Jean Noel Robert, I Piaceri a Roma, Rizzoli, Milano, 1985
“Le terme, il vino, le donne: questa è la vita.” è il testo di una iscrizione funeraria romana di epoca imperiale. Come molte altre analoghe, essa manifesta senza ipocrisie la concezione dell’esistenza propria di una civiltà che vedeva nella dea Venere — la divinità del piacere — la propria progenitrice. La società romana era attraversata da enormi squilibri sociali: accanto a una classe che aveva ammassato (e che spendeva) immense ricchezze, esisteva la plebe miserabile e oziosa — la cui esistenza è stata descritta in un altro volume di questa collana, I bassifondi dell’antichità, di C. Salles —, mantenuta quasi esclusivamente dai donativi pubblici e dal lavoro degli schiavi. Ricchi e poveri sono dominati da un’uguale ansia di godimento: ciascuna classe elabora una propria “arte di vivere”. Nella metropoli immensa e frenetica, che dobbiamo immaginare più simile a una casbah orientale che a una città moderna, i cittadini passano la maggior parte della loro giornata nelle strade, nel foro, in quei “palazzi per il popolo” che sono le basiliche e soprattutto le terme. Ogni romano, uomo o donna, vi passa in media due ore della sua giornata: a lavarsi, a giocare, a bere, ad amoreggiare, forse soprattutto a chiacchierare — anche questo uno dei piaceri dell’esistenza, a cui i Romani si dedicano ai più vari livelli. Vi sono, nella sola Roma, novecentocinquanta edifici termali, dai più piccoli a quelli giganteschi: un servizio pubblico completamente gratuito (ma vi sono anche, non dimentichiamolo, ventotto biblioteche anch’esse pubbliche, con una media di diecimila volumi ciascuna!). Un numero incredibile di giornate è dedicato alle feste, sempre accompagnate da elargizioni e da spettacoli — naturalmente offerti dallo stato, o da qualche ricco cittadino. Essi sono di una grandiosità senza pari, tali da ricordare i più fastosi kolossal della storia del cinema: solo che a Roma non si trattava di finzioni, e le ricostruzioni di battaglie comportavano centinaia di morti, come le cacce nel circo (magari trasformato in una cera foresta) vedevano l’uccisione di migliaia di animali esotici. I1 fascino atroce del combattimento di gladiatori attirava plebei e patrizi e grandi dame.
Questo gusto per lo spettacolo si riflette anche nell’altra grande occasione di piacere: il banchetto. Gli eccessi barocchi e stravaganti dei ricchi Romani a tavola — oggetto, fin da allora, della satira divertita e feroce di un Orazio, di un Giovenale, di un Petronio — prendono infatti l’aspetto di sorprendenti finzioni teatrali che si riallacciano a complessi e inattesi riferimenti culturali: mitologici, astrologici, letterari.
Se la vita del cittadino comune tende a svolgersi nei grandi spazi pubblici, quella delle classi superiori tende a chiudersi nelle grandi dimore, in cui il ricco romano profonde tesori. Preziose opere d’arte, razziate o acquistate a peso d’oro in Grecia e in Oriente, arredano gli ambienti resi confortevoli da impianti di riscaldamento e attrezzature igieniche in tutto paragonabili a quelli moderni, o popolano i giar1ini destinati a creare l’illusione della natura. E la contemplazione della natura è un altro grande piacere dei Romani, negato ai plebei: ne testimoniano le grandi ville, situate in posizioni stupende, messe in luce dagli archeologi o descritte dagli scrittori antichi. “Quando sono nella mia villa di Laurento — scrive Plinio — non ascolto nulla che mi dispiaccia di avere ascoltato, non dico nulla che mi penta di aver detto: nessun desiderio, nessun timore mi turba.” E il piacere più grande: quello di essere in pace, con se stessi e con gli altri.
Dal risvolto di copertina
“Le terme, il vino, le donne: questa è la vita.” è il testo di una iscrizione funeraria romana di epoca imperiale. Come molte altre analoghe, essa manifesta senza ipocrisie la concezione dell’esistenza propria di una civiltà che vedeva nella dea Venere — la divinità del piacere — la propria progenitrice. La società romana era attraversata da enormi squilibri sociali: accanto a una classe che aveva ammassato (e che spendeva) immense ricchezze, esisteva la plebe miserabile e oziosa — la cui esistenza è stata descritta in un altro volume di questa collana, I bassifondi dell’antichità, di C. Salles —, mantenuta quasi esclusivamente dai donativi pubblici e dal lavoro degli schiavi. Ricchi e poveri sono dominati da un’uguale ansia di godimento: ciascuna classe elabora una propria “arte di vivere”. Nella metropoli immensa e frenetica, che dobbiamo immaginare più simile a una casbah orientale che a una città moderna, i cittadini passano la maggior parte della loro giornata nelle strade, nel foro, in quei “palazzi per il popolo” che sono le basiliche e soprattutto le terme. Ogni romano, uomo o donna, vi passa in media due ore della sua giornata: a lavarsi, a giocare, a bere, ad amoreggiare, forse soprattutto a chiacchierare — anche questo uno dei piaceri dell’esistenza, a cui i Romani si dedicano ai più vari livelli. Vi sono, nella sola Roma, novecentocinquanta edifici termali, dai più piccoli a quelli giganteschi: un servizio pubblico completamente gratuito (ma vi sono anche, non dimentichiamolo, ventotto biblioteche anch’esse pubbliche, con una media di diecimila volumi ciascuna!). Un numero incredibile di giornate è dedicato alle feste, sempre accompagnate da elargizioni e da spettacoli — naturalmente offerti dallo stato, o da qualche ricco cittadino. Essi sono di una grandiosità senza pari, tali da ricordare i più fastosi kolossal della storia del cinema: solo che a Roma non si trattava di finzioni, e le ricostruzioni di battaglie comportavano centinaia di morti, come le cacce nel circo (magari trasformato in una cera foresta) vedevano l’uccisione di migliaia di animali esotici. I1 fascino atroce del combattimento di gladiatori attirava plebei e patrizi e grandi dame.
Questo gusto per lo spettacolo si riflette anche nell’altra grande occasione di piacere: il banchetto. Gli eccessi barocchi e stravaganti dei ricchi Romani a tavola — oggetto, fin da allora, della satira divertita e feroce di un Orazio, di un Giovenale, di un Petronio — prendono infatti l’aspetto di sorprendenti finzioni teatrali che si riallacciano a complessi e inattesi riferimenti culturali: mitologici, astrologici, letterari.
Se la vita del cittadino comune tende a svolgersi nei grandi spazi pubblici, quella delle classi superiori tende a chiudersi nelle grandi dimore, in cui il ricco romano profonde tesori. Preziose opere d’arte, razziate o acquistate a peso d’oro in Grecia e in Oriente, arredano gli ambienti resi confortevoli da impianti di riscaldamento e attrezzature igieniche in tutto paragonabili a quelli moderni, o popolano i giar1ini destinati a creare l’illusione della natura. E la contemplazione della natura è un altro grande piacere dei Romani, negato ai plebei: ne testimoniano le grandi ville, situate in posizioni stupende, messe in luce dagli archeologi o descritte dagli scrittori antichi. “Quando sono nella mia villa di Laurento — scrive Plinio — non ascolto nulla che mi dispiaccia di avere ascoltato, non dico nulla che mi penta di aver detto: nessun desiderio, nessun timore mi turba.” E il piacere più grande: quello di essere in pace, con se stessi e con gli altri.
Dal risvolto di copertina