La Repubblica 17.6.08
Il termine "medico" deriverebbe dal verbo latino "medeor" che significa "rimediare". In età imperiale, la pratica della medicina è promossa a scienza vera e propria: nasce una figura professionale riconosciuta
La lunga storia delle critiche a una professione necessaria
Amati e odiati già nell´antica Roma
di Giorgio Cosmacini
Medicus, la parola e la storia: il configurarsi della parola nello svolgersi della storia, non è univoco. Medico dal latino medeor, mederi, «rimediare», ma in senso più stretto «medicare»: è una prima ipotesi, forse la più attendibile. Fin dall´antichità romana il termine si è, per così dire, specializzato, assumendo un significato terapeutico vero e proprio: «risanare, curare, aver cura».
Medico come «curante». Nella Roma repubblicana, Plauto (254 - 184 a.C.), nella commedia intitolata La corda grossa (Rudens) fa dialogare così due dei suoi personaggi: «Sei medico?». «No, non sono medico, ho una lettera in più».
«Sei dunque mendìco?». Tra mendicus e medico c´era il divario di una lettera, ma nella vita sociale del tempo non c´era una grande differenza tra i due. Il medico era un uomo che aveva come sola risorsa quella di aver cura di altri uomini, ricevendone in cambio un obolo di riconoscenza. Senza lucrare, forniva egli stesso il medicamentum. Chiunque avesse avuto bisogno del suo aiuto, poteva trovarlo, a ogni ora del giorno e della notte, nella taberna medica, una bottega a metà strada tra l´ambulatorio e il dispensario.
Però Platone, con la sapienza espressa nelle Leggi, aveva riconosciuto che nella Grecia post-ippocratica c´erano già «due specie di quelli che si chiamano medici»: i medici degli schiavi e i medici degli uomini liberi. I primi «fanno come un tiranno superbo e tosto si scostano» dallo schiavo malato. I secondi «danno informazioni allo stesso ammalato» e «non prescrivono nulla prima di aver persuaso per qualche via il paziente, preparandolo docile all´opera loro».
Torniamo alla parola, che – come si vede – è un guscio lessicale dai vari significati. Nella Roma cesarea, Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) nell´opera De lingua latina dedicata a Cicerone convalida l´ipotesi che fa derivare medicus da medeor. Però nella Roma imperiale, quando Aulo Cornelio Celso (I secolo d.C.) scrive il trattato De medicina, il termine "medico" ricorre nello scritto con relativa minor frequenza di altri vocaboli che pur riconoscono la medesima radice linguistica. In compenso chi esercita la cura è passato di grado: ora è colui che possiede la scientia medendi.
La pratica è stata promossa a scienza, il mestiere a professione. Nella bassa latinità, o nell´alto Medioevo, Isidoro di Siviglia (560-636), nella parte propriamente medica dell´opera enciclopedica intitolata Etymologiae od Origines e comprendente tutto quanto lo scibile, fa risalire l´etimologia di medicina a modus, cioè alla "giusta misura" che deve guidare chi la professa. «Per questo» scrive Isidoro, «la medicina è chiamata seconda filosofia, poiché entrambe le discipline sono complementari all´uomo». In tal senso si può ribadire ciò che aveva già detto Claudio Galeno (130-200 d.C.), medico dell´imperatore Marco Aurelio e dei suoi figli: «Il migliore dei medici sia anche filosofo».
Dopo Isidoro, è il medico ebreo Mosè Maimonide (1135-1204) a far risalire il termine medicina a medietas, o "arte del giusto mezzo", lontana da difetti ed eccessi, da penuria od opulenza, ed esercitata da chi cura non solo con "giustezza", cioè con misura, ma anche con "giustizia", cioè con equità. Siamo nel basso Medioevo, quando a Salerno nasce e fiorisce la prima Scuola di medicina, i cui docenti sono chiamati magistri, "maestri salernitani". L´arte medica, professata al suo maggior livello, è un´"arte magistrale".
Peraltro, nello stesso periodo storico, i licenziati dalle neonate Università – a Bologna come a Padova, a Parigi come a Montpellier – sono detti physici piuttosto che medici, sia perché la "fisica" era la scienza della natura (ivi compresa la natura umana), sia perché era opportuna una distinzione – di ruolo, di classe, di censo – dai chirurghi, lavoratori manuali bassolocati e meno retribuiti. La distinzione era recepita dai primi regolamenti ospedalieri, in età rinascimentale. Nel 1508 il primo documento a stampa sull´ordinamento di un grande ospedale – il milanese Ospedale Maggiore – fissava la dotazione di personale medico in «quattro physici, uno per braccio de la crocera, et altri tanti chirurghi similmente distribuiti».
