva che fossero ben definiti e meglio difesi. Lui, l'imperatore del Vallo, desiderava, usando un termine moderno, che i confini fossero «soste-nibili», cioè poco costosi, in termini di uomini e di mezzi. Il suo viaggio in Asia Minore servì a riportare i limiti dell'impero all'Eufrate, rafforzando il dominio sulla via al Golfo Persico, che il suo predecessore, Traiano aveva aperto e poi dimenticato. Proprio per questi viaggi di Adriano in tanti siti archeologici vengono ritrovati tempi, porte e statue dedicati all'imperatore. Erano tutti destinati a celebrare la visita in quelle terre.
La storia gloriosa delle rovine greco-romane di Sagalassos inizia nel 1706, furono individuate da Paul Lucas, studioso in missione nell'Anatolia inviato da Luigi XIV, il re Sole. Divennero poi note agli archeologi europei alla metà dell'800, grazie agli studi dell'inglese William Hamilton. Oggi quest'area archeologica di notevole interesse torna al centro dell'attenzione grazie all'imperatore Adriano.

Ritrovata in Turchia grande statua di Adriano

Ritrovata in Turchia grande statua di Adriano
T.P.
Il Messaggero, 11 agosto 2007

Una gigantesca e molto finemente scolpita statua in marmo dell'imperatore romano Adriano, è stata ritrovata ed in parte riportata alla luce tra le rovine dell'antica città greco-romana di Sagalassos nella Turchia centro-meridionale. «La statua era alta da 4 a 5 metri e la testa è uno dei più bei ritratti mai trovati dell'imperatore Adriano», ha detto con euforia e visibile emozione il direttore degli scavi, l'archeologo belga Mare Waelkens, della Università cattolica di Lovanio in Belgio. Finora sono stati portati alla luce oltre alla magnifica e grande testa lunga ben 70 centimetri, una gamba lunga un metro e mezzo ed un piede di 80 centimetri, ma gli archeologi belgi sono certi di riuscire a ritrovare tutti i frammenti rimanenti, interratisi in seguito ad un terremoto passato.
Per primo è stato ritrovato, domenica scorsa, il piede della statua, che ha subito attirato l'attenzione degli archeologi, oltre che per le dimensioni insolite, anche per il sandalo che vi recava scolpito: era indubitabilmente il sandalo di un imperatore ed apparteneva ad una statua di proporzioni tali che poteva raffigurare solo un imperatore.
Da questa prima esaltante scoperta i lavori sono divenuti frenetici ed è venuta fuori prima la gamba e poi, finalmente la magnifica testa: era indubitabilmente quella di Adriano, anche per la sua somiglianza con altre statue dello stesso imperatore.
Adriano che regnò nella I parte del II secolo dopo Cristo (117-138) compì in Asia Minore nel 130 d.C. uno dei suoi lunghi viaggi nei tenitori periferici dell'Impero al fine di rafforzarne le frontiere esterne. Il suo viaggio in Asia Minore servì a riportare i confini dell’Impero all’Eufrate, consolidando l'accesso romano al Golfo Persico, che il suo predecessore Traiano era riuscito ad aprire solo temporaneamente.
È questa la ragione per cui in vari siti archeologici vi sono vari tempi, porte e statue di Adriano destinati a onorare la visita dell'imperatore in quelle terre. Un tempio di Adriano è in via di ricostruzione nella capitale Ankara ed un altro tempio dedicato allo stesso imperatore, tornerà presto alla luce grazie agli scavi in corso nell'antica Cyzicus, nella cittadina di Erdek, nella provincia occidentale turca di Balikesir.

(Frosinone) Sotto la superstrada una via romana

(Frosinone) Sotto la superstrada una via romana
Emiliano Papillo
Il Messaggero – Frosinone, 15-08-2007

I lavori continuano: si farà una sopraelevata. Fiorletta: «Creeremo un'area archeologica»

La strada riporta alla luce dieci giorni fa dalla Sovrintendenza per i Beni Archeologici del Lazio nel cantiere della Superstrada Sora-Frosinone-Ferentino, è di epoca romana. Il tratto scoperto fin qui misura quaranta metri lineari e quattro metri di larghezza.
«Posso affermare senza ombra di dubbio che si tratta di una strada di epoca romana - ha confermato ieri la dottoressa Sandra Gatti della Sovrintendenza ai Beni Archeologici del Lazio - Bisogna ancora stabilire la datazione esatta, ma si tratta di un reperto antico molto bello da vedersi ed anche raro, in quanto non si tratta di una strada Consolare, ma di raccordo tra due centri vicini. In termine tecnico si chiama strada Glareata, ovvero un battuto di ciottoli e terra dalla forma e fisionomia abbastanza particolari», continua la Gatti. «Abbiamo iniziato questi sondaggi prima del termine dei lavori della Superstrada in modo da non rischiare eventuali fermi durante l'esecuzione degli stessi. Avevamo una sorta di presentimento che qualcosa avremmo trovato. Essendo un'area sconosciuta all'archeologia, era probabile trovare qualche reperto. Ora i sondaggi continueranno, analizzeremo palmo a palmo la zona perché potremmo trovare altre sorprese positive. Il tratto di strada è breve, dovrebbero essercene altri». Fortunatamente la strada, in località Le Mandre non bloccherà i lavori del cantiere della superstrada. Proprio in quel tratto infatti verrà realizzata una sopraelevata che non intaccherà il reperto. Il sindaco di Ferentino pensa già ad un percorso archeologico proprio al di sotto della superstrada dove passerà la sopraelevata. «Al ritorno dalle vacanze contatterò immediatamente la dottoressa Gatti. La notizia di un nuovo reperto archeologico non fa che confermare il fatto che Ferentino sia stata una città antica di notevole importanza con i segni dell'antichità ancora visibili ed anzi alcuni ancora da scoprire. Mi riempie di gioia il fatto che i lavori non saranno bloccati. Mi adopererò per creare un percorso archeologico. Attraversare la superstrada e vedersi di sotto un piccolo museo archeologico è una bellezza ed importanza rara» ha spiegato il sindaco Piergianni Fiorletta. Soddisfazione è stata espressa dai residenti che hanno seguito passo dopo passo il ritrovamento. «Un altro pezzo di storia che torna alla luce - commenta Marco Maddalena che vive poco lontano dal ritrovamento - Faremo di tutto perché il sindaco sposi il progetto di un'area archeologica sotto la sopraelevata della superstrada. Sarebbe uno spettacolo unico».

