giovedì 15 ottobre 2009

Baia spogliata. Campi Flegrei. Così va in malora il tesoro sommerso dell’antichità

Baia spogliata. Campi Flegrei. Così va in malora il tesoro sommerso dell’antichità
di CARLO FRANCO
13 ottobre 2009, CORRIERE DEL MEZZOGIORNO

Nel viaggio attraverso il degrado dei Campi Flegrei il capitolo più doloroso è quello dei tesori che il mare nasconde sotto uno spesso strato di sabbia. Se ne parla poco, ma il danno, se possibile, è ancor più grave perché le testimonianze delle lussuose ville imperiali avrebbero potuto far decollare un turismo spettacolare e redditizio. Oltre ad arricchire le conoscenze sulla presenza romana tra Pozzuoli, Cuma e Baia. Oggi le barche col fondo di vetro mostrano mosaici smembrati e quel che resta di un patrimonio favoloso. I turisti battono le mani, ma è poco, troppo poco quello che vedono: i tombaroli hanno trafugato, dal dopoguerra a oggi, almeno il 40% dei tesori di Baia sommersa. Spariti colonne, lucerne, capitelli, sculture, mosaici, ambienti di ville di età imperiale del periodo adrianeo e antoniniano. E alcune testimonianze del Portus Julius, l’arsenale della flotta collegato da un canale navigabile con i laghi di Lucrino e Averno. Un saccheggio in piena regola e, per come si è svolto, quasi autorizzato.

I ladri con bombole e muta lavorano in assoluta tranquillità: i reperti sommersi per effetto del bradisismo erano sepolti sotto una coltre di sabbia e fango tra i cinque e i quindici metri, cioè quasi in superficie. Ma, soprattutto, nel Parco non ci sono guardiani e non sono state installate le telecamere che avrebbero potuto smascherare i ladri. La conseguenza è che è stato mandato in malora un patrimonio unico al mondo dal quale si poteva tirar fuori un Museo straordinario. Un delitto cinico e perfetto che gli «assassini» non hanno mai pagato. La storia, però, si vendica. Ora che il Museo c’è e i tesori potrebbero essere ospitati e ammirati all’interno del Castello restaurato, sapete come stanno le cose: le sessanta sale nuove sono chiuse e vengono aperte per poche ore e solo in giorni determinati.

Nel parco sommerso, come se fosse una enorme gruviera, si contano i vuoti. Ricorda Claudio Ripa, uno di quegli sportivi cui la comunità culturale dovrebbe grandissimo riconoscimento per il lavoro di esplorazione, recupero e denuncia compiuto insieme ad altri grandi specialisti come Armando Caròla, Antonio De Stefano, il maresciallo della sezione subacquea dei carabinieri Paolo Cozzolino, e due sommozzatori della Nato che entrarono molto nella parte: «Là c’erano due vasche votive, le individuammo e ne parlammo con la Soprintendenza che, però, fece passare del tempo consentendo ai ladri di portarsele via». E la storia si è ripetuta in decine di altri casi.

Il saccheggio, molti lo avevano previsto. Un nome per tutti, Amedeo Maiuri, il grande archeologo, che mise sull’avviso il mondo della cultura ufficiale e le Soprintendenze del tempo: «L’esplorazione subacquea di Baia non è impresa d’isolati sportivi». Ci sarebbe stato bisogno di una campagna di scavi supportata da un piano sistematico di recupero delle statue e dei reperti accumulati lungo la via Herculanea, ma nessuno se n’è curato e i Campi Flegrei sono stati spogliati a terra e a mare. E, quel che è peggio, i tombaroli hanno potuto pescare a piene mani utilizzando fraudolentemente le scoperte di quegli isolati sportivi ai quali le «sentinelle» legali del territorio hanno sempre riservato non più di una modestissima attenzione.

Il caso più clamoroso è quello dell’altare nabateo. Claudio Ripa lo scoprì dopo aver scostato con le mani e uno spazzolino la parete di un muro e ne parlò in Soprintendenza ottenendo, però, un ascolto sommario. L’autorizzazione allo scavo arrivò dopo giorni, ma i tombaroli, che hanno antenne potentissime, avevano già provveduto. «In quella occasione, però, avemmo fortuna perché, grazie a una lauta mancia, ottenemmo una soffiata: jate a vede’ for’a punta Epitaffio. Così recuperammo l’altare». Un’altra volta, la dritta la fornì Peppe ’o tabaccaro, che sussurrò all’amico Claudio: «Ho visto un pezzo di marmo». Tutto qui: ma da quel particolare i sub risalirono alla scoperta di cinque stanze arricchite da bellissimi mosaici. Anche in quel caso i tombaroli arrivarono prima. Le memorie di Claudio Ripa riaprono ferite antiche che ancora bruciano: «Le statue di Ulisse e Baios, tra i pezzi più pregiati ospitati nel castello di Baia, ce le segnalò un altro pescatore; lo stesso che ci fece individuare le lucerne ornamentali del I secolo. Ne recuperammo alcune migliaia, alcune avevano fregi artistici molto belli e tutte erano in ottimo stato di conservazione, come gran parte dei reperti scovati nella città sommersa, ma furono abbandonate in ceste di paglia e se n’è saputo poco. Il risultato è che oggi ce ne sono sette-ottocento, ma nessuno sa dire che fine hanno fatto gli altri pezzi».

È rimasto ben poco, insomma, e le autorità del Parco hanno fatto di necessità virtù ordinando la riproduzione delle statue recuperate a Punta Epitaffio. Siamo alle copie scolpite con il laser e perfette quasi come gli originali. Ma sempre copie. Raffigurano Ulisse, il suo compagno Baios, Antonia minore figlia dell’imperatore, Ottavia, Claudia e Dioniso. Sono state sistemate là dove furono trovate e l’effetto è mirabile.

Come si esce da questa situazione fallimentare? «C’è un solo modo», dice Sergio Coppola, che da anni si immerge con Ripa, «ed è quello di fare le cose per bene. I divers che collaborano con la Soprintendenza fanno il loro dovere, ma se non si aumenta la sorveglianza nel perimetro del parco tra il limite meridionale del porto di Baia e il molo del lido augusteo, a Pozzuoli, chi ha voglia di arricchire la sua bacheca di reperti antichi o di venderli al miglior offerente avrà vita facile. In Sicilia hanno acquistato le telecamere per proteggere reperti di scarsa importanza individuati per giunta a quaranta metri». Qui, invece, siamo all’anno zero, e Claudio Ripa fa una previsione catastrofica ma reale: «Di questo passo, tra altri 40 anni ci rimarranno solo foto sbiadite e copie dall’originale».