Corriere della Sera 3.10.08
Un lavoro d'eccellenza curato da Guido Bastianini e Rosario Pintaudi
Il vero Adriano, oltre la Yourcenar
Gli scavi dell'Istituto Vitelli nella città dell'amante Antinoo
di Luciano Canfora
Pubblicati 122 testi e quattro pezzetti figurati Confermata un'intuizione della grande Medea Norsa
Nel 1951 Marguerite Yourcenar ebbe la strana idea di far parlare Adriano con la profondità, il senso del dovere, il filosofico pessimismo di Marco Aurelio. E così nacquero le Memorie di Adriano. Un libro in verità piuttosto lamentoso, che risente ovviamente anche della cultura del tempo. Un esempio per tutti: quando Adriano «prevede» la caduta dell'impero romano ad opera dei «barbari dall'esterno e degli schiavi dall'interno» (p. 110 trad. Einaudi), non fa che riassumere un pensiero divenuto a torto famoso, ma formulato del tutto en passant
da Stalin in un discorso del 1933 ai «colcoziani d'assalto», di lì passato nelle Questioni del leninismo
(tradotte a Parigi per le Éditions Sociales nel 1947) e intanto «codificato» nella Storia di Roma di Sergej Ivanovich Kovaliov l'anno seguente (capitolo XVI). Alla fine degli anni Quaranta, nella Francia di Sartre, di Aragon e della colomba di Picasso, la cosa non deve stupirci. E poi, una scrittrice che si avventurava a far rivivere l'antichità sotto forma di romanzo doveva pur cercare fonti di ispirazione non ovvie!
Ma c'era in lei anche un certo scrupolo topografico. La sepoltura di Antinoo gliene offre il destro. Il dolore di Adriano per la morte di Antinoo è, com'è ovvio, un «pezzo forte» del romanzo, e offre l'occasione all'autrice per parlare dottamente della «città di Antinoo» (Antinoupolis ovvero Antinòpoli) voluta e creata nel Medio Egitto da Adriano per celebrare ed eternare la figura dell'amato giovane. «Le barche ci condussero in quel punto del fiume dove cominciava a sorgere Antinopoli (...) Si profilava la pianta degli edifici futuri tra i mucchi di terreno sterrato. Ma esitavo ancora sulla località del sepolcro (...) Anche il monumento previsto, alle porte di Antinopoli, sembrava troppo esposto e poco sicuro. Seguii il consiglio dei sacerdoti. Essi mi indicarono, sul fianco d'una montagna della catena arabica, a tre leghe dalla città, una di quelle caverne che un tempo i re d'Egitto destinavano a servir loro da sepolcri (...) I secoli sarebbero passati a migliaia su quella tomba» (p. 199).
Quando Yourcenar scriveva queste pagine gli scavi italiani ad Antinoupolis, intrapresi nel 1935-36, languivano per la lunga interruzione dovuta alla guerra. Nel 1940 l'Italia aveva aggredito l'Egitto, e non era facile ripresentarsi nel dopoguerra a scavare come se nulla fosse successo. La ripresa avvenne soltanto nel 1965. Un'altra lunghissima stasi ci fu tra il 1993 e il 2000. Ed ora, finalmente, per merito, ancora una volta, dell'Istituto Papirologico «Vitelli» di Firenze, i risultati dello scavo vengono pubblicati in un primo prezioso ed imponente volume, Antinoupolis.
In un momento particolarmente oscurantistico del nostro recente passato, l'Istituto «Vitelli» stava per essere proclamato «ente inutile», e conseguentemente penalizzato. La minaccia fu sventata, ma era sintomatica di un malcostume intellettuale che continua a dominare, nel segno di un'idea utilitaristica del lavoro intellettuale. Finanziamenti da parte dello Stato e visibili, tangibili risultati immediati, magari tali da farci su un bel «servizio» televisivo, sono considerati entità indissolubili. La necessaria lentezza della ricerca è malvista. Ebbene questo Istituto e le molte forze intellettuali che in vario modo e a vario titolo vi si riferiscono hanno dato alla luce quasi contemporaneamente due consistenti risultati. Da un lato questo primo volume su Antinoupolis, dall'altro l'ultimo nato (il quindicesimo) della serie dei Papiri greci e latini. Scavare ad Antinoupolis fu un'idea di Girolamo Vitelli (scomparso nel settembre del '35). Vitelli aveva una notevolissima conoscenza storica e antiquaria dell'Egitto greco-romano e sapeva intuire dove convenisse orientare gli scavi italiani, dei quali egli era, insieme con Medea Norsa ed Evaristo Breccia, il vero e sapiente promotore.
