Domus Aurea: ottanta ettari di edifici, portici e giardini: con un grande lago e una statua colossale dell'imperatore
Corrado Augias
La Repubblica - 13.12.2005 -
Costruita dopo l'incendio di Roma, alla morte del creatore fu demolita o interrata Nel 500 grandi artisti si calavano nelle grotte per copiare gli affreschi sepolti copiandone i motivi ornamentali che poi sono diventati le famose 'grottesche' : forme vegetali miste a figurette umane o animali solo di rado realistiche, quasi sempre immaginarie, estranee ad ogni canone naturale, un mondo fantastico in cui umano, vegetale e animale si fondono in figurazioni vivacissime e bizzarre tra lo scherzo e l'allucinazione. Grottesca viene ovviamente da grotta e grotte sotterranee erano diventate queste stanze, riempite di terra e di detriti fin quasi alla sommità. La loro riscoperta lancerà una moda dirompente centrata sulle antichità e i ruderi romani, paragonabile solo alla 'Egittomania' che le campagne napoleoniche susciteranno all'inizio del XIX secolo.
Dopo il disastroso incendio del 64, Nerone volle che sorgesse nella città devastata la sua nuova reggia. Espropriò un'area di ottanta ettari perché voleva, dice Svetonio, che il suo palazzo si estendesse dal Palatino all'Esquilino. Per capire di quale magnificenza di spazi la costruzione disponesse basta pensare che una statua gigantesca alta trentacinque metri (un edificio di dodici piani) entrava nel vestibolo. Quando la statua venne spostata fu necessario aggiogare, data l'enormità del peso, ventiquattro elefanti; da questa immane figura prenderà nome, nel Medio Evo, il Colosseo. Lo scultore greco Zenodoro aveva raffigurato l'imperatore nudo, con attributi solari, il braccio destro proteso, il sinistro ripiegato a sorreggere un globo. Da una corona posta sulla fronte si dipartivano sette raggi (lunghi sei metri l'uno) raffigurazione del potere assoluto e di quel Sole con il quale l'uomo voleva essere identificato.
La casa, assicura sempre Svetonio, comprendeva tre portici lunghi un miglio «uno stagno, anzi quasi un mare, circondato da edifici grandi come città. Alle spalle ville con campi, vigneti e pascoli, boschi pieni di animali domestici e selvatici». Se noi oggi camminiamo nel buio e nel silenzio, la dimora neroniana al contrario riluceva poiché tutto era ricoperto d'oro, impreziosito da gemme e da conchiglie incastonate nell'intonaco. Ancora: «Le sale da pranzo avevano soffitti coperti di lastre d'avorio mobili e forate in modo da consentire la caduta di fiori e di profumi». Poi i marmi, commisti gli uni agli altri a formare quelle policromie nelle quali i romani eccellevano. Pietre che arrivavano dalla Spagna, dalla Numidia, dalla Tripolitania, dall'Egitto, dall'Asia, dalla Grecia, dalle Gallie, dalla Cappadocia. Diverse per colore e tessitura, uniche per durezza e bellezza del disegno, rimarranno nell'uso e molti secoli più tardi i marmorari romani le chiameranno con nomi che evocano da soli un'epoca: 'portasanta', 'lumachella orientale', 'pavonazzetto', 'serpentino', 'granito degli obelischi', 'africano', e la più pregiata di tutte, il 'porfido rosso' riservato all'imperatore.
Ma non c'erano solo eccessi cromatici nella decorazione di quella fantastica dimora. Vi aveva parte anche la tecnologia, quanto di meglio la meccanica del tempo consentisse: «La [sala] più importante era circolare e ruotava continuamente giorno e notte come la terra. I bagni erano forniti di acqua marina e solforosa». I due architetti Severo e Celere, incaricati del progetto, sapevano che con quell'opera avrebbero guadagnato una lunga gloria o perso tutto, compresa la vita. Stimolati dalla posta estrema e conoscendo i gusti del committente, concepirono soluzioni di tale bizzarria da far dire a Tacito che «spesso andarono contro le leggi di natura». L'intera valle al cui centro noi vediamo l'anfiteatro Flavio (Colosseo) venne ricoperta dal lago di cui parla Svetonio, vasto quasi come un mare.
Quelle meraviglie sopravvissero poco alla morte del proprietario avvenuta nel 68. Per brevissimi anni Nerone poté godere della sua smisurata dimora che probabilmente non vide mai completamente finita, né ebbe il tempo di visitare per intero. I successori provvidero a demolirla in larga parte, già Domiziano fece abbattere gli edifici sul Palatino, altri fecero colmare di macerie il lago per predisporre il terreno alla costruzione dell'anfiteatro (Colosseo), Adriano fece demolire sulla Velia il vestibolo della Domus per innalzare il tempio di Venere e Roma. Il padiglione sul Colle Oppio (quello che fino a oggi si visitava) sopravvisse fino al 104 quando un incendio lo distrusse in parte. Quando poi Traiano ordinò che sull'area venissero costruite le sue terme, l'architetto Apollodoro di Damasco fece abbattere completamente gli ambienti superiori, colmare di terra quelli sottostanti trasformandoli così, all'interno delle mura portanti, in un immenso cubo da sfruttare come fondazione per i nuovi edifici. Alla luce subentrarono le tenebre, gli ori, le gemme, i marmi variopinti annegarono sotto tonnellate di terra e di detriti, alla magnificenza si sostituì la rovina e per alcuni secoli l'oblio al quale dobbiamo la parziale conservazione di questa insigne testimonianza.