Roma. Rinasce l'Acquedotto Vergine. A giorni sarà presentato all'Acea, al Comune e alla Sovrintendenza il progetto di restauro

Roma. Rinasce l'Acquedotto Vergine. A giorni sarà presentato all'Acea, al Comune e alla Sovrintendenza il progetto di restauro
CINZIA TRALICCI
Il Tempo, 15 agosto 2007

UN BY PASS per l'Acquedotto Vergine Antico in attesa del progetto definitivo di ripristino del tratto danneggiato durante 10 scavo di un cantiere ai Parioli. Il passante, realizzato a spese della ditta che ha provocato l'ostruzione, è stato ultimato a luglio in accordo con Acea, Comune e Sovrintendenza. Costituito da un pompaggio e da un tratto di tubazione esterna che aggira il tratto di acquedotto ostruito il by pass - dicono all'Acea - permette di regolare l'alimentazione delle antiche condotte e dunque rifornire l'acqua alle antiche fontane di Roma. Inoltre, la stessa ditta è in procinto di presentare entro poche settimane il progetto definitivo di disostruzione e di restauro del tratto di Acquedotto danneggiato. Progetto che sarà sottoposto al vaglio e all'approvazione di Acea, Comune e Sovritendenza.
Roma è una delle poche città italiane dove esiste un doppio sistema di distribuzione: una rete di trasporto e distribuzione dell'acqua potabile; e un altro per quella non potabile. Questa particolarità consente un uso molto appropriato sia dell'acqua potabile, quella che arriva nelle case e esce dai Nsoni, da cui è possibile bere, sia dell'acqua non potabile che alimenta le fontane pubbliche e monumentali, ad esempio quella di Trevi e del Pantheon, e serve il sistema di annaffia-mento dei giardini comunali. Ovviamente l'Acquedotto Vergine Antico, da non confondere con il Vergine Nuovo, è parte fondamentale del sistema non potabile.
Ma ciò che rende davvero unico l'Aquedotto Vergine Antico è la sua inalterata funzionalità nel corso dei millenni e la sua inviolabilità che ha permesso all'imponente opera di arrivare, tutto sommato intatta, fino ai giorni nostri. Il fascino dell'Acquedotto Vergine Antico è nella sua stessa storia, trascorsa come l'acqua che trasportava all'interno della Città Eterna, documentandone le varie epoche. Altrimenti non si spiegherebbero le tante stramissioni, realizzate anche da televisioni straniere, incentrate proprio sulla bellezza, sull'integrità e sul sistema idraulico del quale gli ingegneri romani furono maestri.
Del resto basta un'occhiata alla scheda sintetica sulla storia dell'Acquedotto per comprendere quanto sia stato importante per lo sviluppo della città: «l'Acquedotto fu costruito da Agrippa e venne inaugurato nel 19 a.C, a servizio dell'impianto termale del Campo Marzio. Le sorgenti erano all'VIII miglio della via Collatina, in una località indicata da Frontino col nome di Agro Lucullano. La tecnica edile che ha ispirato la costruzione del Vergine Antico si basava essenzialmente sull'uso massiccio del calcestruzzo, con cortina in "pous reticulatum" e volte a botte o a sesto acuto. Lo speco era sempre rivestito in calcestruzzo, tranne in rari tratti dove veniva ricavato dalla roccia. Lo sviluppo dell'acquedotto è prevalentemente sotterraneo e il percorso è segnato da manufatti, in muratura a forma piramidale o da cippi in travertino, alcuni dei quali risalenti all'epoca di Tiberio e di Claudio, I sec. d.C. L'Acquedotto è lungo 20 chilometri e nei secoli della Roma imperiale (dal I al VI secolo d.C.) disponeva di una portata di 1.200 litri al secondo».
«Unome "Acqua Vergine" deriva, secondo una leggenda, dalla fanciulla che aveva indicato ai soldati il luogo della sorgente ma, più probabilmente, si riferisce alla chiarezza e purezza dell'acqua. Il percorso seguiva la via Collatina, in parte su arcate e sostruzioni, e raggiungeva l'abitato alle pendici del Pincio. Da qui, le arcate di epoca claudia in parte conservate in via del Nazareno, attraversavano il Campo Marzio, scavalcando l'attuale via del Corso (via Lata). Emblematico in proposito l’«Arco di Claudio» un'arcata dell'acquedotto monumentalizzata per celebrare la conquista della Britannia ad opera di questo imperatore. L'Acquedotto fu costantemente restaurato e tuttora alimenta la Fontana di Trevi, la fontana della Barcaccia a piazza di Spagna, dando il nome a "via dei Condotti" e la fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona».
Dal giorno della sua inaugurazione oltre 2000 anni fa, l'Acquedotto «visse» gli alti e i bassi della storia di Roma tra distruzione e restauri. «Il primo rifacimento di significativa importanza è attribuito a Costantino, ed è documentato dall'iscrizione riportata su una lapide rinvenuta a via Nazionale nel corso degli scavi per la costruzione del Palazzo delle Esposizioni. A partire dalla fine del IV secolo la decadenza di Roma è un processo inarrestabile, a seguito del trasferimento della capitale da Roma a Bisanzio, e difatti l'Acquedotto viene danneggiato pesantemente durante i due sacchi del V sec. ad opera dei visigoti di Alarico, nel 410 d.C e da parte dei vandali di Genserico e nel 455 d.C. Verso la fine dello stesso secolo la sovranità sull'Italia del re Ostrogoto Teodorico, garantisce un secondo restauro dell'Acquedotto. Ma, nonostante le opere di rifacitura, viene seriamente danneggiato durante la ripresa delle operazioni belli-che che vedono fronteggiarsi Goti e legioni Bizantini per la supremazia sulla penisola, e in particolare il Vergine Antico è ostruito in più punti a seguito degli assedi portati alla città dalle milizie barbare di Vitige e Totila, rispettivamente nel 537 e nel 546 d.C».
Nel Medioevo l'Acquedotto visse di alterne fortune: «dai restauri di papa Adria-no I nel 784, agli assedi da parte saracena negli anni successivi e a quelli di Enrico VI nel 1081. Ma i danni più ingenti il Vergine Antico U riportò a seguito dell'incendio di Roma provocato dall'assedio del Barbarossa nel 1167. L'acquedotto ri: tornò agli antichi splendori solo tre secoli dopo, nel 1453, grazie al lavoro di Leon Battista Alberti, su committenza di papa Nicolo V, che costruì la terminazione dell' acquedotto al Trivio (punto di collocazione della Fontana di Trevi). Successive opere di riqualificazione furono realizzate da Sisto IV nel 1484, da Pio IV Medici nel 1559 e da Sisto V nel 1570. Papa Gregorio XIII, intomo al 1580, fece costruire delle ramificazioni all'Acquedotto Vergine per alimentare i rioni di Ponte, Parione, Campo Marzio e Sant'Eustachio. Ma il momento di maggior splendore dell'Acquedotto fu raggiunto nel 1744, con la fine dei lavori della Fontana di Trevi, progetto disegnato e realizzato sotto la guida del romano Nicola SalviAItri lavori di ammodernamento furono realizzati tra a termine tra il 1825 e il 1845 dai ponteficipapi Leone XII e da Gregorio XVI. Invece tra il 1932 e il 1935, sotto il governatorato comunale del Boncompagni, furono realizzate ulteriori opere, al fine di tutelare l'opera augustea {sempre funzionante, beninteso) dall'ampliamento urbanistico di quegli anni».
Infine l'Acea condusse, tra il 1957 e il 1960, la più imponente ispezione e operazione di controllo del manufatto idrico, rilevando le caratteristiche morfologiche dell'acquedotto, lo stato di conservazione, i dati topografici e producendo la principale documentazione fotografica dello speco.

