Gianicolo, l´"ottavo" colle da qui si godono gli altri sette
LUCA VILLORESI
GIOVEDÌ, 17 LUGLIO 2008 LA REPUBBLICA Pagina XVI - Roma
Etruschi, papi, Unità d´Italia: ecco dov´è passata la storia
Il Tevere traccia un solco fra due territori diversi anche sul piano geologico
L´antico Janiculus segna un antichissimo confine geopolitico
Tanto più che il vecchio Janiculus (in onore di Giano, Janus, il dio bifronte) non è semplicemente un bell´osservatorio affacciato sul paesaggio capitolino; è anche una sorta di cippo, chiamato a segnare un antichissimo confine geopolitico.
Lo spartitraffico è lo stesso di tremila anni or sono. Riva destra e riva sinistra. Il Tevere, proprio ai piedi del Gianicolo, traccia un solco fra due territori profondamente diversi. Sull´altra sponda, a oriente, i sette colli sono figli dell´attività vulcanica dei Colli Albani: tufi e pozzolane. Da questa parte, a occidente, viceversa, la catena di rilievi che corre dal Gianicolo a Monte Mario è nata dall´emersione del fondo di un mare che si stendeva in questa zona oltre un milione di anni fa. Come dire argille e sedimenti sabbiosi; spesso frammisti a quelle conchiglie fossili che affiorano a tratti dal pendio che scende verso Porta Portese, o sotto le Mura gianicolensi, vicino a San Pietro in Montorio. Un appellativo, quello di Montorio, spesso usato in passato per indicare questo colle: un nome che ci riporta dall´etimologia alla geologia, derivando da Mons aureus, il Monte d´oro, per via del colore delle sue marne gialle. Siamo sull´orlo di un confine naturale. Ma anche politico, dacché la riva destra era etrusca e proprio sul Gianicolo iniziava il territorio di Veio.
«Questo spettacolo sopravvive per le generose offerte del pubblico. Almeno un euro grazie». Pulcinella ringrazia. Ci sono molti metri per misurare il tempo che passa sul volto di un colle: la vita dei muri, degli alberi, degli uomini. Il Gianicolo, peraltro, proprio per la sua posizione defilata, è rimasto fino al secolo scorso abbastanza simile a quello delle origini. E i simboli che nell´immaginario popolare identificano questo luogo sono tutti di formazione abbastanza recente. La quercia amata da Torquato Tasso, ridotta a uno scheletro rinsecchito e puntellato, ha poco più di quattrocento anni. Nemmeno un secolo è passato da quando, nel 1911, il faro donato dagli emigrati italiani in Argentina ha lanciato il suo primo fascio di luce tricolore. E meno di mezzo secolo conta l´altra istituzione locale, il teatrino dei burattini di Carlo Piantadosi, che lavora sulla cima del Gianicolo dal 1959. A un certo punto volevano sfrattarlo perché si sospettava che Pulcinella potesse turbare la sacralità dell´ambiente. Per aggirare i vincoli, alla fine, c´è voluto un riconoscimento ufficiale dei Beni culturali: quel baracchino, ha decretato il ministero, rappresenta «una testimonianza superstite di una forma di spettacolo collegato alla storia della commedia dell´arte». Auguri a Piantadosi, che va per gli ottanta.
Nel 1849 le batterie da campagna del generale Oudinot dovevano essere piazzate più o meno tra il chiosco delle grattachecche e la fermata del 75, all´altezza di piazza Rosolino Pilo. Inversamente proporzionale a quella di Porta Pia, la breccia aperta dall´artiglieria francese nelle Mura gianicolensi ha segnato la fine della Repubblica romana. Per assurgere, dopo l´Unità, a fulcro di una commemorazione che ha trasformato il Gianicolo nell´altare di un´epopea risorgimentale celebrata per ogni dove da monumenti, busti, lapidi.
Il passaggio dall´epigrafia papalina alla garibaldina - così come un tempo quello da Mario a Silla - rientra peraltro nella tradizione di un colle consacrato a Giano bifronte e piazzato come un bastione sulle strade che arrivano dal mare e dal nord: etruschi, lanzichenecchi, francesi... Quella del 1849 è stata solo l´ultima delle battaglie combattute sul Gianicolo. E chissà che la cannonata di mezzogiorno non nasconda qualche valenza di esorcismo. Di certo ha una sua potenza evocativa. L´istituzione risale a Pio IX, indispettito dal fatto che le campane di Roma si ostinavano a battere le dodici ognuna per proprio conto. All´inizio il cannone sparava da Castel Sant´Angelo. Trasferito sul Gianicolo all´inizio del Novecento, sospeso per la guerra e ripristinato nel 1959 (anche grazie a una campagna promossa da Mario Riva), il botto di mezzogiorno funge tuttora - una sorta di imprinting - da rito di iniziazione per i timpani dei bambini romani.
