Corriere della Sera 10.12.07
Classici La vita del condottiero narrata dal poeta
Dai dubbi agli elogi: Petrarca conquistato dal romanzo di Cesare
di Cesare Segre
Giulio Cesare era un civilizzatore o un imperialista? Voleva riportare la pace e la legge a Roma, o assoggettarla a una dittatura? Il suo assassinio ad opera di Bruto e altri fu tirannicidio o tradimento? Oggi sarebbe difficile appassionarsi a questo dibattito; ma nel Trecento era all'ordine del giorno. Cesare fu in ogni caso il fondatore dell'impero romano, nel quale e tramite il quale si diffuse il cristianesimo (lo sottolineava Dante); perciò gli sarebbe spettato un posto di rilievo nel disegno della Provvidenza. La letteratura latina, che si stava studiando con passione, celebrava la sua magnanimità, pur dando voce ai molti detrattori (il massimo dei quali fu il poeta epico Lucano) e narrando aneddoti poco commendevoli. Petrarca, nella
Vita di Giulio Cesare, scritta nei suoi ultimi anni, dopo il 1366, tiene conto della polemica. Ma la sua prospettiva è diversa: non gl'interessa tanto il disegno escatologico, quanto la grandezza di Roma che in Cesare riluce. Guarda con nostalgia verso la Roma dei suoi scrittori prediletti: al punto di individuare nel tribuno Cola di Rienzo, di cui seguì partecipe l'avventura, un restauratore della Roma classica e dell'unità d'Italia. In complesso, come diceva il Fueter, «dalla disgregazione politica dell'Italia contemporanea si rifugiò nella gloriosa storia dell'antica Roma».
Scrivendo la Vita, Petrarca si sente forte delle sue conoscenze degli storici antichi, da Livio a Svetonio a Floro. Ma se riconosce che il famoso passaggio del Rubicone («il dado è tratto...») fu l'inizio di una guerra civile, alla fine dà di Cesare un giudizio favorevole, ammirativo. Il filologo Guido Martellotti ritiene anzi che Petrarca sia passato da una posizione negativa su Cesare ad una positiva proprio scrivendo quest'opera, e lasciandosi suggestionare dagli storici romani. È poi un fatto che Cesare sovrastava ogni possibile rivale per la forza della propria scrittura, dato che ha narrato lui stesso, da maestro, la guerra di Gallia e quella contro Pompeo. E Petrarca non può non fondarsi ampiamente su queste opere, oltre che su qualche lettera di Cesare trascritta da Cicerone. La magnanimità del condottiero colpisce comunque, anche se sullo sfondo rimangono violenze e atti di crudeltà. Petrarca si rivela un grande narratore. È efficace nel racconto di azioni diplomatiche (ambascerie e trattati), retoriche (esortazioni alle truppe) e belliche, nella descrizione dei luoghi e delle strategie, nella pittura dei caratteri; da vero storico, sa considerare dall'alto, al di sopra della contingenza, gli avvenimenti che narra; e volentieri si lascia sfuggire qualche accenno alla situazione del suo tempo e alla propria vita. A fondere gli orizzonti del passato e del presente lo facilitava il suo gusto preumanistico. Però la Vita di Giulio Cesare sta al termine di un'attività iniziata verso il 1343 e culminata, verso il 1353, nell'incompiuto De viris illustribus. E utilmente le due opere vengono ora proposte assieme, tradotte e prefate da Ugo Dotti ( Gli uomini illustri. Vita di Giulio Cesare, Einaudi), e ornate da tavole con i famosi nove «Trionfi» di Mantegna. Anche negli Uomini illustri Petrarca è medievale: nell'allineare prima eroi biblici e poi eroi classici, sino a Scipione (inverso però l'ordine di stesura); ma è umanista nel far riferimento alla fame di sapere dei lettori, e non a un qualunque disegno provvidenziale.
Nelle due opere Cesare e Scipione l'Africano (eroe dell'Africa, poema dello stesso Petrarca) prendono rispettivamente rilievo come massimi condottieri, con parallelismi significativi. Perché all'omicidio di Cesare corrisponde il volontario esilio di Scipione a Literno, dove morì. In entrambi i casi pare che odio e invidia siano, in una prospettiva morale, il contrappeso, talora vincente, della fama; ma è pure chiaro che queste reazioni si collegano, nel profondo della coscienza politica, con l'insofferenza verso condottieri che sembrano mettere in pericolo le libertà repubblicane. Per questo la storiografia rinascimentale celebrerà in Bruto il difensore delle istituzioni di Roma.
Come personaggio letterario, Scipione è poco interessante perché troppo perfetto, fiero della propria temperanza; meglio, molto meglio Cesare, con i suoi vizi e le sue debolezze. Ma in compenso, nella vita di Scipione, come la narra Petrarca, s'incastonano episodi vivi, emozionanti, come un incendio notturno scoppiato tra le tende dell'accampamento, o come traversate del Mediterraneo e incontri con i cartaginesi infidi. Famoso, e caro a tragediografi e compositori, l'episodio in cui Scipione convince Massinissa a interrompere il suo rapporto sentimentale con Sofonisba, e questa riceve dall'amante una coppa di veleno, che beve impavidamente. Una scena degna di Shakespeare, ed evocata dallo stesso Petrarca nei Trionfi.
