Repubblica 22.12.07
Roma e il mondo greco
Intervista con Paul Veyne di Roberto Festa
«La politica era romana, ma la cultura era greca». Così, con uno sforzo notevole di sintesi, si potrebbe racchiudere il senso di L´impero greco-romano, monumentale summa del pensiero, del sapere e della grazia intellettuale di Paul Veyne. Titolare della cattedra di Storia romana al Collège de France fino al 1998, uomo di cultura particolarmente attivo nella vita pubblica (soprattutto ai tempi della guerra d´Algeria), Veyne ha rivoluzionato l´approccio alla mitologia greca con I greci hanno creduto ai loro miti?. Nell´ultimo libro intreccia filosofia, sociologia, archeologia, psicologia, storia sociale, culturale e delle mentalità, per descrivere il primo mondo davvero globale della storia dell´umanità.
Paul Veyne, siamo abituati a dissociare la civiltà greca dall´impero romano. La tesi centrale del libro è invece che l´impero di Roma sia fondamentalmente un impero greco-romano. Perché?
«Perché l´Impero era bilingue e biculturale. Le faccio due esempi. A Roma, la filosofia e la medicina si insegnavano in greco, e l´imperatore Marco Aurelio annotava i suoi pensieri in greco, e non in latino. La frontiera linguistica passava sul territorio della ex Jugoslavia: di qui si parlava il latino, di là il greco».
Orazio scriveva che «la Grecia ha conquistato il suo selvaggio conquistatore» recandogli le arti.
«Esattamente. Le strutture portanti - filosofia, retorica - erano greche. Roma aggiunse il genio politico al genio artistico e culturale greco: l´autorità e il senso della regola del gioco politico, quindi il diritto, sono romani».
Il greco era la cultura, e la lingua, di una prima "mondializzazione"?
«Sì, quella greca era una cultura globale, che dal sud del Marocco arrivava sino all´attuale Afganistan. Il re del Marocco studiava il greco e la retorica per raccontare la storia del suo paese».
Esiste un modello politico e sociale comune, tra i Greci e Roma?
«Sono le città. Non si conoscono esattamente le ragioni per cui questo modello sociale si è sviluppato tra i fenici e poi diffuso rapidamente in Asia Minore, nel mondo etrusco, quindi in quello romano. Ma la Grecia e Roma hanno in comune proprio il sistema della città. Il mondo dominato da Roma vive in uno stato di sostanziale autarchia. Il potere centrale non si confonde con gli affari delle città conquistate, ma interviene soltanto nel caso di disordini. L´impero romano era un commonwealth di città».
Quindi Roma lasciava ampia autonomia ai poteri locali.
«L´autonomia era totale. Scherzando, si potrebbe dire che il sistema romano consisteva nell´ordinare alla gente di fare quello che gli andava di fare. I romani comandavano trasformando i notabili delle città in collaboratori. Ma non pensavano affatto a diffondere la loro civiltà Se per esempio i galli o i bretoni d´Inghilterra adottavano i bagni pubblici, lo facevano per civilizzarsi, non perché i romani li spingessero in questo senso. I romani se ne infischiavano. Non volevano fare proseliti o diffondere la loro civiltà».
Eppure esiste almeno un campo in cui Grecia e Roma si differenziano: la concezione dell´autorità.
«Sì, i romani avevano un concetto dell´imperium molto più violento di quello greco, e concepivano l´autorità sotto forma militare, come il comando dell´ufficiale sulle truppe. Sul campo di battaglia, un ufficiale ha diritto di vita e di morte sui suoi soldati. Allo stesso modo, il magistrato aveva diritto di vita e di morte sui cittadini. È la disciplina militare, che diventa modello civile».
Da dove viene questa concezione dell´autorità?
«Difficile dirlo. Molta storiografia italiana, soprattutto di ispirazione marxista, parla di un interesse di classe. Io preferisco pensare a ragioni psicologiche. C´era a Roma una concezione spontanea della sicurezza, che spingeva a fare di tutto perché Roma non fosse minacciata. In questo senso, non esisteva una vera politica estera, delle relazioni diplomatiche, perché il fine era assorbire tutto ciò che stava attorno, e che poteva costituire una minaccia. L´imperatore non aveva un ministro degli affari esteri. Non essendoci altre nazioni, non c´era neppure una politica estera. Roma si considerava l´unico vero stato, con attorno una serie di tribù informi cui demandare larga autonomia».
Il cittadino dell´impero si sentiva greco-romano?