(Noli) Riemergono la città romana e un gruzzolo di monete d'oro

(Noli) Riemergono la città romana e un gruzzolo di monete d'oro
Donata Bonometti
IL SECOLO XIX, 17-08-2007

La mostra "Il tesoro svelato" racconta i più recenti risultati degli scavi

NOLI sta per Neapolis, nuova città del VI secolo, città bizantina. Fin qui erano convinti gli scienziati che oltre, la storia di questo ammaliante borgo, con un dedalo di vie, la rocca,la torre e la spiaggia, non potesse essere retrocessa. Oggi quella che è nota soprattutto per l'epopea delle Repubbliche marinare, si scopre città portuale romana. E questa datazione così arretrata è una scoperta archeologica derivante dagli scavi degli ultimi due anni dove hanno operato gli esperti della Soprintendenza ligure, trovando svariate testimonianze di quell'epoca. Oggi esposte in una mostra che chiuderà a metà settembre e che sta riscuotendo interesse nei locali della Fondazione Nolese in via Suor Letizia 27 a Noli.
Comune, soprintendenza ai Beni Archeologici, Fondazione Sant'Antonio gli organizzatori. Titolo: "Il Tesoro svelato" riferito non solo ai diversi reperti romani che la terra ha restituito in questi mesi, ma anche a quel gruzzolo di monete d'oro (risalenti al IV-V secolo dopo Cristo) recuperati dagli archeologi sotto il pavimento di un edificio tardo- romano, sulla fascia collinare, dove era stato nascosto probabilmente in periodi di incursioni nemiche. Le monete erano conservate in un contenitore in piombo, quasi luccicanti, perfette, battute dagli imperatori Onofrio, Valentiniano III e da un certo Petronio che ha regnato per soli due mesi. Motivo per cui quelle monete sono pressoché introvabili. Anche da un punto di vista numismatico siamo al cospetto di un tesoro.
Dunque in mostra lo scrigno di monete che sembrano dobloni di cioccolato e i reperti delle diverse sepolture che hanno consentito in questi mesi una rilettura straordinaria della storia di Noli. Quella Noli romana che mai ci si sarebbe immaginati, anche se gli storici D'Andrade prima e Lamboglia poi, nell'Ottocento e nel secolo scorso, in quella zona avevano concentrato studi e interesse, convinti che prima o poi avrebbe riservato sorprese. Dunque non solo città bizantina come Lamboglia l'ha definita, ma ben precedente.
I reperti che troverete in mostra (soprattutto manufatti sepolcrali, corredi in ceramica e vetro, ma anche oggetti di uso quotidiano) risalgono al II secolo avanti Cristo, e restituiscono una città portuale, un approdo di una certa importanza, già attivo in età repubblicana, e successivamente testimonianze di un villaggio altomedievale con fasi di vita dal VI secolo all'età carolingia, bruciato alla fine del IX secolo. È stata l'archeologa Alessandra Frondoni della Soprintendenza la regista degli scavi che hanno ridisegnato Noli ed è essa stessa a raccontare che le fonti non ce la indicano mai come "municipium", ma l'insediamento abitativo riaffiorato si dilata sul territorio in modo consistente.
Intanto lo scalo d'epoca romana, a Capo Noli, oltre l’Aurelia, era sconosciuto. In quella zona affiorano strutture che vanno dall'età della Roma repubblicana (II secolo avanti Cristo) con strati di materiale dall'età augustea, fino al IV-VI secolo.
In quel che resta dei retrostanti magazzini, ecco ceramiche, anfore vinarie del II secolo, fino a quelle nord africane del tardo antico. Anche qui monete di Augusto e di Traiano. Uno scalo vivace di scambi. Sopra il porto quell'edificio da dove forse qualcuno fuggì dopo aver nascosto le monete. Non casualmente le rilevazioni degli scienziati, usando il metodo di datazione del carbonio 14, hanno segnalato tracce di roghi. Che a Noli sono diffuse perché, successivamente, lugubre segnale del passaggio dei saraceni.
Poi, nell'area del riempimento ferroviario che separa la stupenda chiesa di San Paragono dal centro storico di Noli, dove si scavava per costruire un parcheggio interrato, è emersa una civiltà inaspettata, quasi una continuità dalla prima età imperiale fino al Medioevo. Scendendo nelle viscere della terra, gli archeologi hanno incontrato una necropoli romana, quella soprastante a inumazione, con tombe di bambini in anfore cilindriche del terzo-quarto secolo, negli strati più profondi la necropoli a incinerazione, dove ancora ci sono i segni del rogo funebre, i resti dentro piccole sepolture, con il corredo. Balsamari in vetro, anforette, scodelle per il cibo, lucerne. In mostra c'è una buona parte di queste testimonianze.
Visitabile tutti i lunedì dalle 15 alle 19, mercoledì, giovedì, venerdì e domenica dalle 18 alle 22 e il sabato dalle 15 alle 22, la mostra rimarrà aperta fino al 16 settembre, per tutti. E fino al 7 ottobre solo per le visite delle associazioni culturali, dei gruppi e delle scuole.

BEIRUT - Scoperta archeologica nel Libano.

BEIRUT - Scoperta archeologica nel Libano.
Domenica 19 Agosto 2007 IL MESSAGGERO

Una necropoli romana del secoli II e III dopo Cristo è stata rinvenuta da alcuni giorni nel centro di Beirut, in un terreno nel quartiere cristiano Achrafieh dove operai e ruspe avevano iniziato gli scavi per le fondamenta di un nuovo palazzo residenziale.
In un primo momento sono venuti alla luce, poco sotto la superficie, elementi architettonici dell'inizio del XX secolo. Allertata dai responsabili del cantiere, la Direzione generale per le antichità (Dga) ha allora intrapreso propri scavi, riferisce il quotidiano locale ”L'Orient le Jour”'. Sono stati così scoperti, a tre metri e mezzo di profondità, alcuni scheletri umani, 12 sarcofaghi in terra cotta e due di pietra e si ritiene che ve ne siano ancora, almeno quattro, probabilmente in legno.
Il terreno è di 3.200 metri quadrati e in buona parte deve essere ancora sondato, anche con la collaborazione di una equipe di archeologi dell'Università libanese, ha sottolineato il responsabile della Dga, Assad Seif, lasciando intuire l'aspettativa per ulteriori scoperte.

