l’Unità 8.7.10
Macché veleno Cleopatra fu vittima di Ottaviano
di Benedetto Marzullo
Un recente scoop (la Repubblica, 28 giugno, p. 37) proclama che «Non fu l’aspide, Cleopatra morì bevendo cicuta». Due studiosi, ovviamente americani, lo assicurano: un antichista, col debito sostegno di un tossicologo. Induttivamente, essi escludono che la regina ricorresse al veleno, consapevole che il tossico, tuttavia sperimentato a quel tempo (nel bene e nel male), «avrebbe procurato una...morte, ma solo dopo sofferenze atroci, salvo complicazioni, un salvataggio inatteso. Ripiegò quindi su una pozione di oppio e cicuta (!), addirittura lasciò istruzioni di (per) costruire la leggenda del morso del serpente, per restare nel ricordo della eternità». Espedienti di sorprendente vacuità: ingiuriosi per una regina, per una donna, dotata di senno, in verità di autentico senso della storia, di leggendario talento. «Menzogna gigante (in italiano gigantesca), ma via che cosa non si perdona a una donna bellissima e geniale», conclude tollerante l’articolista. La parola «genialità» non basta per fare storia, tanto meno per accreditarla, farisaicamente.
Che Cleopatra sia morta è indiscutibile, fantasioso però che provvedesse personalmente ad imbastire un copione da operetta, attuandone regia ed interpretazione. Della sua esistenza avventurosa, femminilmente chisciottesca (sembra il prototipo della drag queen), poteva dirsi soddisfatta: avrebbe continuato imperturbata ad esibirla (e a goderne), salvo eventi imprevedibili. Culmine delle sue aspirazioni era un impero planetario, miraggio della intera dinastia, ostinatamente perseguito dal suo capostipite Alessandro, meritamente designato Magno, stroncato anche lui dalla morte (naturale?) a poco più di trent’anni, in congiunture in apparenza non diverse dalla straordinaria Cleopatra: essi tentano una impresa ecumenica, fantasmagorica per l’Occidente, destinata a travolgerli. La dimensione, straordinaria, ma femminile di Cleopatra, risulterà delirante: della vicenda si impadronirà il cinema, i ristretti confini drammaturgici vengono forzati dalla ingorda filmografia, a riattivare se non esacerbare la commozione provvederanno sopravvenuti: spesso incauti studiosi, avventurieri massmediatici.
Non resta che rinunciare ad affabulatorie divagazioni, ritornare alle fonti, per quanto trasmesse da testimoni postumi, talvolta perplessi, superficiali. Plutarco (il maggiore, un secolo più tardi) di continuo avverte della aleatoria tradizione. Tra romanzeschi dettagli, riferisce che la regina, dopo una estrema visita dello sfortunato Antonio, rimpiange tra le innumerevoli sofferenze la stragrande brevità del tempo vissuto lontana (?) da lui, provvede ad una energica toilette: si abbandona tuttavia ad un banchetto «sontuoso» (Plutarco non saprebbe usare più acconcia sommarietà). Solo interrotto all’arrivo di un pastore, che le consegna il cesto dei fatidici fichi (abbondano, del resto, in Egitto), licenzia tutti, salvo le rituali due ancelle, scrive un biglietto ad Ottaviano. Che arriva, fulmineamente. Intuisce la tragedia, spalanca le porte, la catastrofe è compiuta: Cleopatra giace morta, su un letto ovviamente d’oro, regalmente addobbata.
Delle figliole, una era spirata ai suoi piedi, l’altra semisvenuta, il capo rovesciato, cercava di acconciarle il diadema sulla testa. Qualcuno potrebbe dirle, irritato: «Stai facendo bene, ragazza?» E lei: «Anzi benissimo, come si addice a chi discende da tanta dinastia». Non disse altro, crollò ai piedi del letto. Il duetto appare dovuto all’ingegno di Plutarco, farisaico pennaiolo.
Le vittime della sceneggiata sono indissolubilmente tre, un impreveduto eccidio: unico il mandante, identici gli esecutori, due involontari testimoni. Ad ordinarlo è indubitabilmente il giovane Ottaviano, definitivamente sbarra le porte dell’Oriente, lo riunisce con l’Occidente. Verrà consacrato col risonante nome di Augusto (27 a. C.), il primo degli imperatori romani: a dispetto di Cleopatra, della sua stravolgente bellezza.