«Dipende. Galli, spagnoli e africani si sentivano romani. Erano fieri della loro nascita, ma poi si consideravano parte di un tutto più vasto. Un siriano diceva: sono siriano, ma poi aggiungeva, "suddito fedele dell´imperatore". Sant´Agostino si definiva un "romano d´Africa". Al contrario, i greci erano fieri di essere greci. Ancora nel quarto secolo, dicevano: "Noi siamo greci, voi romani". Con tutto il loro senso di superiorità, i greci erano comunque contenti della dominazione romana, che assicurava il potere dei notabili, la buona società e la difesa dai barbari che vivevano oltre l´Eufrate».
Gli imperatori avevano una nazionalità?
«Erano di tutte le nazionalità, a patto che fossero occidentali e latini. Non c´è però un solo imperatore greco. I greci erano troppo fieri, non ispiravano fiducia».
Qual era il mandato dell´imperatore?
«L´imperatore era chiaramente distinto dal re. Era un "gran cittadino", che col suo clan aveva assunto il potere per governare e difendere la cosa pubblica, quindi l´Impero. Il suo potere non aveva alcuna connotazione mistica. Era un mandatario del popolo romano, che nel caso si fosse comportato male sarebbe stato rimpiazzato. E poiché la sola sanzione nella politica romana era la morte, il suo allontanamento coincideva spesso con il suo assassinio».
Lei ha scritto di essere diventato storico per uno "choc psicologico": quando, a otto anni, su una collina vicina a Cavaillon, trovò per caso la testa di un´anfora. Questa scoperta le fece «l´effetto di un meteorite caduto da un altro pianeta». La storia è la scoperta dell´alterità?
«Fare storia significa sottolineare le differenze con il passato. Il passato è irrimediabilmente perduto, senza alcuna rassomiglianza con quello che ci sta intorno. Lo storico deve disegnare queste figure lontane. Per farlo, inventa delle idee, quindi concettualizza. La concettualizzazione è l´unico modo per arrivare a esprimere l´individualità. Dire che il potere dell´imperatore era un potere di clan, che l´imperatore era mandatario e non sovrano, significa appunto concettualizzare. Il concetto storico individualizza, non generalizza. Senza concetti storici, c´è soltanto senso comune e attualizzazione».
Roma e il mondo greco
Intervista con Paul Veyne di Roberto Festa
«La politica era romana, ma la cultura era greca». Così, con uno sforzo notevole di sintesi, si potrebbe racchiudere il senso di L´impero greco-romano, monumentale summa del pensiero, del sapere e della grazia intellettuale di Paul Veyne. Titolare della cattedra di Storia romana al Collège de France fino al 1998, uomo di cultura particolarmente attivo nella vita pubblica (soprattutto ai tempi della guerra d´Algeria), Veyne ha rivoluzionato l´approccio alla mitologia greca con I greci hanno creduto ai loro miti?. Nell´ultimo libro intreccia filosofia, sociologia, archeologia, psicologia, storia sociale, culturale e delle mentalità, per descrivere il primo mondo davvero globale della storia dell´umanità.
Paul Veyne, siamo abituati a dissociare la civiltà greca dall´impero romano. La tesi centrale del libro è invece che l´impero di Roma sia fondamentalmente un impero greco-romano. Perché?
«Perché l´Impero era bilingue e biculturale. Le faccio due esempi. A Roma, la filosofia e la medicina si insegnavano in greco, e l´imperatore Marco Aurelio annotava i suoi pensieri in greco, e non in latino. La frontiera linguistica passava sul territorio della ex Jugoslavia: di qui si parlava il latino, di là il greco».
Orazio scriveva che «la Grecia ha conquistato il suo selvaggio conquistatore» recandogli le arti.
«Esattamente. Le strutture portanti - filosofia, retorica - erano greche. Roma aggiunse il genio politico al genio artistico e culturale greco: l´autorità e il senso della regola del gioco politico, quindi il diritto, sono romani».
Il greco era la cultura, e la lingua, di una prima "mondializzazione"?
«Sì, quella greca era una cultura globale, che dal sud del Marocco arrivava sino all´attuale Afganistan. Il re del Marocco studiava il greco e la retorica per raccontare la storia del suo paese».
Esiste un modello politico e sociale comune, tra i Greci e Roma?