Facoltà e collegi, corporazioni e consuetudini fissavano i cardini di una tradizione durevole, che peraltro ammetteva il formarsi, in antitesi, di una controtradizione iatrocritica o addirittura iatrofobica. Non aveva scritto Pindaro, in una delle sue Odi pitiche, che lo stesso semidio della medicina, Asclepio (l´Esculapio dei latini), «era stato messo in catene dal guadagno»? E l´usignolo di Valchiusa, Francesco Petrarca, nelle sue Invectivae contra medicum, non aveva definito «colore di medico» il giallore riflesso sul volto di chi scrutava l´urina nel bicchiere e nel contempo pensava in cuor suo al denaro da lucrare? «Il tuo pallore è dovuto alla tua cupidità», aveva scritto Petrarca: «Tu ragguardi l´urina e il tuo pensiero è nell´oro».
Il filone storiografico di critica della medicina ha anch´esso una tradizione di lunga durata, che va da Catone il Censore a Ivan Illich (Nemesi medica, 1977) passando attraverso molti altri esponenti tra cui Bernardino Ramazzini (1633-1714), assai più noto, giustamente, come autore del magistrale trattato Sulle malattie dei lavoratori (contemplante anche il primo caso noto d´inquinamento industriale dell´aere padano) che per aver descritto, degli appartenenti alla propria categoria professorale, «il buon umore, quando tornano a casa ben carichi di denaro». «Io ho osservato - scrive Ramazzini - che i medici non stanno mai tanto male quando nessuno sta male».
Qualunquismo denigratore o coscienza autocritica? Il medico ippocratico delle origini – in Grecia era detto iatròs – è nato con una propria tèchne peculiare, comprendente il buon metodo (il metodo clinico) e la giusta morale (l´etica del "giuramento d´Ippocrate"). Se il metodo è buono e l´etica non è un´etichetta, adesa in modo posticcio alla professione per tacitarne la cattiva coscienza, il medicus, il "curante" d´ogni tempo e d´ogni luogo, non ha da temere critiche di sorta. Da curante competente e disponibile, egli resta il punto di forza e di resistenza che regge tutto quanto il sistema.
Il termine "medico" deriverebbe dal verbo latino "medeor" che significa "rimediare". In età imperiale, la pratica della medicina è promossa a scienza vera e propria: nasce una figura professionale riconosciuta
La lunga storia delle critiche a una professione necessaria
Amati e odiati già nell´antica Roma
di Giorgio Cosmacini
Medicus, la parola e la storia: il configurarsi della parola nello svolgersi della storia, non è univoco. Medico dal latino medeor, mederi, «rimediare», ma in senso più stretto «medicare»: è una prima ipotesi, forse la più attendibile. Fin dall´antichità romana il termine si è, per così dire, specializzato, assumendo un significato terapeutico vero e proprio: «risanare, curare, aver cura».
Medico come «curante». Nella Roma repubblicana, Plauto (254 - 184 a.C.), nella commedia intitolata La corda grossa (Rudens) fa dialogare così due dei suoi personaggi: «Sei medico?». «No, non sono medico, ho una lettera in più».
«Sei dunque mendìco?». Tra mendicus e medico c´era il divario di una lettera, ma nella vita sociale del tempo non c´era una grande differenza tra i due. Il medico era un uomo che aveva come sola risorsa quella di aver cura di altri uomini, ricevendone in cambio un obolo di riconoscenza. Senza lucrare, forniva egli stesso il medicamentum. Chiunque avesse avuto bisogno del suo aiuto, poteva trovarlo, a ogni ora del giorno e della notte, nella taberna medica, una bottega a metà strada tra l´ambulatorio e il dispensario.
Però Platone, con la sapienza espressa nelle Leggi, aveva riconosciuto che nella Grecia post-ippocratica c´erano già «due specie di quelli che si chiamano medici»: i medici degli schiavi e i medici degli uomini liberi. I primi «fanno come un tiranno superbo e tosto si scostano» dallo schiavo malato. I secondi «danno informazioni allo stesso ammalato» e «non prescrivono nulla prima di aver persuaso per qualche via il paziente, preparandolo docile all´opera loro».