Le Mura gianicolensi avvolgono i fianchi del colle come le spire di un serpentone che a volte asseconda, a volte sembra stritolare i cambi di livello. Concepite nel Seicento come un prolungamento delle Mura Leonine (costruite a difesa del Vaticano dopo la scorreria saracena dell´846), delimitano la cima del colle con un taglio preciso. Una separazione netta - chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori - che ha pesato sulla storia urbanistica del circondario. Nelle proprietà che si ritrovavano al riparo della cinta muraria sono nate molte delle ville più belle di Roma: Lante, Corsini, Spada, Sciarra. All´esterno, lungo l´Aurelia antica, con la sola eccezione di villa Pamphili, i terreni venivano invece destinati a usi agricoli.
Una separazione netta tra città e campagna, durata fino all´ultima guerra quando la gita fuori Porta San Pancrazio era famosa per le sue osterie, per un vinello bianco e, ultima memoria cancellata, anche per le sue acque. Fossero quelle dell´acquedotto Paolino, celebrato dalla frescura del Fontanone; fossero quelle delle fonti (tra le migliori di Roma, si diceva) dell´Acqua Corsiniana, che scendeva nell´Orto botanico, o dell´Acqua Lancisiana, che negli anni Quaranta ancora sboccava vicino al Santo Spirito.
Un colle è fatto anche di pendici. Queste sono ripide, fragili (spesso sono puntellate e transennate) e, come s´è detto, molto diverse tra loro. Si sale da via delle Fornaci e dalla via delle Mura, dai vicoli trasteverini e dai sentieri dell´Orto botanico... viali, ponti bianchi, Monteverdi (vecchio, nuovo, nuovissimo). Per non dire della più famosa passeggiata panoramica della Capitale, incoronata da Villa Lante: una piuma, appoggiata sui resti della dimora di Marziale. «Hinc septem dominos videre montes et totam licet aestimare Romam». Ecco i Sette colli, ecco tutta Roma.
Lo spettacolo, nelle sue linee essenziali, è ancora quello cantato dallo scrittore latino; sebbene gli aggiornamenti non manchino. A volte sono segni minuti e recenti, come il compleanno di Vanessa, celebrato in spray rosso sul marmo del Faro. Altre volte mastodontici, estesi come gli stessi profili dell´orizzonte. Proprio accanto al Gianicolo, ad esempio, per far posto alla basilica di San Pietro, è stato tagliato via di netto l´elemento centrale della catena di rilievi che andava da qui a Monte Mario. Li chiamavano i monti Vaticani, i monti dei vaticini, perché si narra che proprio quelle alture fossero le predilette dai sacerdoti etruschi che leggevano il futuro nel volo degli uccelli. Chissà se qualche indovino, osservando là, oltre il Tevere, in un giorno di aprile del 753 avanti Cristo, avrà mai notato qualcosa di insolito nel cielo dei Sette colli.
LUCA VILLORESI
GIOVEDÌ, 17 LUGLIO 2008 LA REPUBBLICA Pagina XVI - Roma
Etruschi, papi, Unità d´Italia: ecco dov´è passata la storia
Il Tevere traccia un solco fra due territori diversi anche sul piano geologico
L´antico Janiculus segna un antichissimo confine geopolitico
Tanto più che il vecchio Janiculus (in onore di Giano, Janus, il dio bifronte) non è semplicemente un bell´osservatorio affacciato sul paesaggio capitolino; è anche una sorta di cippo, chiamato a segnare un antichissimo confine geopolitico.
Lo spartitraffico è lo stesso di tremila anni or sono. Riva destra e riva sinistra. Il Tevere, proprio ai piedi del Gianicolo, traccia un solco fra due territori profondamente diversi. Sull´altra sponda, a oriente, i sette colli sono figli dell´attività vulcanica dei Colli Albani: tufi e pozzolane. Da questa parte, a occidente, viceversa, la catena di rilievi che corre dal Gianicolo a Monte Mario è nata dall´emersione del fondo di un mare che si stendeva in questa zona oltre un milione di anni fa. Come dire argille e sedimenti sabbiosi; spesso frammisti a quelle conchiglie fossili che affiorano a tratti dal pendio che scende verso Porta Portese, o sotto le Mura gianicolensi, vicino a San Pietro in Montorio. Un appellativo, quello di Montorio, spesso usato in passato per indicare questo colle: un nome che ci riporta dall´etimologia alla geologia, derivando da Mons aureus, il Monte d´oro, per via del colore delle sue marne gialle. Siamo sull´orlo di un confine naturale. Ma anche politico, dacché la riva destra era etrusca e proprio sul Gianicolo iniziava il territorio di Veio.
«Questo spettacolo sopravvive per le generose offerte del pubblico. Almeno un euro grazie». Pulcinella ringrazia. Ci sono molti metri per misurare il tempo che passa sul volto di un colle: la vita dei muri, degli alberi, degli uomini. Il Gianicolo, peraltro, proprio per la sua posizione defilata, è rimasto fino al secolo scorso abbastanza simile a quello delle origini. E i simboli che nell´immaginario popolare identificano questo luogo sono tutti di formazione abbastanza recente. La quercia amata da Torquato Tasso, ridotta a uno scheletro rinsecchito e puntellato, ha poco più di quattrocento anni. Nemmeno un secolo è passato da quando, nel 1911, il faro donato dagli emigrati italiani in Argentina ha lanciato il suo primo fascio di luce tricolore. E meno di mezzo secolo conta l´altra istituzione locale, il teatrino dei burattini di Carlo Piantadosi, che lavora sulla cima del Gianicolo dal 1959. A un certo punto volevano sfrattarlo perché si sospettava che Pulcinella potesse turbare la sacralità dell´ambiente. Per aggirare i vincoli, alla fine, c´è voluto un riconoscimento ufficiale dei Beni culturali: quel baracchino, ha decretato il ministero, rappresenta «una testimonianza superstite di una forma di spettacolo collegato alla storia della commedia dell´arte». Auguri a Piantadosi, che va per gli ottanta.
