Cesare e i falsi liberatori
Corriere della Sera del 4 gennaio 2007, pag. 1
di Luciano Canfora
Cesare soleva dire che «la sua sopravvivenza fisica non era di suo personale interesse, al contrario interessava soprattutto la Repubblica»; «la Repubblica — precisava —, se a lui fosse accaduto qualcosa, sarebbe precipitata in guerre civili di molto più gravi delle precedenti». Certo, Cesare era ben consapevole della non infrequente presenza dell'attentato nella pratica politica romana.
Tiberio Gracco era stato ucciso in pubblico a sprangate da gruppi di senatori inferociti, e così suo fratello. Eppure Cesare, pur sapendo di essere esposto a rischi nonostante la sua lungimirante clementia, prese una iniziativa clamorosa: congedò la efficientissima scorta di soldati spagnoli che abitualmente lo proteggevano. E dopo pochi giorni fu ucciso, a tradimento, in Senato. Ventitré pugnalate di cui una sola mortale.
La sera prima dell'attentato, a cena presso Marco Lepido — Cesare era tra gli invitati — qualcuno portò la conversazione sul tema: qual è il genere di morte preferibile? Cesare, interpellato, disse: «Ad ogni altra ne preferisco una rapida e improvvisa». Forse si trattò di un tortuoso avvertimento? La notte fu una notte di incubi, Calpurnia, sua moglie, sognò che il tetto della casa si sollevava e che il marito le veniva assassinato in grembo mentre le porte della stanza si spalancavano. Cesare sognò di volare in cielo e di stringere la mano a Giove. Nel turbamento conseguente ad una tale notte stava per decidere di rinviare la seduta in Senato. Ma Decimo Giunio Bruto Albino, il congiurato che aveva il compito di stargli addosso sin dal mattino e che godeva della totale fiducia della vittima designata, fece leva sul suo ben noto disprezzo per la superstizione. In tono laico-scherzoso cominciò a farsi beffe degli indovini. Cesare si lasciò convincere. Lungo la strada verso il Senato—racconta Plutarco — un insegnante di greco di nome Artemidoro, amico di amici di Marco Giunio Bruto (il pezzo più prelibato della congiura), gli mise tra mano un libello in cui gli denunciava la congiura, di cui qualcosa era trapelato. Ma Cesare non potè leggerlo. Intanto i congiurati erano già in Senato. Un tale si avvicinò a Casca (uno dei congiurati, quello che doveva colpire per primo) e gli sibilò: «Tu ci nascondi il segreto, Casca, ma Bruto mi ha rivelato tutto», lasciandolo di sasso. Popilio Lenate si avvicinò a Bruto e a Cassio e disse a bruciapelo: «Prego perché possiate compiere l'impresa che avete in mente. Vi esorto a far presto. La cosa ormai è risaputa». Quando Cesare giunse, i venti e passa congiurati gli si strinsero intorno fingendo di voler caldeggiare una supplica, ma all'improvviso cominciarono a colpire. Avevano paura. Casca, come d'intesa, colpì per primo, ma Cesare, pur ferito di striscio al collo, afferrò il pugnale e lo tenne fermo. Allora entrambi — narra Plutarco —cominciarono a urlare, Cesare in latino: «Scellerato Casca, che fai?». E lui, in greco, volgendosi al fratello: «Fratello, aiutami!». Cesare si difese come una belva ferita, finché Bruto, che forse era figlio suo e di Servilia, sua amante, lo colpì all'inguine. Allora si coprì per morire composto, ben sapendo, come lo sapeva anche Socrate morente, che la morte è brutta da vedersi. Era il 15 marzo del 44 a.C. Quasi nessuno degli assassini — nota Svetonio — gli sopravvisse più di tre anni e nessuno morì nel suo letto. La Curia in cui Cesare era stato ucciso venne murata e le idi di marzo proclamate «giorno del parricidio». Né fu più lecito convocare il Senato in quel giorno. Anni dopo Augusto preferiva andare in Senato con la corazza sotto la toga, visto che nell'oligarchia romana poteva