ORBETELLO.Una fornace sotto le dune della Feniglia. Di epoca romana appare simile a quella venuta alla luce ad Albinia

ORBETELLO.Una fornace sotto le dune della Feniglia. Di epoca romana appare simile a quella venuta alla luce ad Albinia
Paola Tana
GIOVEDÌ, 30 AGOSTO 2007 il Tirreno - Grosseto

Incantevole per i suoi paesaggi tra mari azzurri e colline verdeggianti, affascinante e ricca di tesori di un antichità che non finisce mai di svelarsi. Questa è la Costa d’Argento, dall’Argentario a Orbetello, da Capalbio al Giglio, passando per le meraviglie di Magliano. Il cui sottosuolo, se solo lo si «interpella» con adeguanti sondaggi, parla. E racconta di una società antichissima, a cavallo della nascita di Cristo, in cui i nostri avi erano già impegnati nelle attività di industria e commercio.
Dopo la fabbrica di anfore scoperta alla saline di Albinia che gli studiosi hanno permesso alla gente comune di visitare durante tutta l’estate, ecco proporsi in tutto il suo interesse un altro sito archeologico nella duna della Feniglia.
Sotto le suole di quanti si recano al mare come sotto le ruote delle biciclette di chi cerca passeggiate al riparo degli scarichi delle auto, vivono i resti di una civiltà antichissima che adesso ha ben pochi segreti. E ciò per merito di alcuni appassionati di archeologia locali, come Emidio Cagnoli i quali, appena hanno avuto sentore che l’area intorno alla laguna celava reperti di enorme interesse, si sono adoperati per far iniziare gli scavi. E le conferme della loro intuizione, accompagnate da piacevoli sorprese, non sono mancate. Testimonianze del periodo che va dall’8º al 2º secolo avanti Cristo sono emerse lungo le sponde interne della laguna ed in Feniglia, intorno al palazzo della Forestale.
«Siamo risaliti a 3000 anni fa - spiega Cagnoli - e, per il momento sono venuti alla luce resti di una fornace che produceva anfore, fiaschi e cocciame di quel periodo. E sta venendo fuori anche un vasto abitato che circondava la fabbrica. Tutto ciò lascia supporre che in quell’epoca, nella valle dell’Albegna, si viveva di commercio». Ad ogni modo, per saperne di più, la cittadinanza è invitata a partecipare alla conferenza che si terrà domani alle ore 17,30 nella sala dell’Oratorio Sant’Antonio ad Orbetello. Ad organizzare la giornatq di studi, che avrà un’appendice la mattina successiva alle 10,30 con la visita guidata agli scavi, i circoli culturali «Gastone Mariotti» e «Sant’antonio» di Orbetello e l’Università degli Studi di Milano, centro studi di preistoria e archeologia, che ha materialmente effettuato il lavoro.
Realtà distanti ma che hanno avuto come punto di congiunzione il professor Massimo Cardosa, orbetellano che viene spesso in ferie nella terra di origine. E proprio durante uno di questi soggiorni, Cardosa ha accettato volentieri di mettere a disposizione dei concittadini, il patrimonio di conoscenze acquisito fino ad oggi.
E’ nata così l’idea del convegno che sarà introdotto dalla professoressa Nuccia Negroni Catacchio e che vivrà delle relazione dello stesso Cardosa («Tra preistoria e storia. Gli etruschi delle origini: paesaggi d’acque nel territorio di Orbetello») e della dottoressa Laura Benedetti («Duna della Feniglia: un insediamento’industriale’ della prima età del ferro»). Poi, sabato mattina, tutti a verificare «dal vivo» la natura degli scavi.

ORVIETO - emerge dagli scavi il Fanum Voltumnae

ORVIETO - emerge dagli scavi il Fanum Voltumnae
MERCOLEDÌ, 22 AGOSTO 2007 la Repubblica

