Va all'asta l'impero Romano
Alvar Gonzàlez-Palacios
Il Sole 24 Ore 11/10/2009
Se attraversi il ponte alla Carraia, da cui si vede Firenze al suo meglio, dopo pochi passi trovi la facciata di Palazzo Feroni e a me piomba addosso un purgatorio di ricordi. Questa enorme casa, severa, distante, la conosco da più dimezzo secolo. Ci venni nel 1958 a trovare una compagna di corso, una ragazza dagli occhi malinconici e dal sorriso allegro. Non passai dallo scalone ma da rampe strette che portavano a una stanza piena di oggetti appena visibili tra il luccichio di qualche cornice dorata. Faceva freddo, a Firenze faceva sempre freddo allora in quei palazzi mal riscaldati. Mi accolse un signore affabile ma la sua cortesia non implicava l'intimità. Sapevo che era napoletano e parlava un bell'italiano senza erre. Col senno di poi penso che forse non sarà stato troppo diverso da quegli esuli del Regno accolti nel Granducato prima dell'Unità come lo storico Pietro Colletta, gentili ma diffidenti. Insomma, nelle poche occasioni in cui mi recai in una casa di cui tutti vantavano la grandiosità, vidi solo due sale buie; lo stesso accadde molti anni dopo a Leonardo Ginori Lisci quando scrisse il suo libro sui palazzi fiorentini. Negli anni Sessanta mi recavo spesso negli ambienti al pianterreno del palazzo, grandi stanze affrescate in cui vissero due persone a me care di cui poi persi le tracce. Gusto neoclassico: non è questa l'aura che oggi domina negli ambienti al piano nobile anche se vennero decorati nel tardo Settecento per un marchese Feroni. In realtà quella famiglia è soprattutto nota nella storia dell'arte per i suoi rapporti col barocco fiorentino e col suo maggior rappresentante, Giovanni Battista Foggini. Fu questi, infatti, a ideare la cappella Feroni alla Santissima Annunziata. Ma si parla di molti decenni prima che altri Feroni acquistassero il palazzo. Ad essere esatti l'edificio esisteva già da diversi secoli e ha una storia complicata che inizia nel Quattrocento. Molti palazzi fiorentini, incluso quello granducale dei Pitti, sono frutto di sovrapposizioni: la città tende al risparmio, non si butta nulla. Palazzo Feroni, rifatto in epoca neoclassica, sa ancora di barocco e di rinascimento. Il gentiluomo napoletano che allora conobbi era l'erede del Salvatore Romano che fu uno dei maggiori antiquari della sua epoca. Un'epoca d'oro per Firenze, capitale europea della storia e del mercato d'arte. Molti ci vivevano, con a capo Berenson, tutti ci passavano dal Kaiser Wilhelm (così veniva chiamato, con un titolo imperiale, Wilhelm von Bode) ai direttori dei musei inglesi, americani, francesi. Firenze è stata costretta, per la poca chiaroveggenza delle leggi sul patrimonio artistico italiano, a rinunciare a quel suo ruolo a favore di luoghi allora inesistenti, come Maastricht: si è persa un'egemonia e non si è assicurato niente. Ma entriamo ora in queste stanze solenni che vedo per la prima volta in piena luce. E' un privilegio: la discrezione dei Romano era proverbiale; anche la generosità. Il capostipite, Salvatore, don nell'immediato dopoguerra una cinquantina di marmi nobilissimi al Cenacolo di Santo Spirito, a due passi da Palazzo Feroni: i due Tino da Camaino rappresentano una delle punte più commosse della fine del medioevo. Stanza dopo stanza si penetra in un mondo esistente soltanto in letteratura. Questo grandioso accumulo di oggetti di un genere raramente visto sul mercato negli ultimi trenta, quarant'anni ricorda piuttosto certi ambienti dei romanzi ottocenteschi. Si potrebbe immaginare così, resuscitata per miracolo, la maniaca ossessività di un cugino Pons italiano. Che cercavano personaggi di questa inclinazione? Grandi opere d'arte certamente. Ma forse, ancora di più, l'anima di un'epoca, quella sostanza che si confonde con la patina, la storia di generazione dopo generazione che vi lascia le impronte delle mani, dell'alito o, in una parola, la polvere del tempo. Guai a levarla. Tutto evapora; gli oggetti hanno un loro linguaggio che non viene quasi mai capito da chi ha fretta di togliere il velo del passato. Quel che sorprende è