Ivana Della Portella
l'Unità - Roma 28/1/2006
Celato - oserei dire quasi sottratto ai più - dietro quella teca di vetro non lontano dal Marforio, il Marco Aurelio ritrova ora, con la sua nuova collocazione, voce e respiro, vivificando l'antica simbiosi con il Mons Capitolinum. E parrebbe di ascoltarlo, in tutta la sua possanza, quasi a dichiarare come ebbe a fare Nerone con la sua aurea dimora: "finalmente comincerò ad abitare come un uomo!" (Svetonio).
In una dimora che Aymonino col suo lucido progetto ha sistemato nel "Giardino Romano" del Palazzo dei Conservatori con esiti eccellenti, ridisegnandone in qualche modo l'assetto complessivo: da museo pur straordinario ma ormai un po' "polveroso", a una struttura aperta luminosa e innovativa. La scommessa era tutt'altro che facile, date le poderose preesistenze di quello spazio che attendevano da secoli di essere ricondotte all'antica dignità. Stiamo parlando niente di meno che del tempio di Giove (Ottimo Massimo), Giunone e Minerva: il luogo di culto più celebre dell'antica Roma, quello fondato sulla Acropoli della città e verso cui si dirigevano le processioni trionfali.
Era pressoché impossibile vederlo prima di questo intervento, sottratto com'era nei recessi più riposti degli uffici capitolini. Oggi è possibile goderne tutta l'imponente e regale platea di fondazione in blocchi di cappellaccio (alti ben 12 metri).
Il tutto è concepito entro una pianta ellittica con sei pilastri d'acciaio che sorreggono una cupola, composta da triangoli di vetro per dare nuova "luce" ai simboli e alle origini di Roma. La Roma delle capanne romulee, delle prime e ultime fasi del bronzo e dei Tarquìni. Non stupisce pertanto la splendida collocazione in questo contesto del tempio dì Mater Matuta (616-579 a.C), un culto arcaico di matrice indoeuropea, collocato ai piedi del Campidoglio nell'area sacra del Foro Boario. Una deità che aveva finito per allentare il suo originario significato di "dea auro-ra"a favore del carattere di "dea madre".
Collocato in questa nuova positura il frontone etrusco-italico, bellissimo, testimonia del gusto e della raffinatezza della plastica in terracotta dell'epoca dei Tarquini, tanto ben indagata dalla prof.ssa Sommella. Le splendide volute, i felini araldici, la gorgone, assieme al gruppo acroteriale valgono bene un viaggio sino al colle. Del resto la forte affluenza di pubblico (a poco meno di un mese, siamo a oltre 50.000 presenze), testimonia di un legame con la celebre statua equestre che va ben oltre il semplice riconoscimento di eccellenza storico - artìstica. Ora il Marco Aurelio trova nuovo vigore, specie nel procedere lento e cadenzato sulla piattaforma tecnologica, che pur lontana dal basamento michelangiolesco, rinnova e amplifica la sensazione del suo cammino. Un incedere lieve e imponente in cui il reggitore, dallo sguardo mesto, allunga la mano in un gesto di rassicurante imperio. La nuova luministica positura che combina in felice simbiosi luce naturale e artificiale, nonché la visione più ravvicinata, consentono di percepire e di godere meglio tutti i virtuosismi del bronzo, anche ì più
marginali: dalle scriminature del cavallo fin al suo fremere sottile. Confuta oggi il Marco Aurelio, in tutta la sua eroica bellezza, uno dei suoi stessi pensieri: "E' prossimo, per te, l'oblio di tutto; prossimo, per tutti, l'oblio di te"(A se stesso). Per lui quell'oblio non c'è stato poiché il suo carisma, intatto, ha attraversato i secoli dietro la solidità del bronzo, in continui mutamenti iconologici, trattenuti una volta per tutte dal litostrato di Michelangelo in un dialogo mai interrotto fino al fattaccio del 1979. Un dialogo non accessorio ma di esaltazione dei valori simbolici di cui si era caricato nel tempo il Caballus Costantini. La cui centralità all'interno dell'ordito stellare del Buonarroti era funzionale a definire un programma celebrativo della vocazione universalistica della Chiesa come erede della grandezza dell'impero romano. Il Marco Aurelio ancora Stet Capitolium fùlgens, ma ha interrotto ora quel dialogo estetico e celebrativo con la "stella dodecagona" sulla piazza.
Non è un fatto marginale, ma che trova un suo parziale risarcimento con la copia esterna. Tuttavia, non sarebbe un cattivo investimento ripercorrere l'idea della citazione assonometrica dell'ordito michelangiolesco sulla pavimentazione della nuova aula del giardino (come per altro inizialmente previsto dallo stesso Aymonino nelle prime redazioni del progetto) per riannoda-
re l'antico legame con l'umbelicus mundis terribilmente interrotto in quel fatidico giorno del settantanove.
(...)