Nel 1849 le batterie da campagna del generale Oudinot dovevano essere piazzate più o meno tra il chiosco delle grattachecche e la fermata del 75, all´altezza di piazza Rosolino Pilo. Inversamente proporzionale a quella di Porta Pia, la breccia aperta dall´artiglieria francese nelle Mura gianicolensi ha segnato la fine della Repubblica romana. Per assurgere, dopo l´Unità, a fulcro di una commemorazione che ha trasformato il Gianicolo nell´altare di un´epopea risorgimentale celebrata per ogni dove da monumenti, busti, lapidi.
Il passaggio dall´epigrafia papalina alla garibaldina - così come un tempo quello da Mario a Silla - rientra peraltro nella tradizione di un colle consacrato a Giano bifronte e piazzato come un bastione sulle strade che arrivano dal mare e dal nord: etruschi, lanzichenecchi, francesi... Quella del 1849 è stata solo l´ultima delle battaglie combattute sul Gianicolo. E chissà che la cannonata di mezzogiorno non nasconda qualche valenza di esorcismo. Di certo ha una sua potenza evocativa. L´istituzione risale a Pio IX, indispettito dal fatto che le campane di Roma si ostinavano a battere le dodici ognuna per proprio conto. All´inizio il cannone sparava da Castel Sant´Angelo. Trasferito sul Gianicolo all´inizio del Novecento, sospeso per la guerra e ripristinato nel 1959 (anche grazie a una campagna promossa da Mario Riva), il botto di mezzogiorno funge tuttora - una sorta di imprinting - da rito di iniziazione per i timpani dei bambini romani.
Le Mura gianicolensi avvolgono i fianchi del colle come le spire di un serpentone che a volte asseconda, a volte sembra stritolare i cambi di livello. Concepite nel Seicento come un prolungamento delle Mura Leonine (costruite a difesa del Vaticano dopo la scorreria saracena dell´846), delimitano la cima del colle con un taglio preciso. Una separazione netta - chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori - che ha pesato sulla storia urbanistica del circondario. Nelle proprietà che si ritrovavano al riparo della cinta muraria sono nate molte delle ville più belle di Roma: Lante, Corsini, Spada, Sciarra. All´esterno, lungo l´Aurelia antica, con la sola eccezione di villa Pamphili, i terreni venivano invece destinati a usi agricoli.
Una separazione netta tra città e campagna, durata fino all´ultima guerra quando la gita fuori Porta San Pancrazio era famosa per le sue osterie, per un vinello bianco e, ultima memoria cancellata, anche per le sue acque. Fossero quelle dell´acquedotto Paolino, celebrato dalla frescura del Fontanone; fossero quelle delle fonti (tra le migliori di Roma, si diceva) dell´Acqua Corsiniana, che scendeva nell´Orto botanico, o dell´Acqua Lancisiana, che negli anni Quaranta ancora sboccava vicino al Santo Spirito.
Un colle è fatto anche di pendici. Queste sono ripide, fragili (spesso sono puntellate e transennate) e, come s´è detto, molto diverse tra loro. Si sale da via delle Fornaci e dalla via delle Mura, dai vicoli trasteverini e dai sentieri dell´Orto botanico... viali, ponti bianchi, Monteverdi (vecchio, nuovo, nuovissimo). Per non dire della più famosa passeggiata panoramica della Capitale, incoronata da Villa Lante: una piuma, appoggiata sui resti della dimora di Marziale. «Hinc septem dominos videre montes et totam licet aestimare Romam». Ecco i Sette colli, ecco tutta Roma.
Lo spettacolo, nelle sue linee essenziali, è ancora quello cantato dallo scrittore latino; sebbene gli aggiornamenti non manchino. A volte sono segni minuti e recenti, come il compleanno di Vanessa, celebrato in spray rosso sul marmo del Faro. Altre volte mastodontici, estesi come gli stessi profili dell´orizzonte. Proprio accanto al Gianicolo, ad esempio, per far posto alla basilica di San Pietro, è stato tagliato via di netto l´elemento centrale della catena di rilievi che andava da qui a Monte Mario. Li chiamavano i monti Vaticani, i monti dei vaticini, perché si narra che proprio quelle alture fossero le predilette dai sacerdoti etruschi che leggevano il futuro nel volo degli uccelli. Chissà se qualche indovino, osservando là, oltre il Tevere, in un giorno di aprile del 753 avanti Cristo, avrà mai notato qualcosa di insolito nel cielo dei Sette colli.