sempre allignare il tipo umano del «liberatore». A conclusione del suo piccolo libro su Cesare, dettato a Sant'Elena al fido Marchand (gennaio 1819), Napoleone scrive: «Immolando Cesare, Bruto ha obbedito ad un pregiudizio educativo che aveva appreso nelle scuole greche. Lo assimilò a quegli oscuri tiranni delle città greche che, col favore di qualche intrigante, usurpavano il potere. Non volle vedere che l'autorità di Cesare era legittima perché necessaria e protettrice, era l'effetto dell'opinione e della volontà del popolo». Cesare aveva rifiutato la corona, offertagli forse provocatoriamente da Antonio durante i Lupercali pochi giorni prima dell'attentato. Sapeva che le parole più invise, nel linguaggio politico romano, erano rex e regnum. Non avrebbe mai commesso quell'errore, non sarebbe mai caduto in una tale trappola. Sapeva però anche che i vecchi ordinamenti di Roma «Città Stato», testa di un impero territoriale immenso, non erano più all'altezza della nuova realtà geografica, amministrativa, politica. «Roma» ormai, anche giuridicamente ed elettoralmente, coincideva con l'Italia intera, e l'Italia era una piccola parte, ancorché privilegiata, di un sistema di province e di eserciti oltre che di strutture amministrative-imperiali: dalla Spagna al Nordafrica dai Balcani alla Mesopotamia. L'oligarchia dei grandi latifondisti che costituivano il Senato, organo per eccellenza basato sulla cooptazione, era inadeguata a reggere tutto questo, irretita com'era nella propria mentalità di rapina. Cesare non seppe né volle creare nuove strutture del potere. Ideò invece un compromesso. Dissotterrò, dilatandone la durata nel tempo fino a farla illimitata, la dittatura: una magistratura «a tempo» prevista dall'ordinamento costituzionale romano. Assunse le legioni — che erano, insieme, un esercito e un ceto (populus del resto in latino vuoi dire entrambe le cose) — come sua «base»: soprattutto nella guerra civile, nella quale la legalità la calpestarono tutti, cesariani, catoniani e pompeiani. Una volta ottenuta la vittoria nello scontro armato delle fazioni, cercò l'accordo con la maggior parte possibile della vecchia aristocrazia, ma allargò anche enormemente il Senato, portandolo a 900 membri. Sapeva — come ben scrive il Bonaparte — che l'aristocrazia si ricostituisce sempre e comunque: «Eliminatela nella nobiltà ed eccola rispuntare nelle casate più ricche del Terzo Stato. Eliminatela anche qui ed essa sussiste nell'aristocrazia operaia». È contro questo compromesso che si mosse la minoranza fanatica dei congiurati. Narra Plutarco che, durante il suo primo consolato (59 a.G), Cesare, di fronte all'ostilità preconcetta del Senato verso le sue leggi agrarie, aveva gridato in faccia al Senato «che lui controvoglia si faceva trascinare dalla parte del popolo, e ne assecondava le spinte: per colpa della tracotanza e della durezza oppressiva del Senato».
Uccidendolo, i congiurati non si avvidero di aver eliminato il più lucido e lungimirante esponente del loro ceto. A Roma essi persero il potere in pochi giorni, in poche ore. Si rifugiarono perciò a organizzare la guerra civile in provincia facendo leva sulle loro clientele provinciali, con le lusinghe o con la violenza. E così risospinsero la repubblica per anni nella guerra civile. Si proclamarono «liberatori» e tali sono rimasti nell'immaginario di molti, grazie essenzialmente alla complice ignoranza dei posteri.
Il manuale di storia in voga in Francia, sotto il Terrore, scritto dal cittadino Bulard, della «Section Brutus», incitava gli scolari a farsi affrettanti Bruto e altrettanti Cassio: «Soyez tous autant de Brutus et de Cassius», ogni volta che sulla scena apparisse un ambizioso emulo di Cesare.