FRANCESCO PETRARCA, Gli uomini illustri. Vita di Giulio Cesare EINAUDI pp. XII-788, € 85
Classici La vita del condottiero narrata dal poeta
Dai dubbi agli elogi: Petrarca conquistato dal romanzo di Cesare
di Cesare Segre
Giulio Cesare era un civilizzatore o un imperialista? Voleva riportare la pace e la legge a Roma, o assoggettarla a una dittatura? Il suo assassinio ad opera di Bruto e altri fu tirannicidio o tradimento? Oggi sarebbe difficile appassionarsi a questo dibattito; ma nel Trecento era all'ordine del giorno. Cesare fu in ogni caso il fondatore dell'impero romano, nel quale e tramite il quale si diffuse il cristianesimo (lo sottolineava Dante); perciò gli sarebbe spettato un posto di rilievo nel disegno della Provvidenza. La letteratura latina, che si stava studiando con passione, celebrava la sua magnanimità, pur dando voce ai molti detrattori (il massimo dei quali fu il poeta epico Lucano) e narrando aneddoti poco commendevoli. Petrarca, nella
Vita di Giulio Cesare, scritta nei suoi ultimi anni, dopo il 1366, tiene conto della polemica. Ma la sua prospettiva è diversa: non gl'interessa tanto il disegno escatologico, quanto la grandezza di Roma che in Cesare riluce. Guarda con nostalgia verso la Roma dei suoi scrittori prediletti: al punto di individuare nel tribuno Cola di Rienzo, di cui seguì partecipe l'avventura, un restauratore della Roma classica e dell'unità d'Italia. In complesso, come diceva il Fueter, «dalla disgregazione politica dell'Italia contemporanea si rifugiò nella gloriosa storia dell'antica Roma».
Scrivendo la Vita, Petrarca si sente forte delle sue conoscenze degli storici antichi, da Livio a Svetonio a Floro. Ma se riconosce che il famoso passaggio del Rubicone («il dado è tratto...») fu l'inizio di una guerra civile, alla fine dà di Cesare un giudizio favorevole, ammirativo. Il filologo Guido Martellotti ritiene anzi che Petrarca sia passato da una posizione negativa su Cesare ad una positiva proprio scrivendo quest'opera, e lasciandosi suggestionare dagli storici romani. È poi un fatto che Cesare sovrastava ogni possibile rivale per la forza della propria scrittura, dato che ha narrato lui stesso, da maestro, la guerra di Gallia e quella contro Pompeo. E Petrarca non può non fondarsi ampiamente su queste opere, oltre che su qualche lettera di Cesare trascritta da Cicerone. La magnanimità del condottiero colpisce comunque, anche se sullo sfondo rimangono violenze e atti di crudeltà. Petrarca si rivela un grande narratore. È efficace nel racconto di azioni diplomatiche (ambascerie e trattati), retoriche (esortazioni alle truppe) e belliche, nella descrizione dei luoghi e delle strategie, nella pittura dei caratteri; da vero storico, sa considerare dall'alto, al di sopra della contingenza, gli avvenimenti che narra; e volentieri si lascia sfuggire qualche accenno alla situazione del suo tempo e alla propria vita. A fondere gli orizzonti del passato e del presente lo facilitava il suo gusto preumanistico. Però la Vita di Giulio Cesare sta al termine di un'attività iniziata verso il 1343 e culminata, verso il 1353, nell'incompiuto De viris illustribus. E utilmente le due opere vengono ora proposte assieme, tradotte e prefate da Ugo Dotti ( Gli uomini illustri. Vita di Giulio Cesare, Einaudi), e ornate da tavole con i famosi nove «Trionfi» di Mantegna. Anche negli Uomini illustri Petrarca è medievale: nell'allineare prima eroi biblici e poi eroi classici, sino a Scipione (inverso però l'ordine di stesura); ma è umanista nel far riferimento alla fame di sapere dei lettori, e non a un qualunque disegno provvidenziale.
Nelle due opere Cesare e Scipione l'Africano (eroe dell'Africa, poema dello stesso Petrarca) prendono rispettivamente rilievo come massimi condottieri, con parallelismi significativi. Perché all'omicidio di Cesare corrisponde il volontario esilio di Scipione a Literno, dove morì. In entrambi i casi pare che odio e invidia siano, in una prospettiva morale, il contrappeso, talora vincente, della fama; ma è pure chiaro che queste reazioni si collegano, nel profondo della coscienza politica, con l'insofferenza verso condottieri che sembrano mettere in pericolo le libertà repubblicane. Per questo la storiografia rinascimentale celebrerà in Bruto il difensore delle istituzioni di Roma.
Come personaggio letterario, Scipione è poco interessante perché troppo perfetto, fiero della propria temperanza; meglio, molto meglio Cesare, con i suoi vizi e le sue debolezze. Ma in compenso, nella vita di Scipione, come la narra Petrarca, s'incastonano episodi vivi, emozionanti, come un incendio notturno scoppiato tra le tende dell'accampamento, o come traversate del Mediterraneo e incontri con i cartaginesi infidi. Famoso, e caro a tragediografi e compositori, l'episodio in cui Scipione convince Massinissa a interrompere il suo rapporto sentimentale con Sofonisba, e questa riceve dall'amante una coppa di veleno, che beve impavidamente. Una scena degna di Shakespeare, ed evocata dallo stesso Petrarca nei Trionfi.
FRANCESCO PETRARCA, Gli uomini illustri. Vita di Giulio Cesare EINAUDI pp. XII-788, € 85