Che vogliamo farne delle mura Aureliane?
Giulia Vola
Gioia 26/11/2010
Lungo i suoi 12 chilometri si incontrano transenne, filo spinato, piante che hanno messo radici, officine, depositi. Milioni di romani le costeggiano tutti i giorni, e sono talmente parte della città che ci vuole un occhio estraneo per capire il loro inestimabile valore archeologico. Fino al prossimo crollo
Sabato mattina, il sole splende su Roma. A Piramide Cestia un turista tedesco si avvicina al cancello che custodisce alcune rovine: «Is it open?., è aperto, chiede alla gattara con le chiavi in mano. «Only for cats», solo per i gatti, risponde lei, richiudendosi la porta alle spalle. «Questa è la casa dei gatti», cerca di convincerlo. «Può pagare il biglietto e vedere le rovine dall'alto». Il tedesco non capisce, gira i tacchi e se ne va. Un altro biglietto perso, commenta lei, «fine della visita, addio ai soldi che il biondo avrebbe volentieri scucito pur di camminare tra millenni di storia pietrificata». La gattara si chiama Matilde Falli, è sulla sessantina, ha occhi chiari e modi decisi. Ventisette anni fa trovò sei cuccioli infilzati su uno spiedo e decise di fare a modo suo: «Chiesi a un'amica archeologa della Soprintendenza un luogo dove prendermi cura dei gatti abbandonati e lei mi aiutò a ottenere l'autorizzazione ad accedere nell'area archeologica della Piramide. Da allora ci occupiamo dei gatti e del sito». Meno male: se non ci fosse lei, le confinanti mura Aureliane avrebbero qualche mattone di meno: «Di notte i vandali staccano pezzi interi, i barboni abbandonano bottiglie e i passanti scambiano il Muro per un orinatoio». La notte prima ha chiamato la Soprintendenza. «Mi hanno risposto di tenere gli occhi aperti e, in caso di emergenza di chiamare i carabinicri. Qui ognuno deve fare per sé. Ma prendersi cura dei gatti è più facile che occuparsi di tutte queste rovine». Arrivo a Roma in treno. Il benvenuto me lo dà il tempio di Minerva Medica, un edificio che emerge dai binari ricoperto di piante, sporco, abbandonato. «In realtà è un grande ninfeo del IV secolo», spiega Maria Rosa Patti, archeologa e, quando non scava, guida turistica, «un impressionante esempio dell'architettura tardo-antica. E’ uno scandalo che sia conservato così». Uscita da Termini mi metto nei panni del tedesco. Panico. «Nel raggio di cento metri ci sono il Museo Nazionale Romano, la chiesa michelangiolesca di Santa Maria degli Angeli e le Terme di Diocleziano», fa notare l'archeologa, «si arriva al Foro in quindici minuti a piedi. Eppure non c'è nemmeno un'indicazione». Vedere per credere: la piazza è piena di turisti che rigirano la mappa per capire dove andare. «In Italia non manca solo la tutela ma anche la valorizzazione del patrimonio artistico». Marxiano Melotti, professore di Archeologia e Turismo all'Università di Milano, è amareggiato: «E’ come se tutto ciò non ci appartenesse, non lo valorizziamo e non lo sfruttiamo. Il danno culturale, scientifico ed economico è incalcolabile. Non è ammissibile che manchino le segnalazioni, che straordinari tesori siano invisitabili e altri custoditi da personale inadeguato che non apre il cancello perché è a pranzo con i parenti». Stefano Ferri, archeologo e professore di storia dell'arte nei licei tira le somme amareggiato: «Abbiamo un'enorme responsabilità verso l'umanità». Eppure anche gli archeologi sono abbandonati, come le rovine. Hanno stipendi da fame, fanno due o tre lavori e sono in balia dei venti della politica. I numeri, considerando i fondi europei assegnati all'Italia per il periodo 20072013, sono chiari. L'ultimo monitoraggio sulla spesa realizzata dalle regioni meridionali per le risorse culturali, ci dice che su un totale di 5,9 miliardi di curo stanziati, solo il 5,1% è stato sfruttato: «Un tesoro inutilizzato», commenta Romolo Augusto Staccioli, professore di Antichità Italiche alla Sapienza, «mentre importanti opere d'arte attendono da anni un restauro e i musei che accusano i segni del degrado languono». La lista è lunga.