ARCHEOLOGIA / EMERGE A ORVIETO IL FANUM VOLTUMNAE, UNA SVOLTA PER GLI STUDI

Una nuova scoperta sta arricchendo le conoscenze sugli etruschi: da uno scavo in corso a Orvieto sta emergendo il Fanum Voltumnae, il santuario federale dove si riunivano i rappresentanti delle dodici città principali che formavano la lega etrusca. Un luogo di grande rilievo sia religioso che politico il cui ritrovamento porterebbe a una svolta importantissima nell´etruscologia. Il rinvenimento, in questi giorni, di due altari, uno dei quali monumentale e di fattura particolarmente raffinata, insieme a quello di frammenti ceramici che consentono di datare l´inizio della frequentazione della zona in epoca villanoviana, vale a dire nella fase iniziale della civiltà etrusca, sembrano avvalorare decisamente l´ipotesi.
I ritrovamenti si devono a Simonetta Stopponi (Università di Macerata) che sta conducendo approfondite indagini dal 2000. L´area è quella di Campo della Fiera, ai piedi della rupe di Orvieto. È grande tre ettari e ha restituito numerosi resti che documentano una continuità ininterrotta di uso sino alla peste nera del 1348. Lo scavo sta per concludersi e i risultati verranno annunciati pubblicamente i primi giorni della prossima settimana.
Nel Fanum Voltumnae i rappresentanti delle principali città etrusche si ritrovavano annualmente. Ma erano previste anche assemblee straordinarie la cui convocazione poteva essere richiesta, in casi di particolare gravità, da parte di popoli alleati quali i Falisci e i Capenati. Così almeno accadde - secondo la testimonianza di Tito Livio - nel 397 a.C. quando si trattò di prendere una decisione sulla sorte di Veio, assediata dai Romani.
Le assemblee avevano un carattere politico. E a Roma si guardava ad esse con preoccupazione. Il valore politico degli incontri era ribadito dall´elezione di una sorta di primus inter pares, definito in iscrizioni latine di età imperiale come praetor Etruriae. Gli incontri avevano comunque anche un aspetto religioso: non a caso il luogo era posto sotto la protezione del dio Voltumna, una divinità assimilata a Tinia, vale a dire il Giove latino. Non mancavano neppure le manifestazioni sportive e gli spettacoli: grande scandalo suscitò la decisione del re di Veio di ritirare per protesta gli atleti e gli attori veienti dai giochi nel 404 a.C.
Tito Livio è lo storico latino che informa più dettagliatamente sul Fanum Voltumnae, ma purtroppo non fornisce indicazioni sulla sua localizzazione. A partire dal Quattrocento sono state avanzate diverse proposte per la sua identificazione. Nel Novecento ha preso quota la localizzazione a Orvieto, l´etrusca Velzna. Fra gli indizi veniva indicata una disposizione dell´imperatore Costantino - tra il 333 e il 337 d.C.- che autorizzava gli Umbri a svolgere la propria festa religiosa a Spello e non più aput Volsinios, presso Volsinii, insieme agli Etruschi. Va tenuto presente che in epoca imperiale, dopo il duro intervento effettuato da Roma nel 264 a.C., la città di Volsinii era stata saccheggiata e rifondata sulle sponde del lago di Bolsena e non si trovava quindi più sulla rupe orvietana. Ma nel testo costantiniano si dice "presso" e non "in" Volsinii.
Questo e altri elementi hanno spinto a cercare il Fanum Voltumnae tra Orvieto e Bolsena. Negli anni Trenta del secolo scorso, un erudito appassionato di archeologia, Geralberto Buccolini, avanzò l´ipotesi che il santuario fosse ai piedi della rupe orvietana, nell´area di Campo della Fiera e del Giardino della Regina. Determinanti erano per lui alcuni ritrovamenti avvenuti in quella zona negli anni Settanta e Ottanta dell´Ottocento.
Sulla scorta di queste conoscenze sono stati avviati gli scavi diretti da Simonetta Stopponi e resi possibili dal sostegno finanziario della Banca Monte dei Paschi di Siena. L´indagine ha intanto evidenziato un dato storico: la scoperta di un´intensa frequentazione attestata da interventi urbanistici e architettonici in epoca repubblicana e imperiale romana.
Tra le strutture riportate alla luce va segnalato un ampio recinto al cui interno è stato scoperto un tempio che presenta almeno due fasi edilizie e un percorso pedonale realizzato a fianco del suo lato lungo meridionale, due pozzi (uno con una base modanata in trachite) e da ultimo - come si è già ricordato - due altari rispettati nella ristrutturazione dell´area avvenuta nel II sec. a.C. Uno, di fattura pregevole, è realizzato in trachite, l´altro in tufo. Il più monumentale sembra risalire alla metà del V sec. a.C. ed essere contemporaneo alla fase più antica del tempio col quale è probabilmente in connessione. In questa stessa zona erano stati rinvenuti già due bronzetti di offerenti, oltre a numerosi frammenti di ceramica attica di qualità notevole, e ora si è scoperto il basamento di un donario.
In un altro settore della stessa area di scavo, gli archeologi hanno riportato alla luce una fontana monumentale e la base di un ulteriore edificio di epoca etrusca dalle dimensioni ragguardevoli.
Nelle prime campagne di scavo erano state messe in luce due antiche strade basolate, una delle quali appare delimitata da un muro in opera reticolata lungo 70 metri ed è stata interpretata dagli scavatori come una via sacra; terme di modeste dimensioni di epoca romana e una chiesa di origine altomedievale impostata su strutture precedenti. Un´altra ampia via lastricata e alcuni ambienti che vi si affacciavano sono stati rinvenuti, a non molta distanza, in scavi condotti direttamente dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell´Umbria sotto la direzione di Paolo Bruschetti.
Molto resta da indagare e comprendere: occorre cercare i resti delle strutture legate agli spettacoli e ai giochi e scoprire ancora con ogni probabilità l´edificio (o il luogo consacrato) principale. Ma che l´area del Fanum Voltumnae sia stata individuata appare - dopo i rinvenimenti di questa estate - sempre più verosimile.

domenica 27 aprile 2008

ROMA - CAMPIDOGLIO: Quassù abitava il dio dei cittadini

ROMA - CAMPIDOGLIO: Quassù abitava il dio dei cittadini
ANDREA CARANDINI
27 APRILE 2008, LA REPUBBLICA

Sul Palatino risiedettero i re e poi gli imperatori Serviva un´altra sommità per rappresentare la "cosa pubblica": è lì che nacque l´idea di interesse generale

