Iscrizioni funerarie Romane
A cura di Lidia Storoni Mazzolani
Bur, Milano, 1991
Tra le tante voci del mondo antico che sono giunte fino a noi, quelle incise nel marmo o nel bronzo sono le più autentiche: non hanno subito modifiche o sviste da parte di copisti o di revisori. Socchiudono spiragli sull’esistenza, gli affetti, i valori e sull’atteggiamento di fronte alla morte di persone scomparse da molti secoli; lasciano scorrere davanti a noi, come in una carrellata, quella che Virgilio chiamò la plurima mortis imago, i molteplici aspetti della morte: l’incendio, il naufragio, il duello del gladiatore, la battaglia del legionario, la malattia, la vecchiaia, il parto della giovane donna, il pugnale del bandito o dello schiavo, fino al sortilegio malefico. E’ la poesia umile degli anonimi; prosegue dal sepolcro il colloquio con i vivi, lancia il suo appello a una sosta, a un momento di meditazione, minaccia chi oserà violare o contaminare quel piccolo terreno consacrato; rivela la filosofia del defunto, la sua cultura — quando cita autori famosi — infine la sua verità segreta e profonda.
L.S.M
Dalla quarta di copertina
Attraverso le iscrizioni s’è cercato di ricostruire anche la composizione etnica della Roma imperiale:
T. Franck, in Race Mixture in the Roma,, Empire («American Historical Review», 1916, pp.. 689 sgg.), attraverso un esame degli epitaffi di schiavi e liberti, dai nomi prevalentemente greci e orientali, dedusse che appunto di quella classe era costituita in maggioranza la popolazione di Roma; tesi contrastata da M. L. Gordon, in The Nationalityi af Slaves under the Early Empire (Journal of Roman Studies, 1924, pp. 93 sgg.). Vedi G. La Piana, Foreign Groups in Rome during the I Century of the Roman Empire, in « Harvard Theological Review», l927,pp. 183 sgg.
Si usava, dopo aver aperti e chiusi gli occhi al defunto, mettergli in bocca una moneta (il naulum) per pagare il viaggio nell’Ade. Poi, lo si stendeva su un letto di legno, che veniva collocato sulla catasta di legna alla quale un parente appiccava il fuoco; si chiamava bustum, se l’incinerazione avveniva entro la fossa stessa dove poi le ossa sarebbero state ricoperte di terra, ustrinum invece il luogo dove si innalzava la pira, lontano da quello della sepoltura. L’incinerazione fu un uso prevalente dall’età repubblicana a tutto il I secolo d.C., tranne che nel caso di bambini morti in tenera età e di adulti colpiti dal fulmine.
Le ossa, lavate con latte e vino, venivano deposte entro anfore, in urne di ceramica, di vetro, d’alabastro, in cassette di laterizi, più raramente di marmo; l’urna di vetro, una specie di bottiglia a bocca larga, più spesso destinata alle donne, a volte era inserita entro un’anfora segata, ma avveniva anche che le ossa fossero posate liberamente sulla nuda terra. Tutt’attorno si posavano oggetti d’uso o cari al defunto, attrezzi di lavoro, gioielli, balsamari, giocattoli, alcuni dei quali — e la stessa disposizione in cui venivano posati — rivestivano un significato magico e rituale (per es. i chiodi, gli specchi). La tomba si considerava consacrata soltanto a seguito del sacrificio d’un porco. ossi di animali trovati sulle tombe possono essere residui del banchetto funebre consumato sùbito dopo le esequie e ripetuto nove giorni dopo, oppure alimenti destinati al morto; entro la tomba stessa si versavano libagioni offerte ai Mani.
Il calendario romano segna molte date dedicate alla celebrazione dei defunti: i parerntalia, nell’anniversario della morte, i Feralia in febbraio, i Lemuria — giorno in cui le anime, lasciate libere, cercavano di tornare nelle loro case, in maggio. Il capo famiglia, voltando le spalle alla porta, recitava una formula di scongiuro per allontanarli e gettava a terra una manciata di fave (Ovidio, Fasti, V, 431-444) — l’uso delle fave dolci, consumate il giorno dei morti a Roma (2 novembre) è una inconsapevole reminiscenza, benché in altra stagione, di quel rito remoto.
Dato che le sepolture si trovavano lungo le strade consolari, l’iscrizione rappresenta l’appello postumo del defunto ai vivi, passanti o viaggiatori. In essa, chi non è più vuole attirare ancora l’attenzione e fermare per un momento quel flusso incessante di umanità che scorre davanti a lui, e, nel riassumere la propria esistenza, esprime nella forma più genuina e più breve (appunto, lapidaria) la scala dei valori del suo tempo, la sua concezione della vita e del destino umano.