Corrado Augias
La Repubblica - 13.12.2005 -
Costruita dopo l'incendio di Roma, alla morte del creatore fu demolita o interrata Nel 500 grandi artisti si calavano nelle grotte per copiare gli affreschi sepolti copiandone i motivi ornamentali che poi sono diventati le famose 'grottesche' : forme vegetali miste a figurette umane o animali solo di rado realistiche, quasi sempre immaginarie, estranee ad ogni canone naturale, un mondo fantastico in cui umano, vegetale e animale si fondono in figurazioni vivacissime e bizzarre tra lo scherzo e l'allucinazione. Grottesca viene ovviamente da grotta e grotte sotterranee erano diventate queste stanze, riempite di terra e di detriti fin quasi alla sommità. La loro riscoperta lancerà una moda dirompente centrata sulle antichità e i ruderi romani, paragonabile solo alla 'Egittomania' che le campagne napoleoniche susciteranno all'inizio del XIX secolo.
Dopo il disastroso incendio del 64, Nerone volle che sorgesse nella città devastata la sua nuova reggia. Espropriò un'area di ottanta ettari perché voleva, dice Svetonio, che il suo palazzo si estendesse dal Palatino all'Esquilino. Per capire di quale magnificenza di spazi la costruzione disponesse basta pensare che una statua gigantesca alta trentacinque metri (un edificio di dodici piani) entrava nel vestibolo. Quando la statua venne spostata fu necessario aggiogare, data l'enormità del peso, ventiquattro elefanti; da questa immane figura prenderà nome, nel Medio Evo, il Colosseo. Lo scultore greco Zenodoro aveva raffigurato l'imperatore nudo, con attributi solari, il braccio destro proteso, il sinistro ripiegato a sorreggere un globo. Da una corona posta sulla fronte si dipartivano sette raggi (lunghi sei metri l'uno) raffigurazione del potere assoluto e di quel Sole con il quale l'uomo voleva essere identificato.
La casa, assicura sempre Svetonio, comprendeva tre portici lunghi un miglio «uno stagno, anzi quasi un mare, circondato da edifici grandi come città. Alle spalle ville con campi, vigneti e pascoli, boschi pieni di animali domestici e selvatici». Se noi oggi camminiamo nel buio e nel silenzio, la dimora neroniana al contrario riluceva poiché tutto era ricoperto d'oro, impreziosito da gemme e da conchiglie incastonate nell'intonaco. Ancora: «Le sale da pranzo avevano soffitti coperti di lastre d'avorio mobili e forate in modo da consentire la caduta di fiori e di profumi». Poi i marmi, commisti gli uni agli altri a formare quelle policromie nelle quali i romani eccellevano. Pietre che arrivavano dalla Spagna, dalla Numidia, dalla Tripolitania, dall'Egitto, dall'Asia, dalla Grecia, dalle Gallie, dalla Cappadocia. Diverse per colore e tessitura, uniche per durezza e bellezza del disegno, rimarranno nell'uso e molti secoli più tardi i marmorari romani le chiameranno con nomi che evocano da soli un'epoca: 'portasanta', 'lumachella orientale', 'pavonazzetto', 'serpentino', 'granito degli obelischi', 'africano', e la più pregiata di tutte, il 'porfido rosso' riservato all'imperatore.
Ma non c'erano solo eccessi cromatici nella decorazione di quella fantastica dimora. Vi aveva parte anche la tecnologia, quanto di meglio la meccanica del tempo consentisse: «La [sala] più importante era circolare e ruotava continuamente giorno e notte come la terra. I bagni erano forniti di acqua marina e solforosa». I due architetti Severo e Celere, incaricati del progetto, sapevano che con quell'opera avrebbero guadagnato una lunga gloria o perso tutto, compresa la vita. Stimolati dalla posta estrema e conoscendo i gusti del committente, concepirono soluzioni di tale bizzarria da far dire a Tacito che «spesso andarono contro le leggi di natura». L'intera valle al cui centro noi vediamo l'anfiteatro Flavio (Colosseo) venne ricoperta dal lago di cui parla Svetonio, vasto quasi come un mare.
Quelle meraviglie sopravvissero poco alla morte del proprietario avvenuta nel 68. Per brevissimi anni Nerone poté godere della sua smisurata dimora che probabilmente non vide mai completamente finita, né ebbe il tempo di visitare per intero. I successori provvidero a demolirla in larga parte, già Domiziano fece abbattere gli edifici sul Palatino, altri fecero colmare di macerie il lago per predisporre il terreno alla costruzione dell'anfiteatro (Colosseo), Adriano fece demolire sulla Velia il vestibolo della Domus per innalzare il tempio di Venere e Roma. Il padiglione sul Colle Oppio (quello che fino a oggi si visitava) sopravvisse fino al 104 quando un incendio lo distrusse in parte. Quando poi Traiano ordinò che sull'area venissero costruite le sue terme, l'architetto Apollodoro di Damasco fece abbattere completamente gli ambienti superiori, colmare di terra quelli sottostanti trasformandoli così, all'interno delle mura portanti, in un immenso cubo da sfruttare come fondazione per i nuovi edifici. Alla luce subentrarono le tenebre, gli ori, le gemme, i marmi variopinti annegarono sotto tonnellate di terra e di detriti, alla magnificenza si sostituì la rovina e per alcuni secoli l'oblio al quale dobbiamo la parziale conservazione di questa insigne testimonianza.