Corriere della Sera del 4 gennaio 2007, pag. 1
di Luciano Canfora
Cesare soleva dire che «la sua sopravvivenza fisica non era di suo personale interesse, al contrario interessava soprattutto la Repubblica»; «la Repubblica — precisava —, se a lui fosse accaduto qualcosa, sarebbe precipitata in guerre civili di molto più gravi delle precedenti». Certo, Cesare era ben consapevole della non infrequente presenza dell'attentato nella pratica politica romana.
Tiberio Gracco era stato ucciso in pubblico a sprangate da gruppi di senatori inferociti, e così suo fratello. Eppure Cesare, pur sapendo di essere esposto a rischi nonostante la sua lungimirante clementia, prese una iniziativa clamorosa: congedò la efficientissima scorta di soldati spagnoli che abitualmente lo proteggevano. E dopo pochi giorni fu ucciso, a tradimento, in Senato. Ventitré pugnalate di cui una sola mortale.
La sera prima dell'attentato, a cena presso Marco Lepido — Cesare era tra gli invitati — qualcuno portò la conversazione sul tema: qual è il genere di morte preferibile? Cesare, interpellato, disse: «Ad ogni altra ne preferisco una rapida e improvvisa». Forse si trattò di un tortuoso avvertimento? La notte fu una notte di incubi, Calpurnia, sua moglie, sognò che il tetto della casa si sollevava e che il marito le veniva assassinato in grembo mentre le porte della stanza si spalancavano. Cesare sognò di volare in cielo e di stringere la mano a Giove. Nel turbamento conseguente ad una tale notte stava per decidere di rinviare la seduta in Senato. Ma Decimo Giunio Bruto Albino, il congiurato che aveva il compito di stargli addosso sin dal mattino e che godeva della totale fiducia della vittima designata, fece leva sul suo ben noto disprezzo per la superstizione. In tono laico-scherzoso cominciò a farsi beffe degli indovini. Cesare si lasciò convincere. Lungo la strada verso il Senato—racconta Plutarco — un insegnante di greco di nome Artemidoro, amico di amici di Marco Giunio Bruto (il pezzo più prelibato della congiura), gli mise tra mano un libello in cui gli denunciava la congiura, di cui qualcosa era trapelato. Ma Cesare non potè leggerlo. Intanto i congiurati erano già in Senato. Un tale si avvicinò a Casca (uno dei congiurati, quello che doveva colpire per primo) e gli sibilò: «Tu ci nascondi il segreto, Casca, ma Bruto mi ha rivelato tutto», lasciandolo di sasso. Popilio Lenate si avvicinò a Bruto e a Cassio e disse a bruciapelo: «Prego perché possiate compiere l'impresa che avete in mente. Vi esorto a far presto. La cosa ormai è risaputa». Quando Cesare giunse, i venti e passa congiurati gli si strinsero intorno fingendo di voler caldeggiare una supplica, ma all'improvviso cominciarono a colpire. Avevano paura. Casca, come d'intesa, colpì per primo, ma Cesare, pur ferito di striscio al collo, afferrò il pugnale e lo tenne fermo. Allora entrambi — narra Plutarco —cominciarono a urlare, Cesare in latino: «Scellerato Casca, che fai?». E lui, in greco, volgendosi al fratello: «Fratello, aiutami!». Cesare si difese come una belva ferita, finché Bruto, che forse era figlio suo e di Servilia, sua amante, lo colpì all'inguine. Allora si coprì per morire composto, ben sapendo, come lo sapeva anche Socrate morente, che la morte è brutta da vedersi. Era il 15 marzo del 44 a.C. Quasi nessuno degli assassini — nota Svetonio — gli sopravvisse più di tre anni e nessuno morì nel suo letto. La Curia in cui Cesare era stato ucciso venne murata e le idi di marzo proclamate «giorno del parricidio». Né fu più lecito convocare il Senato in quel giorno. Anni dopo Augusto preferiva andare in Senato con la corazza sotto la toga, visto che nell'oligarchia romana poteva sempre allignare