LIDIA STORONI MAZZOLANI
Pagine XI-XII
A cura di Lidia Storoni Mazzolani
Bur, Milano, 1991
Tra le tante voci del mondo antico che sono giunte fino a noi, quelle incise nel marmo o nel bronzo sono le più autentiche: non hanno subito modifiche o sviste da parte di copisti o di revisori. Socchiudono spiragli sull’esistenza, gli affetti, i valori e sull’atteggiamento di fronte alla morte di persone scomparse da molti secoli; lasciano scorrere davanti a noi, come in una carrellata, quella che Virgilio chiamò la plurima mortis imago, i molteplici aspetti della morte: l’incendio, il naufragio, il duello del gladiatore, la battaglia del legionario, la malattia, la vecchiaia, il parto della giovane donna, il pugnale del bandito o dello schiavo, fino al sortilegio malefico. E’ la poesia umile degli anonimi; prosegue dal sepolcro il colloquio con i vivi, lancia il suo appello a una sosta, a un momento di meditazione, minaccia chi oserà violare o contaminare quel piccolo terreno consacrato; rivela la filosofia del defunto, la sua cultura — quando cita autori famosi — infine la sua verità segreta e profonda.
L.S.M
Dalla quarta di copertina
Attraverso le iscrizioni s’è cercato di ricostruire anche la composizione etnica della Roma imperiale:
T. Franck, in Race Mixture in the Roma,, Empire («American Historical Review», 1916, pp.. 689 sgg.), attraverso un esame degli epitaffi di schiavi e liberti, dai nomi prevalentemente greci e orientali, dedusse che appunto di quella classe era costituita in maggioranza la popolazione di Roma; tesi contrastata da M. L. Gordon, in The Nationalityi af Slaves under the Early Empire (Journal of Roman Studies, 1924, pp. 93 sgg.). Vedi G. La Piana, Foreign Groups in Rome during the I Century of the Roman Empire, in « Harvard Theological Review», l927,pp. 183 sgg.
Si usava, dopo aver aperti e chiusi gli occhi al defunto, mettergli in bocca una moneta (il naulum) per pagare il viaggio nell’Ade. Poi, lo si stendeva su un letto di legno, che veniva collocato sulla catasta di legna alla quale un parente appiccava il fuoco; si chiamava bustum, se l’incinerazione avveniva entro la fossa stessa dove poi le ossa sarebbero state ricoperte di terra, ustrinum invece il luogo dove si innalzava la pira, lontano da quello della sepoltura. L’incinerazione fu un uso prevalente dall’età repubblicana a tutto il I secolo d.C., tranne che nel caso di bambini morti in tenera età e di adulti colpiti dal fulmine.
Le ossa, lavate con latte e vino, venivano deposte entro anfore, in urne di ceramica, di vetro, d’alabastro, in cassette di laterizi, più raramente di marmo; l’urna di vetro, una specie di bottiglia a bocca larga, più spesso destinata alle donne, a volte era inserita entro un’anfora segata, ma avveniva anche che le ossa fossero posate liberamente sulla nuda terra. Tutt’attorno si posavano oggetti d’uso o cari al defunto, attrezzi di lavoro, gioielli, balsamari, giocattoli, alcuni dei quali — e la stessa disposizione in cui venivano posati — rivestivano un significato magico e rituale (per es. i chiodi, gli specchi). La tomba si considerava consacrata soltanto a seguito del sacrificio d’un porco. ossi di animali trovati sulle tombe possono essere residui del banchetto funebre consumato sùbito dopo le esequie e ripetuto nove giorni dopo, oppure alimenti destinati al morto; entro la tomba stessa si versavano libagioni offerte ai Mani.
Il calendario romano segna molte date dedicate alla celebrazione dei defunti: i parerntalia, nell’anniversario della morte, i Feralia in febbraio, i Lemuria — giorno in cui le anime, lasciate libere, cercavano di tornare nelle loro case, in maggio. Il capo famiglia, voltando le spalle alla porta, recitava una formula di scongiuro per allontanarli e gettava a terra una manciata di fave (Ovidio, Fasti, V, 431-444) — l’uso delle fave dolci, consumate il giorno dei morti a Roma (2 novembre) è una inconsapevole reminiscenza, benché in altra stagione, di quel rito remoto.
Dato che le sepolture si trovavano lungo le strade consolari, l’iscrizione rappresenta l’appello postumo del defunto ai vivi, passanti o viaggiatori. In essa, chi non è più vuole attirare ancora l’attenzione e fermare per un momento quel flusso incessante di umanità che scorre davanti a lui, e, nel riassumere la propria esistenza, esprime nella forma più genuina e più breve (appunto, lapidaria) la scala dei valori del suo tempo, la sua concezione della vita e del destino umano.
LIDIA STORONI MAZZOLANI
Pagine XI-XII