In via di Porta San Lorenzo le mura Aureliane ospitano un'autocarrozzeria. Solo a Roma ci sarebbe il Torrione di via Prenestina, «tra i più grandiosi mausolei a forma di tumulo del I secolo». E la Villa Gordiani «con un parco costellato di resti archeologici a rischio di crollo». E il Colombario di largo Preneste e le antiche mura Serviane della metà del VI secolo avanti Cristo «di notevolissimo valore storico». Nessuno è in grado di spiegare il perché dell'incuria. I fatti però, sono sotto gli occhi di tutti. Come le mura Aureliane, che ogni giorno milioni di romani costeggiano a piedi, in macchina, in tram. «Hanno 1.800 anni e fino al 1870 hanno difeso la città», fa notare Stefano Ferri. «Non ci pensiamo, eppure potrebbero crollare. E’ già successo». Il 15 aprile 2001 cascarono venti metri, il 18 giugno 2007 si staccò un capitello in marmo, il l novembre si sbriciolò un tratto alto 10 metri e largo 15, il 30 marzo 2010 alcuni mattoni sono atterrati su un'auto. «Ma le mura sono lunghe», obietta Ferri, «dei 19 chilometri ne sono rimasti 12,5. Furono costruite velocemente, usando anche materiale di scarto, l'incuria non ne aiuta la conservazione. Il problema è che i punti a rischio sono in zone trafficate». Saliamo su un taxi e andiamo a cercarli. Da Porta Metronia passando per Porta Latina, fino a Porta San Sebastiano è un susseguirsi di transenne, tubolari in ferro e fili spinati arrugginiti, cartelli gialli di pericolo sbiaditi e piante che hanno messo radice tra un mattone e l'altro. Carlo Lorenzi è un romano di Roma, tutti i giorni fa mezz'ora di corsa costeggiando il percorso. Non ha paura dei crolli? «Sto attento e le tengo d'occhio». E non le dispiace che nessuno si occupi delle Mura? «Mi dispiace di più che ci siano privilegiati che si sono fatti i giardini pensili all'interno delle torrette all'altezza di santa Bibiana, pagando due lire di affitto». Non va meglio a Porta Maggiore, dove un tratto di acquedotti romani inglobato nelle Aureliane deve convivere con il capolinea dei mezzi pubblici: «Le vibrazioni dei tram sono pericolose per la solidità degli edifici, soprattutto se assemblati in epoche diverse», sottolinea Ferri. «I crolli avvengono più facilmente in concomitanza di modifiche architettoniche». In questo caso avremmo il due per uno. Giorgio Bacconi, romano della Garbatella, aspetta il tram. Interrogato, fa spallucce: «Nessuna meraviglia: a viale Carlo Felice alle mura s'appoggiava un deposito dell'Atac; a via Castro Pretorio un deposito dell'Ama, l'azienda dei rifiuti. E dentro Porta Tiburtina ci sta un'officina. Creda a me: Aureliano si rivolta nell'avello». Nella tomba. C'è da credergli e da preoccuparsi. Interrogato alla Camera su Pompei, il Ministro della Cultura Sandro Bondi ha dichiarato che «nuovi crolli non si possono escludere». Intervistato da La Stampa, l'ex ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli è stupito che «con i tagli non ci sia un crollo al giorno». Inaugurando il tempio di Venere e Roma - inaccessibile da trent'anni - il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro ha dichiarato che «i crolli ci sono e ci saranno, e contarli è puerile». Patrizio Pensabene, ordinario di Archeologia classica alla Sapienza, rimanda la battuta al mittente e tocca il tasto dolente: «E’ puerile sottovalutare il pericolo: è un miracolo se non sono morto con i miei allievi sotto il crollo della Domus Aurea. Fino a una settimana prima eravamo lì a scavare». E allora, se lo Stato non ce la fa, ben venga il federalismo demaniale: «Il Colosseo incassa 43 milioni l'anno ma da 30 aspetta un restauro», dice Staccioli. «I soldi si perdono in mille rivoli e le decisioni in centinaia di uffici». Per ovviare alla mancanza di personale il professore ha proposto di arruolare i cittadini e gli immigrati che bivaccano intorno alle mura, «perché il primo gesto parte dal basso». Gli hanno risposto picche. Idem all'incursione dei privati. Il professor Pensabene un sospetto ce l'ha: «Perché i privati fanno la corsa a finanziare mostre e collezioni museali ma si tirano indietro quando si tratta di territorio? L'imprenditoria teme che l'archeologia blocchi la speculazione edilizia e viceversa. II risultato è l'immobilismo o, peggio, la perdita di una villa antica per un supermercato in più». L'importante, sottolinea Pensabene, «è che ci sia conoscenza: senza, non può esserci tutela». Antonio Insalaco, curatore archeologo presso la Sovrintendenza ai Beni Culturali, «un esempio di restauro che non è costato un soldo allo Stato» ce l'ha: il vicus Capriarius, alias la Città dell'Acqua, «un vasto complesso di età imperiale riportato alla luce tra il 1999 e il 2001 con la disponibilità del gruppo Cremonini». Il sito è visitabile, i biglietti si vendono e i turisti sono entusiasti. Insomma, se come ha ribadito il ministro dell'Economia Giulio'I'remonti, «gli italiani non mangiano cultura», chi la cultura la fa, nutrendo il cervello di chi la fruisce, deve poter lavorare e mangiare. «E allora», si chiede provocatoria l'archeologa Maria Rosa Patti, «se è vero che con la cultura non si mangia, con i soldi delle mie tasse ci mangio io. Forse messa così suona diversamente, e qualcuno inizia a prenderci sul serio».