Negli anni Sessanta, alla ripresa, pur tra mille vicissitudini, un nuovo punto fermo lo mise Sergio Donadoni con il suo prezioso Promemoria sui «kiman» di Antinoe
(1966). Ed ora i «dioscuri fiorentini» Rosario Pintaudi (cattedratico a Messina e custode dei papiri in Laurenziana) e Guido Bastianini (attuale direttore del Vitelli) hanno compiuto l'opera. Intorno a loro una schiera di giovani che sopperiscono con l'entusiasmo e la fiducia nella ricerca, e nei loro maestri, alla mancanza di una dignitosa e meritata collocazione nella sclerotica e pluririformata, e perciò boccheggiante, Università italiana. È ben vero che è tipico del nostro ceto intellettuale, soprattutto dei più giovani (che sono spesso tra i più bravi come Diletta Minutoli, «volontaria» a Messina e ad Antinoupolis) questo «idealismo» del lavoro fatto per «l'arte». Il che tanto più colpisce a fronte dell'elefantiasi burocratica dei nostri atenei ridondanti di uffici inutili.
Lo scavo archeologico è, per natura, uno dei luoghi dove più facile è che si realizzi la collaborazione internazionale. Nel caso dell'Egitto, terra d'elezione della papirologia mondiale, c'è un legame in più che si determina di necessità. È finita da un pezzo l'epoca della gestione «colonialistica» dei beni culturali sepolti sotto il suolo egiziano. Anche se ogni tanto qualche misteriosa (ma non troppo) esportazione clandestina si riaffaccia rumorosamente alla ribalta. L'argomento con cui un tempo veniva zittita la protesta dei nazionalisti egiziani contro il saccheggio era — anche da parte di caste locali infeudate all'Occidente — che gli egiziani non disponevano di studiosi competenti per valorizzare quei tesori. Forse l'argomento era già discutibile allora (ne parlammo diffusamente nel Papiro di Dongo, Adelphi), certo non è accettabile ora, quando l'Egitto dispone di forze notevolissime e qualificate e di un patron dell'Archeologia quale Zahi Hawas, che anche per gli scavi di Antinoupolis è stato e continua ad essere una sponda preziosa. Ma allo scavo partecipano anche ricercatori tedeschi, belgi, cechi. Insomma la missione italiana (anche se gli elargitori di fondi ministeriali non se ne sono accorti) è al centro di una rete internazionale di grande prestigio. Vedremo presto gli altri volumi. E conosceremo la storia della città di Adriano come s'è sviluppata nei secoli: attraverso le monete, e poi il santuario di San Colluto. Uno spaccato della storia mediterranea attraverso un punto di osservazione privilegiato.
Il volume quindicesimo della gloriosa serie fiorentina ci ripaga di una lunga attesa. Centoventidue testi editi con la acribia di sempre, dei quali solo settantasette erano già noti da pubblicazioni parziali. Quasi sessanta sono i testi letterari, e i quattro pezzetti figurati (1571-1574) fanno giustizia, al solo vederli, di tante recenti fantasie in questo campo, dove è così facile prendere abbagli. Tra tanta ricchezza di materiali piace qui ricordare, in conclusione, un caso cui già facemmo cenno nel Papiro di Dongo. Ancora una volta una intuizione testuale di Medea Norsa viene confermata. Parliamo dell'attuale nr. 1480, che è con tutta probabilità un nuovo pezzo di Menandro, come Norsa ben vide (e intendeva già pubblicarlo nel 1948 nel volume XIII). Dopo un vario «errare» tra altre ipotesi si torna a Menandro, come all'ipotesi più probabile. I padri fondatori della papirologia italiana possono andar fieri dei loro eredi.