lo stato di conservazione della maggior parte delle opere che lasceranno fra poco queste stanze come è inevitabile: la vita cambia ma un dialogo verrà comunque interrotto. Quei vecchi legni, resi fragili e umani nel loro isolamento non potranno parlare quasi con nessuno. Occorre un traduttore di lingue morte. Alcuni quadri appariranno offuscati all'occhio di molti giovani amatori ma io preferirei che non fossero sfiorati da pennelli e solventi. Forse è proprio questa epidermide, frutto, inverosimilmente, degli sguardi di molte generazioni, a segnare il passaggio del tempo così come accade su un viso. Nulla è più triste dei bei lineamenti ridisegnati da una finta gioventù. Il quadro di Pompeo Batoni, ad esempio, presenta una patina densa e giallastra così come l'Allegoria dell'Autunno di Giuseppe Bonito, perché toccarli? Ma sono certo che verrà fatto e così diventeranno leggermente più anonimi. Non potremo fare un elenco di sculture: la quantità è straordinaria e il compito che resterà agli storici dell'arte è assicurato. Le idee e le conoscenze cambiano. Klaus Lankheit, a cui si deve ilprimo lavoro comprensivo sul barocco a Firenze, attribuì a Giovanni Battista Foggini un busto di vescovo oggi all'asta. Perché Foggini? A me sembra che queste mani possenti e questo volto emozionato parlino la lingua di Napoli, quella resa chiara da un lombardo, Cosimo Fanzago, che assieme a una pletora di scultori ide una koiné particolare nella Certosa di San Martino. Ferri, vetri, cuoi impressi, tessuti; alcuni mobili sono di grande interesse storico. Ne cito solo due: un armadio con intagli di fiori e di foglie sul coronamento e ante grandi come le porte di una casa, impiallacciate di una radica densa come il miele vecchio. Infine un canterano firmato nel 1733 da un Pietro Matarazzo, certamente napoletano, degno di un grande museo come quello di San Martino. Ma niente verrà fatto e forse lo Stato si limiterà a notificano non assicurando nulla a sé stesso ma ostacolando la libera formazione di nuove raccolte. Facevano bene i Romano a essere diffidenti?
Alvar Gonzàlez-Palacios
Il Sole 24 Ore 11/10/2009
Se attraversi il ponte alla Carraia, da cui si vede Firenze al suo meglio, dopo pochi passi trovi la facciata di Palazzo Feroni e a me piomba addosso un purgatorio di ricordi. Questa enorme casa, severa, distante, la conosco da più dimezzo secolo. Ci venni nel 1958 a trovare una compagna di corso, una ragazza dagli occhi malinconici e dal sorriso allegro. Non passai dallo scalone ma da rampe strette che portavano a una stanza piena di oggetti appena visibili tra il luccichio di qualche cornice dorata. Faceva freddo, a Firenze faceva sempre freddo allora in quei palazzi mal riscaldati. Mi accolse un signore affabile ma la sua cortesia non implicava l'intimità. Sapevo che era napoletano e parlava un bell'italiano senza erre. Col senno di poi penso che forse non sarà stato troppo diverso da quegli esuli del Regno accolti nel Granducato prima dell'Unità come lo storico Pietro Colletta, gentili ma diffidenti. Insomma, nelle poche occasioni in cui mi recai in una casa di cui tutti vantavano la grandiosità, vidi solo due sale buie; lo stesso accadde molti anni dopo a Leonardo Ginori Lisci quando scrisse il suo libro sui palazzi fiorentini. Negli anni Sessanta mi recavo spesso negli ambienti al pianterreno del palazzo, grandi stanze affrescate in cui vissero due persone a me care di cui poi persi le tracce. Gusto neoclassico: non è questa l'aura che oggi domina negli ambienti al piano nobile anche se vennero decorati nel tardo Settecento per un marchese Feroni. In realtà quella famiglia è soprattutto nota nella storia dell'arte per i suoi rapporti col barocco fiorentino e col suo maggior rappresentante, Giovanni Battista Foggini. Fu questi, infatti, a ideare la cappella Feroni alla Santissima Annunziata. Ma si parla di molti decenni prima che altri Feroni acquistassero il palazzo. Ad essere esatti l'edificio esisteva già da diversi secoli e ha una storia complicata che inizia nel Quattrocento. Molti palazzi fiorentini, incluso quello granducale dei Pitti, sono frutto