---
nota. nel disegno: Marco Aurelio che sacrifica.
l'Unità - Roma 28/1/2006
Celato - oserei dire quasi sottratto ai più - dietro quella teca di vetro non lontano dal Marforio, il Marco Aurelio ritrova ora, con la sua nuova collocazione, voce e respiro, vivificando l'antica simbiosi con il Mons Capitolinum. E parrebbe di ascoltarlo, in tutta la sua possanza, quasi a dichiarare come ebbe a fare Nerone con la sua aurea dimora: "finalmente comincerò ad abitare come un uomo!" (Svetonio).
In una dimora che Aymonino col suo lucido progetto ha sistemato nel "Giardino Romano" del Palazzo dei Conservatori con esiti eccellenti, ridisegnandone in qualche modo l'assetto complessivo: da museo pur straordinario ma ormai un po' "polveroso", a una struttura aperta luminosa e innovativa. La scommessa era tutt'altro che facile, date le poderose preesistenze di quello spazio che attendevano da secoli di essere ricondotte all'antica dignità. Stiamo parlando niente di meno che del tempio di Giove (Ottimo Massimo), Giunone e Minerva: il luogo di culto più celebre dell'antica Roma, quello fondato sulla Acropoli della città e verso cui si dirigevano le processioni trionfali.
Era pressoché impossibile vederlo prima di questo intervento, sottratto com'era nei recessi più riposti degli uffici capitolini. Oggi è possibile goderne tutta l'imponente e regale platea di fondazione in blocchi di cappellaccio (alti ben 12 metri).
Il tutto è concepito entro una pianta ellittica con sei pilastri d'acciaio che sorreggono una cupola, composta da triangoli di vetro per dare nuova "luce" ai simboli e alle origini di Roma. La Roma delle capanne romulee, delle prime e ultime fasi del bronzo e dei Tarquìni. Non stupisce pertanto la splendida collocazione in questo contesto del tempio dì Mater Matuta (616-579 a.C), un culto arcaico di matrice indoeuropea, collocato ai piedi del Campidoglio nell'area sacra del Foro Boario. Una deità che aveva finito per allentare il suo originario significato di "dea auro-ra"a favore del carattere di "dea madre".
Collocato in questa nuova positura il frontone etrusco-italico, bellissimo, testimonia del gusto e della raffinatezza della plastica in terracotta dell'epoca dei Tarquini, tanto ben indagata dalla prof.ssa Sommella. Le splendide volute, i felini araldici, la gorgone, assieme al gruppo acroteriale valgono bene un viaggio sino al colle. Del resto la forte affluenza di pubblico (a poco meno di un mese, siamo a oltre 50.000 presenze), testimonia di un legame con la celebre statua equestre che va ben oltre il semplice riconoscimento di eccellenza storico - artìstica. Ora il Marco Aurelio trova nuovo vigore, specie nel procedere lento e cadenzato sulla piattaforma tecnologica, che pur lontana dal basamento michelangiolesco, rinnova e amplifica la sensazione del suo cammino. Un incedere lieve e imponente in cui il reggitore, dallo sguardo mesto, allunga la mano in un gesto di rassicurante imperio. La nuova luministica positura che combina in felice simbiosi luce naturale e artificiale, nonché la visione più ravvicinata, consentono di percepire e di godere meglio tutti i virtuosismi del bronzo, anche ì più
marginali: dalle scriminature del cavallo fin al suo fremere sottile. Confuta oggi il Marco Aurelio, in tutta la sua eroica bellezza, uno dei suoi stessi pensieri: "E' prossimo, per te, l'oblio di tutto; prossimo, per tutti, l'oblio di te"(A se stesso). Per lui quell'oblio non c'è stato poiché il suo carisma, intatto, ha attraversato i secoli dietro la solidità del bronzo, in continui mutamenti iconologici, trattenuti una volta per tutte dal litostrato di Michelangelo in un dialogo mai interrotto fino al fattaccio del 1979. Un dialogo non accessorio ma di esaltazione dei valori simbolici di cui si era caricato nel tempo il Caballus Costantini. La cui centralità all'interno dell'ordito stellare del Buonarroti era funzionale a definire un programma celebrativo della vocazione universalistica della Chiesa come erede della grandezza dell'impero romano. Il Marco Aurelio ancora Stet Capitolium fùlgens, ma ha interrotto ora quel dialogo estetico e celebrativo con la "stella dodecagona" sulla piazza.
Non è un fatto marginale, ma che trova un suo parziale risarcimento con la copia esterna. Tuttavia, non sarebbe un cattivo investimento ripercorrere l'idea della citazione assonometrica dell'ordito michelangiolesco sulla pavimentazione della nuova aula del giardino (come per altro inizialmente previsto dallo stesso Aymonino nelle prime redazioni del progetto) per riannoda-
re l'antico legame con l'umbelicus mundis terribilmente interrotto in quel fatidico giorno del settantanove.
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nota. nel disegno: Marco Aurelio che sacrifica.