Un lavoro d'eccellenza curato da Guido Bastianini e Rosario Pintaudi
Il vero Adriano, oltre la Yourcenar
Gli scavi dell'Istituto Vitelli nella città dell'amante Antinoo
di Luciano Canfora
Pubblicati 122 testi e quattro pezzetti figurati Confermata un'intuizione della grande Medea Norsa
Nel 1951 Marguerite Yourcenar ebbe la strana idea di far parlare Adriano con la profondità, il senso del dovere, il filosofico pessimismo di Marco Aurelio. E così nacquero le Memorie di Adriano. Un libro in verità piuttosto lamentoso, che risente ovviamente anche della cultura del tempo. Un esempio per tutti: quando Adriano «prevede» la caduta dell'impero romano ad opera dei «barbari dall'esterno e degli schiavi dall'interno» (p. 110 trad. Einaudi), non fa che riassumere un pensiero divenuto a torto famoso, ma formulato del tutto en passant
da Stalin in un discorso del 1933 ai «colcoziani d'assalto», di lì passato nelle Questioni del leninismo
(tradotte a Parigi per le Éditions Sociales nel 1947) e intanto «codificato» nella Storia di Roma di Sergej Ivanovich Kovaliov l'anno seguente (capitolo XVI). Alla fine degli anni Quaranta, nella Francia di Sartre, di Aragon e della colomba di Picasso, la cosa non deve stupirci. E poi, una scrittrice che si avventurava a far rivivere l'antichità sotto forma di romanzo doveva pur cercare fonti di ispirazione non ovvie!
Ma c'era in lei anche un certo scrupolo topografico. La sepoltura di Antinoo gliene offre il destro. Il dolore di Adriano per la morte di Antinoo è, com'è ovvio, un «pezzo forte» del romanzo, e offre l'occasione all'autrice per parlare dottamente della «città di Antinoo» (Antinoupolis ovvero Antinòpoli) voluta e creata nel Medio Egitto da Adriano per celebrare ed eternare la figura dell'amato giovane. «Le barche ci condussero in quel punto del fiume dove cominciava a sorgere Antinopoli (...) Si profilava la pianta degli edifici futuri tra i mucchi di terreno sterrato. Ma esitavo ancora sulla località del sepolcro (...) Anche il monumento previsto, alle porte di Antinopoli, sembrava troppo esposto e poco sicuro. Seguii il consiglio dei sacerdoti. Essi mi indicarono, sul fianco d'una montagna della catena arabica, a tre leghe dalla città, una di quelle caverne che un tempo i re d'Egitto destinavano a servir loro da sepolcri (...) I secoli sarebbero passati a migliaia su quella tomba» (p. 199).
Quando Yourcenar scriveva queste pagine gli scavi italiani ad Antinoupolis, intrapresi nel 1935-36, languivano per la lunga interruzione dovuta alla guerra. Nel 1940 l'Italia aveva aggredito l'Egitto, e non era facile ripresentarsi nel dopoguerra a scavare come se nulla fosse successo. La ripresa avvenne soltanto nel 1965. Un'altra lunghissima stasi ci fu tra il 1993 e il 2000. Ed ora, finalmente, per merito, ancora una volta, dell'Istituto Papirologico «Vitelli» di Firenze, i risultati dello scavo vengono pubblicati in un primo prezioso ed imponente volume, Antinoupolis.
In un momento particolarmente oscurantistico del nostro recente passato, l'Istituto «Vitelli» stava per essere proclamato «ente inutile», e conseguentemente penalizzato. La minaccia fu sventata, ma era sintomatica di un malcostume intellettuale che continua a dominare, nel segno di un'idea utilitaristica del lavoro intellettuale. Finanziamenti da parte dello Stato e visibili, tangibili risultati immediati, magari tali da farci su un bel «servizio» televisivo, sono considerati entità indissolubili. La necessaria lentezza della ricerca è malvista. Ebbene questo Istituto e le molte forze intellettuali che in vario modo e a vario titolo vi si riferiscono hanno dato alla luce quasi contemporaneamente due consistenti risultati. Da un lato questo primo volume su Antinoupolis, dall'altro l'ultimo nato (il quindicesimo) della serie dei Papiri greci e latini. Scavare ad Antinoupolis fu un'idea di Girolamo Vitelli (scomparso nel settembre del '35). Vitelli aveva una notevolissima conoscenza storica e antiquaria dell'Egitto greco-romano e sapeva intuire dove convenisse orientare gli scavi italiani, dei quali egli era, insieme con Medea Norsa ed Evaristo Breccia, il vero e sapiente promotore.