Per fare Roma serviva un abitato non solamente unito ma retto da un potere centrale: il re e la cittadella benedetta e inviolabile del Palatino. Serviva un abitato diviso in rioni dove ospitare un popolo: i Quirites nelle curiae, protetti dal Quirinus venerato sul Quirinale. Serviva un luogo centrale e neutrale in cui il potere "primario" del re potesse confrontarsi con quelli "secondari" degli aristocratici e del popolo uniti in assemblea: il Forum e il Comitium, che erano al di fuori di ogni curia. Serviva un dio civico ospitato su una altura, anch´essa al di sopra di ogni parte: Giove Feretrio sul Campidoglio. Serviva un´altra altura da cui osservare il volo degli uccelli, espressione di Giove: l´Arx (altra cima del Campidoglio, dove è l´Ara Coeli) con l´osservatorio o auguraculum protetto da Giunone. La città era dunque fatta di parti (l´insieme di curiae, il Palatino inaugurato) e di parti al di sopra delle parti (il Foro e il Campidoglio/Arce), come Washington nel neutrale Columbia District.
Giove presiedeva allora un "triumvirato" di cui facevano parte Marte, dio del Lupercale (ai piedi del Palatino verso l´Aventino), generatore e protettore di re, e Quirino, protettore del popolo articolato in rioni. Vi è dunque una triade topografica oltre che teologica, ché il Palatino rappresentava i montes ("rione Monti"), il Quirinale il collis ("il colle più alto") e il Foro-Capidoglio/Arce la "cosa pubblica" dei Romani. Qui nasce l´idea di "interesse generale".
Questo Giove era rappresentato da una pietra (lapis) custodita in una capanna posta ai piedi di una quercia sacra, cui Romolo aveva appeso le armi di Acrone di Caenina (La Rustica?), monito ai poteri signorili nelle campagne che non intendevano assoggettarsi al sovrano: all´origine della città-stato vi è il sangue.
La guerra era allora attività stagionale e, quando a fine estate i cittadini armati tornavano in città, il re deponeva le spoglie del nemico al lapis del Campidoglio: era l´ovatio. La pietra sacra sanciva anche il giuramento (iusiurandum). Con essa si uccideva una scrofa a monito dello spergiuro, destinato al fulmine di Giove. Era un modo di dare prevedibilità al futuro che venne chiamato ius. Sul Campidoglio è stato inventato il diritto, nel Foro la politica, sul Palatino il potere sovrano, da Romolo a Augusto.
Sul Campidoglio era venerato anche un masso sacro a Terminus, dio delle inamovibili pietre di confine, garanzia delle proprietà pubbliche e private. Simboleggiava il centro dell´agro, il cui limite era segnato da un altro culto allo stesso dio, all´Acqua Acetosa. Terminus era anche il dio della fine dell´anno. Sul Campidoglio si osservavano le fasi della luna che regolavano il tempo festivo organizzato in un calendario di dieci mesi: quanto la gravidanza di una donna, più una ventina di giorni di sterilità dopo parto, che era il natale dei Romani, prima di diventare negli stessi giorni il natale di Cristo. Il calendario era presieduto da Giove che proteggeva le idi al culmine del ciclo lunare, e da Giunone che proteggeva le calende, all´inizio del ciclo lunare. Giunone aveva un suo luogo di culto sull´Arce e davanti al suo tempio c´era l´osservatorio del volo degli uccelli da cui si dominava l´urbs e l´ager.
Questa è la prima Roma, da Romolo a Anco Marcio. Venne poi Tarquinio Prisco, grande signore cosmopolita (greco-etrusco-romano). Diede inizio a una rivoluzione antiaristocratica, che Servio Tullio - suo bastardo? - porterà a termine: servo della dimora regia fattosi tiranno per sconfiggere la fronda gentilizia e farsi amare dal popolo. Fu lui a ideare agli inizi del Sesto secolo avanti Cristo un nuovo Giove sul Campidoglio.
Non più il triumviro divino, ma un Giove ottimo e massimo, che con le donne di casa - Giunone e Minerva - dominava ogni altro dio, un tiranno divino buono il cui rappresentante in terra era il tiranno buono umano... Per lui, non una capannetta, ma un tempio colossale, dove terminavano i trionfi (ma si continuò a giurare a Giove Feretrio). Tarquinio riuscì solo a cominciare i lavori, ma la statua di Giove in terracotta, prima statua di culto in forma umana, venne subito realizzata, per cui venne costruito sul Quirinale un tempietto (Capitolium Vetus) per ospitare la statua durante i lavori. Completò il tempio Tarquinio il Superbo, tiranno cattivo presto cacciato da Roma, dove i patrizi riguadagnarono il terreno perduto, fondarono la Repubblica e dedicarono il tempio trasformandolo in simbolo della res publica liberata dai re. Il calendario acquisì allora due mesi: gennaio e febbraio, ma dicembre è ancora l´ultimo mese pur alludendo ai dieci mesi del calendario primitivo.
Chiunque si rechi nel Palazzo dei Conservatori può osservare le fondazioni immani del tempio capitolino: uno dei maggiori del Mediterraneo, manifestazione della grande Roma dei Tarquini. Dovrebbero andarci anche gli storici antichi che ritengono ancora che Roma sia nata come città al tempo dei Taurini e non in quello di Romolo. Si accorgeranno che nel Sesto secolo Roma non è neonata ma florida ragazza.
Faranno concorrenza a questo Giove l´Apollo-Sole di Augusto sul Palatino e il Cristo di Costantino venerato in periferia. Così Roma è tramontata, ma il Campidoglio guadagnato alla democrazia è ancora parte ineliminabile della nostra identità: la cosa pubblica e il conseguente interesse generale.
Roma è ancora da raccontare e, se non la narriamo, i turisti sciameranno verso le "città proibite", contrario esatto della "città aperta" per eccellenza, miscuglio di latini, sabini, etruschi. Ma per raccontare Roma all´altezza dei tempi occorre smettere di guardare indietro, alla cartapesta delle passate dittature, e progettare una storia seria e comunicativa guardando in avanti, preparando il futuro. Teatro-portale di questo racconto deve essere il Museo della città previsto nell´edificio in fondo al Circo Massimo. Riusciremo nei prossimi anni a realizzarlo?

sabato 26 aprile 2008

Torna a splendere il "Sarcofago delle muse"

Torna a splendere il "Sarcofago delle muse"
Marta Pepe
Avanti 24/4/2008

Recuperato recentemente nell'area della necropoli delllsola Sacra a Fiumicino, poco prima di essere trafugato e venduto, il prezioso marmo - battezzato "Sarcofago delle muse" - è stato presentato lo scorso 17 aprile dal soprintendente per i Beni archeologici di Ostia, Marina Sapelli Ragni, presso il museo Ostiense della città balneare.
Il marmo è greco ed è databile al II secolo d.C; lungo 174 centimetri e largo 44, reca un fregio sulla parte anteriore con le nove muse condotte da Apollo alla presenza di Athena, mentre sui lati e sul coperchio sono raffigurate scene di conversazione tra filosofi e poeti. L'opera testimonia e rappresenta allegoricamente la società del tempo, elitaria, colta e raffinata, in cui l'attenzione per una sfera più intima e serena faceva da contrappunto alla tormentata situazione politica che l'impero romano si trovava ad attraversare in quel periodo. La cultura era, dunque, precipua anche in ambito funerario: la vita ultraterrena era connessa, infatti, alla poesia e alla musica e la sì guadagnava attraverso la vita meditativa e lo studio.
L'iconografìa delle divine cantrici figlie di Zeus e Mnemosine, evocate anche da Omero nell'Iliade e nell'Odissea, proviene dal mondo classico e giunge al repertorio roma- no attraverso diverse formulazioni ellenistiche. Successivamente trova una notevole diffusione in pittura, nelle decorazioni musive e nelle sculture. Il sarcofago, che si caratterizza per la completezza, per l'ottimo stato di conservazione e naturalmente per l'esecuzione pregevole, proviene da officine romane, forse ostiensi.
L'operazione di recupero, condotta dalla Guardia di Finanza-Nucleo Polizia Tributaria di Roma (Tutela Patrimonio Archeologico) ha evitato il trafugamento e la dispersione del sarcofago ed ha impedito la manomissione della sepoltura contenuta al suo interno, che è oggetto di studio presso la sezione di Antropologia del museo nazionale statale "Luigi Pigorini". "In casi come questi - ha detto Vito Augelli, comandante del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma - chi ritrova un reperto farebbe meglio a denunciare subito la scoperta agli organi competenti in modo da incassare il premio di ritrovamento, pari al 25% del valore dell'opera".
In considerazione dell'importanza della scoperta, il ministero per i Beni e le Attività culturali ha stanziato in questi giorni un finanziamento che permetterà di intraprendere degli scavi proprio nell'area del recupero.

venerdì 25 aprile 2008

La supercolla dei romani

La supercolla dei romani
I guerrieri romani riparavano i propri accessori di battaglia con una supercolla che conserva ancora le sue proprietà adesive a distanza di 2000 anni, secondo quanto scoperto al Rheinischen Landes Museum di Bonn, Germania.