Torniamo alla parola, che – come si vede – è un guscio lessicale dai vari significati. Nella Roma cesarea, Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) nell´opera De lingua latina dedicata a Cicerone convalida l´ipotesi che fa derivare medicus da medeor. Però nella Roma imperiale, quando Aulo Cornelio Celso (I secolo d.C.) scrive il trattato De medicina, il termine "medico" ricorre nello scritto con relativa minor frequenza di altri vocaboli che pur riconoscono la medesima radice linguistica. In compenso chi esercita la cura è passato di grado: ora è colui che possiede la scientia medendi.
La pratica è stata promossa a scienza, il mestiere a professione. Nella bassa latinità, o nell´alto Medioevo, Isidoro di Siviglia (560-636), nella parte propriamente medica dell´opera enciclopedica intitolata Etymologiae od Origines e comprendente tutto quanto lo scibile, fa risalire l´etimologia di medicina a modus, cioè alla "giusta misura" che deve guidare chi la professa. «Per questo» scrive Isidoro, «la medicina è chiamata seconda filosofia, poiché entrambe le discipline sono complementari all´uomo». In tal senso si può ribadire ciò che aveva già detto Claudio Galeno (130-200 d.C.), medico dell´imperatore Marco Aurelio e dei suoi figli: «Il migliore dei medici sia anche filosofo».
Dopo Isidoro, è il medico ebreo Mosè Maimonide (1135-1204) a far risalire il termine medicina a medietas, o "arte del giusto mezzo", lontana da difetti ed eccessi, da penuria od opulenza, ed esercitata da chi cura non solo con "giustezza", cioè con misura, ma anche con "giustizia", cioè con equità. Siamo nel basso Medioevo, quando a Salerno nasce e fiorisce la prima Scuola di medicina, i cui docenti sono chiamati magistri, "maestri salernitani". L´arte medica, professata al suo maggior livello, è un´"arte magistrale".
Peraltro, nello stesso periodo storico, i licenziati dalle neonate Università – a Bologna come a Padova, a Parigi come a Montpellier – sono detti physici piuttosto che medici, sia perché la "fisica" era la scienza della natura (ivi compresa la natura umana), sia perché era opportuna una distinzione – di ruolo, di classe, di censo – dai chirurghi, lavoratori manuali bassolocati e meno retribuiti. La distinzione era recepita dai primi regolamenti ospedalieri, in età rinascimentale. Nel 1508 il primo documento a stampa sull´ordinamento di un grande ospedale – il milanese Ospedale Maggiore – fissava la dotazione di personale medico in «quattro physici, uno per braccio de la crocera, et altri tanti chirurghi similmente distribuiti».
Facoltà e collegi, corporazioni e consuetudini fissavano i cardini di una tradizione durevole, che peraltro ammetteva il formarsi, in antitesi, di una controtradizione iatrocritica o addirittura iatrofobica. Non aveva scritto Pindaro, in una delle sue Odi pitiche, che lo stesso semidio della medicina, Asclepio (l´Esculapio dei latini), «era stato messo in catene dal guadagno»? E l´usignolo di Valchiusa, Francesco Petrarca, nelle sue Invectivae contra medicum, non aveva definito «colore di medico» il giallore riflesso sul volto di chi scrutava l´urina nel bicchiere e nel contempo pensava in cuor suo al denaro da lucrare? «Il tuo pallore è dovuto alla tua cupidità», aveva scritto Petrarca: «Tu ragguardi l´urina e il tuo pensiero è nell´oro».
Il filone storiografico di critica della medicina ha anch´esso una tradizione di lunga durata, che va da Catone il Censore a Ivan Illich (Nemesi medica, 1977) passando attraverso molti altri esponenti tra cui Bernardino Ramazzini (1633-1714), assai più noto, giustamente, come autore del magistrale trattato Sulle malattie dei lavoratori (contemplante anche il primo caso noto d´inquinamento industriale dell´aere padano) che per aver descritto, degli appartenenti alla propria categoria professorale, «il buon umore, quando tornano a casa ben carichi di denaro». «Io ho osservato - scrive Ramazzini - che i medici non stanno mai tanto male quando nessuno sta male».
Qualunquismo denigratore o coscienza autocritica? Il medico ippocratico delle origini – in Grecia era detto iatròs – è nato con una propria tèchne peculiare, comprendente il buon metodo (il metodo clinico) e la giusta morale (l´etica del "giuramento d´Ippocrate"). Se il metodo è buono e l´etica non è un´etichetta, adesa in modo posticcio alla professione per tacitarne la cattiva coscienza, il medicus, il "curante" d´ogni tempo e d´ogni luogo, non ha da temere critiche di sorta. Da curante competente e disponibile, egli resta il punto di forza e di resistenza che regge tutto quanto il sistema.