«Sono le città. Non si conoscono esattamente le ragioni per cui questo modello sociale si è sviluppato tra i fenici e poi diffuso rapidamente in Asia Minore, nel mondo etrusco, quindi in quello romano. Ma la Grecia e Roma hanno in comune proprio il sistema della città. Il mondo dominato da Roma vive in uno stato di sostanziale autarchia. Il potere centrale non si confonde con gli affari delle città conquistate, ma interviene soltanto nel caso di disordini. L´impero romano era un commonwealth di città».
Quindi Roma lasciava ampia autonomia ai poteri locali.
«L´autonomia era totale. Scherzando, si potrebbe dire che il sistema romano consisteva nell´ordinare alla gente di fare quello che gli andava di fare. I romani comandavano trasformando i notabili delle città in collaboratori. Ma non pensavano affatto a diffondere la loro civiltà Se per esempio i galli o i bretoni d´Inghilterra adottavano i bagni pubblici, lo facevano per civilizzarsi, non perché i romani li spingessero in questo senso. I romani se ne infischiavano. Non volevano fare proseliti o diffondere la loro civiltà».
Eppure esiste almeno un campo in cui Grecia e Roma si differenziano: la concezione dell´autorità.
«Sì, i romani avevano un concetto dell´imperium molto più violento di quello greco, e concepivano l´autorità sotto forma militare, come il comando dell´ufficiale sulle truppe. Sul campo di battaglia, un ufficiale ha diritto di vita e di morte sui suoi soldati. Allo stesso modo, il magistrato aveva diritto di vita e di morte sui cittadini. È la disciplina militare, che diventa modello civile».
Da dove viene questa concezione dell´autorità?
«Difficile dirlo. Molta storiografia italiana, soprattutto di ispirazione marxista, parla di un interesse di classe. Io preferisco pensare a ragioni psicologiche. C´era a Roma una concezione spontanea della sicurezza, che spingeva a fare di tutto perché Roma non fosse minacciata. In questo senso, non esisteva una vera politica estera, delle relazioni diplomatiche, perché il fine era assorbire tutto ciò che stava attorno, e che poteva costituire una minaccia. L´imperatore non aveva un ministro degli affari esteri. Non essendoci altre nazioni, non c´era neppure una politica estera. Roma si considerava l´unico vero stato, con attorno una serie di tribù informi cui demandare larga autonomia».
Il cittadino dell´impero si sentiva greco-romano?
«Dipende. Galli, spagnoli e africani si sentivano romani. Erano fieri della loro nascita, ma poi si consideravano parte di un tutto più vasto. Un siriano diceva: sono siriano, ma poi aggiungeva, "suddito fedele dell´imperatore". Sant´Agostino si definiva un "romano d´Africa". Al contrario, i greci erano fieri di essere greci. Ancora nel quarto secolo, dicevano: "Noi siamo greci, voi romani". Con tutto il loro senso di superiorità, i greci erano comunque contenti della dominazione romana, che assicurava il potere dei notabili, la buona società e la difesa dai barbari che vivevano oltre l´Eufrate».
Gli imperatori avevano una nazionalità?
«Erano di tutte le nazionalità, a patto che fossero occidentali e latini. Non c´è però un solo imperatore greco. I greci erano troppo fieri, non ispiravano fiducia».
Qual era il mandato dell´imperatore?
«L´imperatore era chiaramente distinto dal re. Era un "gran cittadino", che col suo clan aveva assunto il potere per governare e difendere la cosa pubblica, quindi l´Impero. Il suo potere non aveva alcuna connotazione mistica. Era un mandatario del popolo romano, che nel caso si fosse comportato male sarebbe stato rimpiazzato. E poiché la sola sanzione nella politica romana era la morte, il suo allontanamento coincideva spesso con il suo assassinio».
Lei ha scritto di essere diventato storico per uno "choc psicologico": quando, a otto anni, su una collina vicina a Cavaillon, trovò per caso la testa di un´anfora. Questa scoperta le fece «l´effetto di un meteorite caduto da un altro pianeta». La storia è la scoperta dell´alterità?
«Fare storia significa sottolineare le differenze con il passato. Il passato è irrimediabilmente perduto, senza alcuna rassomiglianza con quello che ci sta intorno. Lo storico deve disegnare queste figure lontane. Per farlo, inventa delle idee, quindi concettualizza. La concettualizzazione è l´unico modo per arrivare a esprimere l´individualità. Dire che il potere dell´imperatore era un potere di clan, che l´imperatore era mandatario e non sovrano, significa appunto concettualizzare. Il concetto storico individualizza, non generalizza. Senza concetti storici, c´è soltanto senso comune e attualizzazione».