Nella mostra, Behind the St1ver Mask, aperta fino al 16 Febbraio 2008, è possibile vedere le prove di questo antico adesivo usato per montare foglie di alloro in argento sugli elmi dei legionari.

Frank Willer, direttore del restauro del museo, ha trovato le tracce di questa supercolla mentre esaminava un elmo dissotterrato nel 1986 nei pressi della città tedesca di Xanten, in quello che una volta era il letto del fiume Reno. L’elmo, che risale al I secolo a. C. è stato affidato al museo per il restauro.

Ho scoperto la colla per caso, mentre rimuovevo un piccolo campione del metallo con una minuscola sega.
Il calore prodotto dallo strumento fece staccare le foglie d'argento dell’elmo, rivelando tracce della colla» ha spiegato Willer, stupito che, nonostante la lunga esposizione agli elementi, la supercolla non avesse perso le sue proprietà.

Altri accessori per la battaglia conservati nel museo mostrano tracce di decorazioni d'argento molto probabilmente incollate al metallo tramite lo stesso adesivo.
Sfortunatamente gli oggetti sono troppo deteriorati perché sia possibile rinvenire tracce della supercolla.

Tuttavia, l'elmo trovato a Xanten presenta una quantità del materiale sufficiente a stabilire le modalità di utilizzo dell'adesivo.

«Secondo le analisi, la colla dei Romani era fatta di bitume, resina e grasso animale» ha fatto sapere Willer a conferma di alcuni studi condotti dai ricercatori della University of Bradford e Liverpool (Gran Bretagna) negli anni '90.

Finora i ricercatori tedeschi non sono riusciti a ricreare la supercolla.
Sempre secondo quanto comunicato da Willer, alla colla «veniva probabilmente aggiunto qualche tipo di materiale inorganico come la fuliggine o la sabbia di quarzo per renderla più resistente». .


Fonte: Hera n° 97, febbraio 2008

Gli antichi romani in America

Gli antichi romani in America
"
La scoperta nel 1886 in Texas di un antico natante romano e la presenza nello stesso territorio di monete imperiali romane dello stesso periodo suggerirebbero un antico contatto tra romani e nativi americani nel IV secolo d.C. Un incontro le cui tracce resterebbero nell'antica lingua dei Karankawa, la tribù del posto oggi estintasi.
"
l'articolo completo lo trovate su:
http://www.veja.it/index.php?/archives/964-Gli-antichi-romani-in-America.html

giovedì 24 aprile 2008

Ricostruito un letto funerario del I sec. a.C.

LAZIO - Ricostruito un letto funerario del I sec. a.C. nei laboratori Beni Culturali a Tivoli
ITALIA SERA Edizione n. 892 del 22/04/2008

Un letto funerario, la cui anima in ferro appare rivestita di osso lavorato dove sfilano figure decorative a rilievo prese in prestito dai culti misterici e dalla mitologia. Un letto che un tempo era ricoperto di lamine d’oro. È il prezioso manufatto rinvenuto fortuitamente nel 2005 ad Aquinum (Comune di Castrocielo, in provincia di Frosinone), durante uno scavo di archeologia preventiva, finanziato da Autostrade per l’Italia nell’area di servizio Casilina Est dell’Autostrada Roma - Napoli. Ritrovamento eccezionale, databile tra il II e il I e a.C pertinente di una necropoli che contava ben settantaquattro tombe, che dopo il restauro che ne ha ricomposto tutta la struttura, eseguito da Giovanna Rita Bellini, che ha diretto gli scavi per conto della Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio, che dal 24 aprile al 2 novembre va in mostra per la prima volta nelle sale dell’Antiquarium del Canopo di Villa Adriana a Tivoli. Il letto, che probabilmente era in origine ricoperto da una lamina d’oro, poiché sono state individuate tracce di doratura a foglia sulla capigliatura, sui panneggi di una veste e su di un’ala delle figure che lo ornano, ha rappresentato una scoperta straordinaria: “Perché ha portato all’attenzione pubblica un tema archeologico sconosciuto ma di grande interesse – dice Bellini - Innanzitutto perché è un caro raro di ricomposizione completa del letto. Esempi similari, ma sporadici sono purtroppo raramente documentati da più che qualche frammento spesso anche combusto per via del rito di cremazione che talora riguarda sia corpo del defunto sia letto. Sono stati rinvenuti in altre parti d’Italia, dalla stessa area laziale alla Cisalpina, fino alla Germania, con una distribuzione cronologica che, alla luce delle attuali conoscenze, sembra concentrarsi nell’ambito del II sec. a.C. e della prima parte del I sec. a.C., fino a spingersi in età tardo repubblicana e, forse, nel I sec. d.C.”. I letti funerari con decorazioni in osso nelle cerimonie di sepoltura, che derivano il loro modello dai lussuosi letti lavorati in avorio trovati nelle tombe regali macedoni, sono collocabili lungo un arco cronologico tra la fine del III sec. a.C. ed il I sec. d.C., e vedono il loro massimo centro di diffusione, e forse di produzione, in quel territorio dell’Italia centrale coincidente con le attuali regioni di Lazio e Abruzzo, ed anche in parte dell’Umbria e delle Marche. “La mostra – continua Bellini - mette per la prima volta a confronto altri tre esemplari ricostruiti di alta qualità: un letto ritrovato a Roma, sul colle Esquilino proveniente oggi dalla Centrale Montemartini, e due originari dell’Abruzzo, rispettivamente da Bazzano e Fossa, custoditi presso il Museo delle Paludi di L’Aquila”. Nel percorso espositivo, poi, spiccano significativi frammenti di altri rinvenimenti del Lazio tra Sezze, Ostia e Marino, accanto a quelli dell’Abruzzo insieme ai ricchi corredi trovati nelle tombe, costituiti da specchi, balsamari, strigili, lucerne, monete e ceramica. “Nel loro insieme - aggiunge Bellini - questi frammenti hanno il pregio di documentare l’alta qualità esecutiva e la ricchezza dei temi iconografici, peraltro in genere facilmente riconducibili al repertorio dionisiaco, allusivo a credenze di rinascita dei defunti”.

mercoledì 23 aprile 2008

Affreschi romani in serie. Le pitture della Tomba di via Prenestina a Roma

Affreschi romani in serie. Le pitture della Tomba di via Prenestina a Roma
di Bruno Zanardi
02-09-2007, IL SOLE 24 ORE

Le pitture della Tomba di via Prenestina a Roma, osservate a luce radente, rivelano una serie di impronte identiche di cartoni sul muro. Una tecnica ripresa nel Medioevo - Di queste sagome parlavano già le fonti antiche. Plinio le chiamava «catagrapha»
Bruno Zanardi