il tipo umano del «liberatore». A conclusione del suo piccolo libro su Cesare, dettato a Sant'Elena al fido Marchand (gennaio 1819), Napoleone scrive: «Immolando Cesare, Bruto ha obbedito ad un pregiudizio educativo che aveva appreso nelle scuole greche. Lo assimilò a quegli oscuri tiranni delle città greche che, col favore di qualche intrigante, usurpavano il potere. Non volle vedere che l'autorità di Cesare era legittima perché necessaria e protettrice, era l'effetto dell'opinione e della volontà del popolo». Cesare aveva rifiutato la corona, offertagli forse provocatoriamente da Antonio durante i Lupercali pochi giorni prima dell'attentato. Sapeva che le parole più invise, nel linguaggio politico romano, erano rex e regnum. Non avrebbe mai commesso quell'errore, non sarebbe mai caduto in una tale trappola. Sapeva però anche che i vecchi ordinamenti di Roma «Città Stato», testa di un impero territoriale immenso, non erano più all'altezza della nuova realtà geografica, amministrativa, politica. «Roma» ormai, anche giuridicamente ed elettoralmente, coincideva con l'Italia intera, e l'Italia era una piccola parte, ancorché privilegiata, di un sistema di province e di eserciti oltre che di strutture amministrative-imperiali: dalla Spagna al Nordafrica dai Balcani alla Mesopotamia. L'oligarchia dei grandi latifondisti che costituivano il Senato, organo per eccellenza basato sulla cooptazione, era inadeguata a reggere tutto questo, irretita com'era nella propria mentalità di rapina. Cesare non seppe né volle creare nuove strutture del potere. Ideò invece un compromesso. Dissotterrò, dilatandone la durata nel tempo fino a farla illimitata, la dittatura: una magistratura «a tempo» prevista dall'ordinamento costituzionale romano. Assunse le legioni — che erano, insieme, un esercito e un ceto (populus del resto in latino vuoi dire entrambe le cose) — come sua «base»: soprattutto nella guerra civile, nella quale la legalità la calpestarono tutti, cesariani, catoniani e pompeiani. Una volta ottenuta la vittoria nello scontro armato delle fazioni, cercò l'accordo con la maggior parte possibile della vecchia aristocrazia, ma allargò anche enormemente il Senato, portandolo a 900 membri. Sapeva — come ben scrive il Bonaparte — che l'aristocrazia si ricostituisce sempre e comunque: «Eliminatela nella nobiltà ed eccola rispuntare nelle casate più ricche del Terzo Stato. Eliminatela anche qui ed essa sussiste nell'aristocrazia operaia». È contro questo compromesso che si mosse la minoranza fanatica dei congiurati. Narra Plutarco che, durante il suo primo consolato (59 a.G), Cesare, di fronte all'ostilità preconcetta del Senato verso le sue leggi agrarie, aveva gridato in faccia al Senato «che lui controvoglia si faceva trascinare dalla parte del popolo, e ne assecondava le spinte: per colpa della tracotanza e della durezza oppressiva del Senato».
Uccidendolo, i congiurati non si avvidero di aver eliminato il più lucido e lungimirante esponente del loro ceto. A Roma essi persero il potere in pochi giorni, in poche ore. Si rifugiarono perciò a organizzare la guerra civile in provincia facendo leva sulle loro clientele provinciali, con le lusinghe o con la violenza. E così risospinsero la repubblica per anni nella guerra civile. Si proclamarono «liberatori» e tali sono rimasti nell'immaginario di molti, grazie essenzialmente alla complice ignoranza dei posteri.
Il manuale di storia in voga in Francia, sotto il Terrore, scritto dal cittadino Bulard, della «Section Brutus», incitava gli scolari a farsi affrettanti Bruto e altrettanti Cassio: «Soyez tous autant de Brutus et de Cassius», ogni volta che sulla scena apparisse un ambizioso emulo di Cesare.