Corriere della Sera 19.10.09
Le prove dell’archeologo Andrea Carandini: ecco dove si trovava l’abitazione del futuro imperatore
Qui, nella casa di Tito, c’era il Laocoonte
di Paolo Conti
Forse per essere buoni archeologi occorre allevare un doppio, quello del detective. Altrimenti non si potrebbe approdare alle conclusioni che oggi alle 17.30 Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali e docente di Archeologia classica a «La Sapienza» di Roma, esporrà agli Uffizi di Firenze in occasione del restauro del Laocoonte di Baccio Bandinelli realizzato grazie agli Amici degli Uffizi e i Friends of Uffizi Gallery inc. La copia di Baccio fu scolpita nel 1520 dopo il ritrovamento dell’originale ellenistico del I secolo avanti Cristo (Plinio la attribuisce a Agesandro, Atanadoro e Polidoro, tre scultori di Rodi) avvenuto nel 1506 vicino alla Domus Aurea, dissepolto alla presenza di Michelangelo e di Giuliano da Sangallo. Il clamore per la scoperta fu immenso per l’epoca, ecco perché Baccio Bandinelli ricevette dalla corte pontificia la commissione di una riproduzione da offrire a Francesco I di Francia.
Per individuare quella che a suo avviso è la Casa di Tito sul Colle Oppio (e «nella Casa di Tito», fino a oggi mai identificata, stando a Plinio, era esposto il Laocoonte) Carandini si è armato di due fondamentali piante romane. Ovvero la marmorea Forma Urbis Romae degli inizi del III secolo dopo Cristo e quella realizzata da Giambattista Nolli nel 1748. Racconta Carandini: «Studiando la Forma Urbis mi sono imbattuto in un atrio di forma arcaica a crociera, con un gigantesco tablino e con un accesso che apre su uno spazio porticato con al centro un tempietto. Che strano, mi sono detto, un atrio così antico rimasto intatto sulla pianta per tanti secoli». Ma una ragione, per il professore, c’è. Ed è legata al culto di Servio Tullio, penultimo re di Roma assassinato dal genero Tarquinio il Superbo: «Sappiamo dalle fonti che la sua casa era in periferia, sulla cima del Colle Oppio. Dopo la sua morte e quella di Tarquinio il Superbo, la repubblica fondò il suo culto come vecchio re filo-popolare. Venne il tempietto ».
Ed eccoci a un nuovo capitolo, al primo Prefetto del Pretorio Seio Strabone, capo delle guardie del palazzo imperiale sotto Augusto: «Guardando la pianta, si nota che intorno alla casa e al tempietto si costruisce un grande edificio. Si deve a Aelio Seiano, suo figlio, Prefetto del Pretorio sotto Tiberio, che poi lo farà uccidere nel palazzo imperiale. Lì sorge infatti il Tempio della Fortuna seiana, visibile sulla pianta, e coperta secondo le fonti dalle toghe di Servio Tullio conservate fino a quel momento».
Tutto torna, dunque, per Carandini: la conservazione dell’antichissimo edificio fino all’età imperiale per il culto di Servio Tullio, il luogo (la cima del Colle Oppio). Ed eccoci al punto, la casa di Tito, finora mai identificata: «Con tutta evidenza quel complesso era diventato di fatto 'la' casa del Prefetto del Pretorio. E quando il futuro imperatore Tito diventa Prefetto del Pretorio sotto suo padre, l’imperatore Vespasiano, quell’agglomerato diventa a tutti gli effetti 'la casa di Tito'. Nerone, lì accanto alla Domus Aurea, aveva ampliato l’edificio aggiungendo una grande aula con due absidi, la struttura è visibile sul Colle Oppio. Un luogo di rappresentanza ma anche, con ogni probabilità, uno spazio per amministrare la giustizia».
Secondo Carandini il Laocoonte era lì, in una delle due absidi. E nell’altra? Tesi pronta: «Laocoonte muore per la 'colpa' di essersi opposto all’ingresso del Cavallo di Troia nella sua città. A Pompei, nella Casa del Menandro c’è una situazione identica. Un ambiente dove è dipinto Laocoonte. In quello di fronte c’è Cassandra, altro personaggio 'colpevole' di aver profetizzato la fine di Troia e di essersi quindi opposta, come Laocoonte, all’arrivo del Cavallo. Secondo me nell’altra abside c’era una Cassandra. Entrambi alludevano alla Nuova Troia, cioè Roma».
Altro tassello: sovrapponendo la pianta del Nolli alla Forma Urbis si scopre che il luogo del ritrovamento, la «Vigna delle Capocce», non lontano dalla Cisterna delle Sette Sale, coincide con quella che per Carandini è «la casa di Tito». All’epoca del Nolli, tutto faceva parte degli Orti di San Pietro in Vincoli. A questo punto, Carandini lancia una sfida personale: «Scommetto che, scavando lì, potremmo ritrovare il basamento del Laocoonte. Un progetto già c’è ma mancano i soldi e urgerebbe uno sponsor». E in quanto all’ipotizzata Cassandra? «Chissà». L’archeologo sorride, enigmatico. È in arrivo un’altra scoperta del suo doppio, il detective?