Negli anni Sessanta, alla ripresa, pur tra mille vicissitudini, un nuovo punto fermo lo mise Sergio Donadoni con il suo prezioso Promemoria sui «kiman» di Antinoe
(1966). Ed ora i «dioscuri fiorentini» Rosario Pintaudi (cattedratico a Messina e custode dei papiri in Laurenziana) e Guido Bastianini (attuale direttore del Vitelli) hanno compiuto l'opera. Intorno a loro una schiera di giovani che sopperiscono con l'entusiasmo e la fiducia nella ricerca, e nei loro maestri, alla mancanza di una dignitosa e meritata collocazione nella sclerotica e pluririformata, e perciò boccheggiante, Università italiana. È ben vero che è tipico del nostro ceto intellettuale, soprattutto dei più giovani (che sono spesso tra i più bravi come Diletta Minutoli, «volontaria» a Messina e ad Antinoupolis) questo «idealismo» del lavoro fatto per «l'arte». Il che tanto più colpisce a fronte dell'elefantiasi burocratica dei nostri atenei ridondanti di uffici inutili.
Lo scavo archeologico è, per natura, uno dei luoghi dove più facile è che si realizzi la collaborazione internazionale. Nel caso dell'Egitto, terra d'elezione della papirologia mondiale, c'è un legame in più che si determina di necessità. È finita da un pezzo l'epoca della gestione «colonialistica» dei beni culturali sepolti sotto il suolo egiziano. Anche se ogni tanto qualche misteriosa (ma non troppo) esportazione clandestina si riaffaccia rumorosamente alla ribalta. L'argomento con cui un tempo veniva zittita la protesta dei nazionalisti egiziani contro il saccheggio era — anche da parte di caste locali infeudate all'Occidente — che gli egiziani non disponevano di studiosi competenti per valorizzare quei tesori. Forse l'argomento era già discutibile allora (ne parlammo diffusamente nel Papiro di Dongo, Adelphi), certo non è accettabile ora, quando l'Egitto dispone di forze notevolissime e qualificate e di un patron dell'Archeologia quale Zahi Hawas, che anche per gli scavi di Antinoupolis è stato e continua ad essere una sponda preziosa. Ma allo scavo partecipano anche ricercatori tedeschi, belgi, cechi. Insomma la missione italiana (anche se gli elargitori di fondi ministeriali non se ne sono accorti) è al centro di una rete internazionale di grande prestigio. Vedremo presto gli altri volumi. E conosceremo la storia della città di Adriano come s'è sviluppata nei secoli: attraverso le monete, e poi il santuario di San Colluto. Uno spaccato della storia mediterranea attraverso un punto di osservazione privilegiato.
Il volume quindicesimo della gloriosa serie fiorentina ci ripaga di una lunga attesa. Centoventidue testi editi con la acribia di sempre, dei quali solo settantasette erano già noti da pubblicazioni parziali. Quasi sessanta sono i testi letterari, e i quattro pezzetti figurati (1571-1574) fanno giustizia, al solo vederli, di tante recenti fantasie in questo campo, dove è così facile prendere abbagli. Tra tanta ricchezza di materiali piace qui ricordare, in conclusione, un caso cui già facemmo cenno nel Papiro di Dongo. Ancora una volta una intuizione testuale di Medea Norsa viene confermata. Parliamo dell'attuale nr. 1480, che è con tutta probabilità un nuovo pezzo di Menandro, come Norsa ben vide (e intendeva già pubblicarlo nel 1948 nel volume XIII). Dopo un vario «errare» tra altre ipotesi si torna a Menandro, come all'ipotesi più probabile. I padri fondatori della papirologia italiana possono andar fieri dei loro eredi.