di sovrapposizioni: la città tende al risparmio, non si butta nulla. Palazzo Feroni, rifatto in epoca neoclassica, sa ancora di barocco e di rinascimento. Il gentiluomo napoletano che allora conobbi era l'erede del Salvatore Romano che fu uno dei maggiori antiquari della sua epoca. Un'epoca d'oro per Firenze, capitale europea della storia e del mercato d'arte. Molti ci vivevano, con a capo Berenson, tutti ci passavano dal Kaiser Wilhelm (così veniva chiamato, con un titolo imperiale, Wilhelm von Bode) ai direttori dei musei inglesi, americani, francesi. Firenze è stata costretta, per la poca chiaroveggenza delle leggi sul patrimonio artistico italiano, a rinunciare a quel suo ruolo a favore di luoghi allora inesistenti, come Maastricht: si è persa un'egemonia e non si è assicurato niente. Ma entriamo ora in queste stanze solenni che vedo per la prima volta in piena luce. E' un privilegio: la discrezione dei Romano era proverbiale; anche la generosità. Il capostipite, Salvatore, don nell'immediato dopoguerra una cinquantina di marmi nobilissimi al Cenacolo di Santo Spirito, a due passi da Palazzo Feroni: i due Tino da Camaino rappresentano una delle punte più commosse della fine del medioevo. Stanza dopo stanza si penetra in un mondo esistente soltanto in letteratura. Questo grandioso accumulo di oggetti di un genere raramente visto sul mercato negli ultimi trenta, quarant'anni ricorda piuttosto certi ambienti dei romanzi ottocenteschi. Si potrebbe immaginare così, resuscitata per miracolo, la maniaca ossessività di un cugino Pons italiano. Che cercavano personaggi di questa inclinazione? Grandi opere d'arte certamente. Ma forse, ancora di più, l'anima di un'epoca, quella sostanza che si confonde con la patina, la storia di generazione dopo generazione che vi lascia le impronte delle mani, dell'alito o, in una parola, la polvere del tempo. Guai a levarla. Tutto evapora; gli oggetti hanno un loro linguaggio che non viene quasi mai capito da chi ha fretta di togliere il velo del passato. Quel che sorprende è lo stato di conservazione della maggior parte delle opere che lasceranno fra poco queste stanze come è inevitabile: la vita cambia ma un dialogo verrà comunque interrotto. Quei vecchi legni, resi fragili e umani nel loro isolamento non potranno parlare quasi con nessuno. Occorre un traduttore di lingue morte. Alcuni quadri appariranno offuscati all'occhio di molti giovani amatori ma io preferirei che non fossero sfiorati da pennelli e solventi. Forse è proprio questa epidermide, frutto, inverosimilmente, degli sguardi di molte generazioni, a segnare il passaggio del tempo così come accade su un viso. Nulla è più triste dei bei lineamenti ridisegnati da una finta gioventù. Il quadro di Pompeo Batoni, ad esempio, presenta una patina densa e giallastra così come l'Allegoria dell'Autunno di Giuseppe Bonito, perché toccarli? Ma sono certo che verrà fatto e così diventeranno leggermente più anonimi. Non potremo fare un elenco di sculture: la quantità è straordinaria e il compito che resterà agli storici dell'arte è assicurato. Le idee e le conoscenze cambiano. Klaus Lankheit, a cui si deve ilprimo lavoro comprensivo sul barocco a Firenze, attribuì a Giovanni Battista Foggini un busto di vescovo oggi all'asta. Perché Foggini? A me sembra che queste mani possenti e questo volto emozionato parlino la lingua di Napoli, quella resa chiara da un lombardo, Cosimo Fanzago, che assieme a una pletora di scultori ide una koiné particolare nella Certosa di San Martino. Ferri, vetri, cuoi impressi, tessuti; alcuni mobili sono di grande interesse storico. Ne cito solo due: un armadio con intagli di fiori e di foglie sul coronamento e ante grandi come le porte di una casa, impiallacciate di una radica densa come il miele vecchio. Infine un canterano firmato nel 1733 da un Pietro Matarazzo, certamente napoletano, degno di un grande museo come quello di San Martino. Ma niente verrà fatto e forse lo Stato si limiterà a notificano non assicurando nulla a sé stesso ma ostacolando la libera formazione di nuove raccolte. Facevano bene i Romano a essere diffidenti?