Le prove dell’archeologo Andrea Carandini: ecco dove si trovava l’abitazione del futuro imperatore
Qui, nella casa di Tito, c’era il Laocoonte
di Paolo Conti
Forse per essere buoni archeologi occorre allevare un doppio, quello del detective. Altrimenti non si potrebbe approdare alle conclusioni che oggi alle 17.30 Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali e docente di Archeologia classica a «La Sapienza» di Roma, esporrà agli Uffizi di Firenze in occasione del restauro del Laocoonte di Baccio Bandinelli realizzato grazie agli Amici degli Uffizi e i Friends of Uffizi Gallery inc. La copia di Baccio fu scolpita nel 1520 dopo il ritrovamento dell’originale ellenistico del I secolo avanti Cristo (Plinio la attribuisce a Agesandro, Atanadoro e Polidoro, tre scultori di Rodi) avvenuto nel 1506 vicino alla Domus Aurea, dissepolto alla presenza di Michelangelo e di Giuliano da Sangallo. Il clamore per la scoperta fu immenso per l’epoca, ecco perché Baccio Bandinelli ricevette dalla corte pontificia la commissione di una riproduzione da offrire a Francesco I di Francia.
Per individuare quella che a suo avviso è la Casa di Tito sul Colle Oppio (e «nella Casa di Tito», fino a oggi mai identificata, stando a Plinio, era esposto il Laocoonte) Carandini si è armato di due fondamentali piante romane. Ovvero la marmorea Forma Urbis Romae degli inizi del III secolo dopo Cristo e quella realizzata da Giambattista Nolli nel 1748. Racconta Carandini: «Studiando la Forma Urbis mi sono imbattuto in un atrio di forma arcaica a crociera, con un gigantesco tablino e con un accesso che apre su uno spazio porticato con al centro un tempietto. Che strano, mi sono detto, un atrio così antico rimasto intatto sulla pianta per tanti secoli». Ma una ragione, per il professore, c’è. Ed è legata al culto di Servio Tullio, penultimo re di Roma assassinato dal genero Tarquinio il Superbo: «Sappiamo dalle fonti che la sua casa era in periferia, sulla cima del Colle Oppio. Dopo la sua morte e quella di Tarquinio il Superbo, la repubblica fondò il suo culto come vecchio re filo-popolare. Venne il tempietto ».
Ed eccoci a un nuovo capitolo, al primo Prefetto del Pretorio Seio Strabone, capo delle guardie del palazzo imperiale sotto Augusto: «Guardando la pianta, si nota che intorno alla casa e al tempietto si costruisce un grande edificio. Si deve a Aelio Seiano, suo figlio, Prefetto del Pretorio sotto Tiberio, che poi lo farà uccidere nel palazzo imperiale. Lì sorge infatti il Tempio della Fortuna seiana, visibile sulla pianta, e coperta secondo le fonti dalle toghe di Servio Tullio conservate fino a quel momento».
Tutto torna, dunque, per Carandini: la conservazione dell’antichissimo edificio fino all’età imperiale per il culto di Servio Tullio, il luogo (la cima del Colle Oppio). Ed eccoci al punto, la casa di Tito, finora mai identificata: «Con tutta evidenza quel complesso era diventato di fatto 'la' casa del Prefetto del Pretorio. E quando il futuro imperatore Tito diventa Prefetto del Pretorio sotto suo padre, l’imperatore Vespasiano, quell’agglomerato diventa a tutti gli effetti 'la casa di Tito'. Nerone, lì accanto alla Domus Aurea, aveva ampliato l’edificio aggiungendo una grande aula con due absidi, la struttura è visibile sul Colle Oppio. Un luogo di rappresentanza ma anche, con ogni probabilità, uno spazio per amministrare la giustizia».
Secondo Carandini il Laocoonte era lì, in una delle due absidi. E nell’altra? Tesi pronta: «Laocoonte muore per la 'colpa' di essersi opposto all’ingresso del Cavallo di Troia nella sua città. A Pompei, nella Casa del Menandro c’è una situazione identica. Un ambiente dove è dipinto Laocoonte. In quello di fronte c’è Cassandra, altro personaggio 'colpevole' di aver profetizzato la fine di Troia e di essersi quindi opposta, come Laocoonte, all’arrivo del Cavallo. Secondo me nell’altra abside c’era una Cassandra. Entrambi alludevano alla Nuova Troia, cioè Roma».
Altro tassello: sovrapponendo la pianta del Nolli alla Forma Urbis si scopre che il luogo del ritrovamento, la «Vigna delle Capocce», non lontano dalla Cisterna delle Sette Sale, coincide con quella che per Carandini è «la casa di Tito». All’epoca del Nolli, tutto faceva parte degli Orti di San Pietro in Vincoli. A questo punto, Carandini lancia una sfida personale: «Scommetto che, scavando lì, potremmo ritrovare il basamento del Laocoonte. Un progetto già c’è ma mancano i soldi e urgerebbe uno sponsor». E in quanto all’ipotizzata Cassandra? «Chissà». L’archeologo sorride, enigmatico. È in arrivo un’altra scoperta del suo doppio, il detective?