Per liberalità del Soprintendente ai Beni archeologici di Roma, professor Angelo Bottini, ho avuto accesso agli affreschi del II secolo dopo Cristo che decorano le pareti della cosiddetta Tomba della via Prenestina, rinvenuta a Roma nel 1951. L'osservazione diretta della materia ha dimostrato l'uso nella pittura murale antico-romana di sagome da cui trarre "forme standard" per la realizzazione di figurazioni. Ne sono prova positiva due figure affrontate di caproni al cui interno si leggono (a luce radente) una serie di avvallamenti che ne delimitano la generale dimensione, mentre l'intonaco biancastro di fondo è, al contrario, del tutto liscio: avvallamenti con ogni probabilità ottenuti ponendo la sagoma sull'intonaco fresco e calcandola con uno strumento stondato in legno o in pietra. Ed è una scoperta che dimostra come anche in antico esistessero delle tecniche di razionalizzazione del lavoro artistico in forma di disegno paragonabili a quegli antibola e patroni ampiamente descritti in epoca medievale e moderna nella trattatistica tecnica e nei documenti di cantiere.
Molti lettori de «Il Sole-24 Ore» si staranno però chiedendo come mai si possa parlare di "scoperta" per un fatto apparentemente ovvio com'è la centrale importanza del disegno in ogni attività artistica figurativa. Domanda legittima la cui risposta ci porta a toccare temi lontani dalla Tomba della via Prenestina. Restauri in cui la conoscenza dell'organizzazione del lavoro artistico in cantiere e in bottega si esaurisce in inutili indagini chimico-fisiche; ed è un ennesimo tradimento del pensiero di Brandi. E lo stretto ambito tassonomico degli studi italiani di storia dell'arte (contro cui spesso inveiva Federico Zeri), pur se spesso, e soprattutto in passato, narrati in una prosa d'arte di alto valore letterario: su tutte le pagine di D'Annunzio sull'arte veneta ne' Il fuoco.
Dunque una "scoperta", le sagome nella Tomba della via Prenestina, dovuta a un ritardo culturale (già nell'Ottocento, Pietro Rosa aveva invano indicato la presenza d'una traccia simile in alcuni dipinti antico-romani forse oggi perduti), ma che come tutte le scoperte pone alcuni non semplici problemi interpretativi. Per citarne solo uno, se esistano o meno attestazioni dell'esistenza di disegni – di progetto, di modello o esecutivi – nell'arte antica, come invece da molti negato.
Possono le fonti antiche dare risposta al quesito? Forse.
Nella Historia Naturalis (I secolo dopo Cristo), Plinio racconta che il pittore greco Cimone di Cleone (VI-V secolo avanti Cristo) aveva inventato la tecnica dei catagrapha; tecnica a tutt'oggi misteriosa nonostante la precisazione di significato che lo stesso Plinio ne dà: «hoc est obliquas imagines». Infatti, per chi sia esperto di tecniche artistiche, la locuzione «immagini oblique» non ha significato alcuno, né viene mai ripresa nella trattatistica successiva. Tanto che le pliniane «obliquas imagines» vengono rese, nella metà del Quattrocento, dallo scultore Lorenzo Ghiberti in «l'atteggiare delle figure e li posari d'esse» e, poco più d'un secolo dopo, dall'umanista Giovan Battista Adriani in «figure in iscorcio»; con ogni probabilità entrambi i traduttori fiorentini deducendo quel significato dal proseguire del racconto di Plinio, dove Cimone è chi per primo disegna articolazioni e vene dei corpi umani e altro ancora inventa.
Possono allora le sagome della pittura antico-romana essere le misteriose «obliquas imagines» di Plinio? Un quesito cui si può rispondere solo risalendo alla parola, cioè al senso originario dato al termine catagrapha nella Grecia antica. Anche perché oltre mezzo secolo fa Bernhard Schweitzer ha dimostrato la derivazione delle incursioni di Plinio nel campo artistico da un perduto trattato d'un artista greco del III secolo avanti Cristo, Senocrate di Atene. Leggiamo perciò due frammenti tra i mille possibili nelle fonti greche.
Pausania (110-180 dopo Cristo) usa la forma katagraphai per il disegno (con ogni evidenza di progetto) che, nel V secolo avanti Cristo, Parrasio aveva realizzato per lo scudo d'una perduta statua in bronzo di Atena eseguita da Fidia; disegno con la battaglia dei Lapiti contro i Centauri poi reso a cesello da Mys. Quindi il lavoro artistico era già in antico diviso tra vari specialisti – un pittore (Parrasio), un orafo (Mys) e uno scultore (Fidia) – secondo una prassi che sarà poi normalmente attestata in bottega e in cantiere dal Medioevo in poi, compresa l'esecuzione di disegni di progetto "per conto terzi"; infatti così millenovecento anni dopo scrive di se stesso il Ghiberti: «Ancora a molti pictori e scultori e statuarii ò fatto grandissimi honori ne' loro lavorii, fatto moltissimi provedimenti cioè modelli di cera e di creta et a' pittori disegnato moltissime cose». E ciò conferma una volta di più la storica inerzia dei modi organizzativi del fare artistico.
Il siriano Luciano di Samostata (120-180 dopo Cristo) trasforma un suo ricordo in un racconto fantastico (in tutti i sensi) su un formidabile cialtrone, tale Alessandro, che organizza con il socio Coccòna una truffa ai danni degli abitanti di Abonutico, una città dell'Asia minore, «in maggioranza superstiziosi e ricchi».
I due fondano un santuario dedicato a un dio-serpente di loro invenzione, «Glicone, di Giove terzo sangue, per tutti gli uomini la luce», dove Alessandro, sacerdote di quel dio, risponde in una stanza buia a preghiere e implorazioni. A parlare è Glicone in persona. In forma di serpente vero, quello che Alessandro tiene sulle ginocchia: un serpente «di Pella, città dove vivono degli enormi serpenti molto docili e mansueti (...), al punto di succhiare il latte dalla mammella come neonati». In forma di sagoma, forse tridimensionale, la testa parlante di Glicone che Alessandro fa spuntare da sotto una sua ascella: una «testa di serpente su tela di lino, che mostrava un qualcosa di umano, tutta disegnata (katagraphos), molto somigliante; apriva e richiudeva la bocca mediante crini di cavallo, e ne sporgeva fuori, anch'essa tirata da crini, una lingua nera e bifida».
E di nuovo katagraphos sta per disegno (dipinto?), tuttavia in forma di sagoma. Ma disegni in sagoma sono anche i già citati patroni e gli antibola. Domanda: a ulteriore conferma della storica inerzia delle tecniche artistiche?